Quattordici

Lo svegliò il telefono, erano da poco passate le otto.

«Chi è?» chiese con malagrazia.

«Sono Franca Chiapponi… Spada, si ricorda?»

«Sì, certo. Mi dica, signora».

«Mi hanno chiamata perché vogliono parlarmi».

«Chi l’ha chiamata?»

«In questura, una certa dottoressa Santini: la conosce?»

«Sì… è incaricata delle indagini per la morte di suo figlio».

«Devo andarci?»

«Certo».

«Viene con me? Lei è il mio avvocato, vero?»

«Sì… quando e a che ora?»

«Oggi alle quattro. Passo a prenderla?»

«No, grazie. Ci troviamo lì». Sarebbe andato prima e si sarebbe informato.

 

La dottoressa Santini alzò appena la testa, quando lo vide entrare. «Ah, è lei… e la signora?» domandò, spegnendo la sigaretta nel posacenere.

«Buongiorno. Sta arrivando».

«Sì, buongiorno. Con il chiasso che sta facendo suo marito, lei che cosa c’entra?»

«Niente, a quel che so. Vuole soltanto sapere chi le ha ammazzato il figlio».

«Che si è suicidato?» Fece una smorfia. «Originale. E lei, avvocato?»

«Anch’io non accetto la tesi del suicidio. Sono il suo avvocato di fiducia, vedremo…»

«Già, abbiamo giusto tempo da perdere…» Guardò la spia del telefono che stava lampeggiando. «Ecco, è arrivata».

Franca Chiapponi entrò nella stanza con un certo imbarazzo. Tese la mano alla dottoressa Santini, salutò con un sorriso e un breve cenno del capo Gilardi, si sedette accanto a lui.

Max Gilardi notò che le tremavano le mani.

«Ecco, signora» le disse, cercando di avere un tono calmo e rassicurante, «la dottoressa Santini è incaricata delle indagini per quanto riguarda la morte di suo figlio, in relazione al processo che suo marito…»

«Ecco, avvocato… glielo dica anche lei, che io con le storie di mio marito non c’entro né ci voglio entrare… glielo dica».

«Glielo sta dicendo lei».

«Ecco, appunto. Glielo sto dicendo» ripeté, guardando la dottoressa Santini, che aveva acceso intanto un’altra sigaretta. «Mio figlio non si è suicidato, di questo sono sicura. Voglio sapere chi e perché me l’ha ammazzato. Questo solo. E vederlo crepare in galera. Questo e basta».

«Perché è così sicura che non si sia suicidato? A diciotto anni…»

«Appunto. A diciotto anni, quando si è come era lui e si ha quello che lui aveva, sano di mente com’era, non ci si ammazza in quel modo orribile… ma andiamo!»

«Non sarebbe il primo caso…»

«Forse. Ma non è questo caso. Glielo dico io».

«Capisco…» Anche se non capiva. Alla dottoressa Santini sembrò una scena che aveva già visto altre volte. L’impossibilità di una madre di accettare l’idea che suo figlio non fosse felice come immaginava. «Capisco» ripeté. «Lei, avvocato?»

«Sì, concordo con la mia cliente. Anch’io non accetto la tesi del suicidio».

«Che invece accetta il padre, il commendator Spada».

«Che lui faccia quello che vuole. Io non sono mio marito. Se lui fa un processo, io voglio sapere chi ha ammazzato mio figlio. E non m’importa un accidente che mio marito se la prenda con le Ferrovie! Qui c’è un assassino e io voglio sapere chi è e perché mi ha ammazzato questo mio figlio… l’unico figlio che avevo». Si asciugò rapida gli occhi con un gesto nervoso, vergognandosi della propria commozione.

Con calma, aiutata da Max Gilardi, ripeté alla dottoressa Santini quello che aveva detto anche a lui. Mostrò le fotografie di un bel ragazzo biondo e spavaldo di diciotto anni. «Questo era mio figlio… perché avrebbe dovuto ammazzarsi?» Raccontò di quello che aveva, di come viveva. Della ragazza.

«Aveva una ragazza?»

«Sì, una compagna di scuola…» aggiunse in fretta, «niente di serio». Già pentita di averne parlato.

«Vedremo anche lei. Quel suo compagno…» aggiunse guardando Gilardi.

«Sì, dottoressa, Aziz Bernardini».

Franca Chiapponi si stupì che parlassero di lui. «Aziz? Un gran bravo ragazzo, dottoressa. Lui no. Erano amici, l’ha sempre aiutato… Aziz, no».

«Non c’è niente contro Bernardini. L’abbiamo già sentito. C’è altro che lei può dirci e che possa esserci utile nelle indagini?»

«No, dottoressa. Solo questo: mio figlio non si è ammazzato. L’hanno ucciso e io voglio sapere chi è stato. L’avvocato Gilardi è il mio avvocato di fiducia… è così che si dice, vero?» La dottoressa Santini fece un breve cenno di assenso con il capo. «Ecco, appunto: io ho fiducia in lui».

Si era alzata, e Gilardi si alzò con lei. «Grazie, dottoressa. Naturalmente metteremo a sua disposizione tutto quello che potremo reperire di utile. Avrà tutta la nostra collaborazione».

«Ci conto, Gilardi. Ci lavoreremo». Spense la sigaretta e si alzò. «Faremo tutto il possibile» ripeté, stringendo la mano che Franca Chiapponi le porgeva attraverso la scrivania. «Grazie per essere venuta. Ci manterremo in contatto».

«Possiamo accedere all’autopsia del ragazzo?»

«Per la parte che vi riguarda, sì. Potete rivolgervi al dottor Funari, ha già istruzioni in merito. Grazie, avvocato».

 

«L’autopsia del ragazzo» disse Ricky, quando si ritrovarono in studio e Gilardi gli riferì dell’incontro con la dottoressa Santini. «Dobbiamo cominciare da lì».

«Sì, fatti dare il via libera per il patologo, il dottor Cornelio Funari».

«Chiedo un appuntamento?»

«Sì, voglio parlargli. Ho chiesto intanto a Giacomo Cataldo, un investigatore privato che lavora con noi su questo caso, di occuparsi dell’auto. È sequestrata, naturalmente, ma andrà a vedere se può fare domande. Le conclusioni dell’esperto della questura che ha effettuato le analisi sono a disposizione. Gli ho chiesto altri controlli. Staremo a vedere».

Ricky scosse la testa. «Lei si rende conto, avvocato, che quando avremo raccolto le prove che il ragazzo non si è suicidato ma è stato ammazzato, qualcuno dovrà anche trovare chi è stato?»

«I tribunali ci sono per questo. E allora?»

 

Il dottor Cornelio Funari li ricevette in laboratorio. Il camice slacciato, l’aria indaffarata di chi ha poco tempo da dedicare. Non si poteva dire che somigliasse a un attore del cinema, non aveva neppure quella che si definisce ‘una bella presenza’. Di mezza età, il viso segnato e l’aria distratta, era di statura media, pochi capelli che erano stati biondi, occhi chiari, occhiali alti sulla fronte, barba di un giorno o due.

«Per quel ragazzo?» chiese. Li condusse verso un banco davanti al quale era sistemato uno schermo gigante. «Sì, guardate qui…» Sullo schermo mostrò il viso ricomposto di Carlo Spada, che Gilardi riconobbe. «E questo è il torace… quelli sono i segni che corrispondono al volante dell’auto, dove è andato a sbattere violentemente nell’impatto con il treno…» Fece scorrere altre immagini sempre dello stesso punto, ripreso da altre angolazioni. «Questo invece» indicò con il percussore un punto dell’addome. «Questo è della cloche del cambio». Mostrò altre riprese della testa. «Il collo spezzato dal contraccolpo… ecco, in questo punto, vede? E la ferita alla testa, per il parabrezza. Ecco, qui si vede meglio… Non c’è altro».

Allontanandosi dal banco diede un’occhiata a Ricky, che stava riprendendo le immagini con il nuovo iPad. «Fatto, giovanotto?»

«Il dottor Russo, del mio studio: scusi, non vi ho presentati».

Cornelio Funari fece di sì con la testa. «Altro?»

«Sì… l’ora della morte?»

«Quella che hanno stabilito sul posto, era ancora caldo. Cioè tra quando è avvenuto l’impatto e quando l’hanno portato qui. Era facile essere precisi».

«Quindi lei mi sta confermando che è morto in quel momento, più o meno».

«Sì, posso confermare che non era morto due o tre ore prima, se è questo che mi sta chiedendo».

«Grazie. Era drogato…»

«Pasticche e molte bevande alcoliche, anche pesanti. Bevono di tutto e si impasticcano…»

«Possiamo dire, come lei ha affermato, che era drogato e ubriaco?»

«Possiamo dirlo».

«Quindi, ricapitolando, questo ragazzo, ubriaco e impasticcato guida fino alla Gabbianella, in orario con il treno che passa, si mette di traverso sulle rotaie e aspetta il treno. Per suicidarsi».

«Come lo sta dicendo lei, ora, sembra una sceneggiata alla Poirot. Ma fino a prova contraria, questi sono i fatti, come risultano a me».

«Certo. Chi ha riconosciuto il corpo?»

«I genitori… il padre. La madre, che era con lui, si è sentita male e abbiamo dovuto allontanarla».

«Un’ultima domanda. Lei ci ha mostrato che ogni ferita corrisponde a una causa precisa. Il volante, la cloche, il parabrezza… ho capito bene?»

«Benissimo».

«Ci sono ferite o segni che non sono riconducibili a una causa riscontrata?»

Funari stette un attimo ad osservarlo, come se volesse rendersi ben conto del significato di quella domanda. «Cioè, se gli hanno sparato?» domandò.

«Credo che una pallottola sarebbe stata evidente. Qualcosa di meno evidente, una puntura, per esempio…»

Funari scosse la testa. «No, non ci abbiamo pensato. In quelle condizioni, con un treno che l’ha scaraventato contro la parete della montagna… lei ha visto la macchina?» Max Gilardi scosse il capo. «A chi poteva venire in mente di cercare una puntura… Ma a quale scopo, mi scusi? Non si è suicidato?»

«È da dimostrare, dottore. E sua madre non ne è convinta».

«Sospetti? Tanto per sapere che cosa cercare».

«No, niente di preciso. Sua madre è convinta che suo figlio sia stato portato là già morto».

«Ma gli orari…»

«Coincidono. Il ragazzo che l’ha portato a casa in macchina, l’ha lasciato circa alle due. Quindi, se l’hanno ammazzato, è tra le due e le tre e venti, al passaggio del treno».

Funari si allacciò il camice, forse un segnale che l’incontro era terminato. «Nessuno me ne aveva parlato. Immagino che il ragazzo che era con lui sia estraneo ai fatti». Max Gilardi approvò con il capo. «Quindi un altro, che lo raccoglie e lo porta in auto alla Gabbianella, lo mette di traverso sui binari… No, lei mi sta dicendo che gli fa prima una iniezione letale e poi… Interessante». Era chiaro che dentro di sé stava ridendo.

«Qualcosa del genere, infatti. Potrebbe ricontrollare se esiste questa possibilità? Un segno qualunque che non corrisponde a una causa certa e plausibile?»

«Ci proverò, certo. Mi ci vorrà tempo».

«Quanto, per esempio? Devo conferire con la dottoressa Santini…»

«Mi lasci quattro o cinque giorni, avvocato. Dove la trovo?»

Ricky Russo gli mise sul tavolo il suo biglietto da visita già con l’indirizzo di Gilardi. «Può chiamare me, dottore. Grazie».

«Tipino facile» disse Ricky, salendo in macchina.

«Tutto il giorno in mezzo a cadaveri: tu avresti un umore diverso? Comunque è il migliore a Napoli, e io mi fido di lui».

«Davvero si aspetta una risposta, avvocato? Io ho guardato le foto, un corpo a pezzi, distrutto… come farà?»

«È il suo mestiere. E lo sa fare molto bene. Impara ad avere fiducia in chi se la merita, non puoi fare tutto da solo».

 

Rientrando in studio trovarono Giacomo Cataldo con una busta di fotografie.

«La macchina» disse.

«Novità?»

«Sì, accidenti. Guarda».

Dalle foto che misero sul tavolo Max Gilardi capì di aver avuto ragione: dove era stato possibile riprendere i segni riconoscibili delle gomme dell’auto sul terreno accidentato che dalla città portava alla Gabbianella, la marcia era regolare, diritta, senza sbandamenti. I segni delle ruote precisi.

«Era ubriaco e dormiva… come ha fatto a svegliarsi di colpo e a guidare con questa regolarità su una strada al buio? Un fenomeno, accidenti».

«Già… ma tu che idea ti sei fatta?» chiese Giacomo.

«Nessuna. Non mi pagano per avere idee, ma per raccogliere prove. E ora sto costruendole».

«Ma chi è stato?»

«Questo è un altro discorso. Provare che non è morto per lo scontro con il treno è una cosa, trovare chi l’ha ucciso è un’altra. Mi basterebbe trovare come l’hanno ucciso, altra domanda senza risposta per il momento».

«Ma tu…» In modo goffo Giacomo lo abbracciò. «Se hai ancora bisogno sai dove trovarmi».

«Dovremo chiedere un colloquio alla dottoressa Santini. È lei incaricata delle indagini e mi piace. Quando ci siamo incontrati ha fatto domande secche, credo che abbia capito dove stavo andando a parare. Mi piace».

«È sposata!» gli urlò Giacomo, uscendo.

«Ma vatti…»

 

Con Ricky riguardarono le fotografie della macchina, lamiere contorte, vetri spaccati, sangue e pezzi di carne ovunque.

«Come avrebbe fatto a salvarsi… E la strada, guardi qui…» disse, mostrandogli un percorso accidentato che la fotografia mostrava con grande evidenza.

«Sì, raccogli tutto e aspettiamo».

«Che idea s’è fatta, avvocato?»

Max Gilardi sorrise. «Sarete i primi a saperlo. Per ora non c’è nessuna idea».

Ma stava mentendo.