Quarantadue
Costanza Prati aprì la porta e deglutì, prima di sorridere. «Che cosa ci fai, qui?»
«Scusa, posso entrare?»
Costanza Prati indossava un accappatoio e aveva i capelli raccolti in una spugna annodata a turbante. Si fece da parte per lasciarlo passare. «A che cosa devo?…»
«Sì, scusa. Giacomo…»
«Sì, lo so. Ho parlato con Elena due minuti fa. Mi dispiace, ma mi sembra la soluzione giusta. Entra, avanti: che cosa ci fai sulla porta? Sembra che tu abbia visto un fantasma: sono io in accappatoio». E tentò di ridere.
«Sono venuto qui…»
«Hai fatto bene, siediti. Vado a vestirmi… accomodati dove vuoi».
Max Gilardi si sedette sul divano bianco, accanto al camino, e accese il televisore: avevano interrotto la trasmissione e stavano trasmettendo la telecronaca della bomba al cantiere Notarnicola. Max Gilardi spense e chiuse gli occhi.
Rientrando in salotto Costanza Prati lo trovò così, con la testa appoggiata a uno dei cuscini del divano, il corpo rilassato in un abbandono sofferente.
«Incredibile, vero?»
«Sì, incredibile. Anche la successione dei fatti sembra incredibile». Si rianimò nel ricordo di quelle ore. «Avevo deciso di andare da Elena per dirle, come mi aveva suggerito Giussani, che sarebbe stato prudente per lei cedere o chiudere definitivamente il cantiere. Tu sai certo perché». Costanza Prati, che aveva indossato una vestaglia di maglia azzurra e aveva lasciato sciolti i capelli ancora umidi, annuì. «Certe coincidenze mi terrorizzano. Sembrano studiate a tavolino, come un cattivo romanzo. Mi è già capitato». Si riferiva alla morte di Natj. «Terribile come la vita possa cambiare in un momento, senza preavviso, senza consentirti nessuna difesa».
«Sì, hai ragione. Ma adesso calmati, hai fatto tutto quello che hai potuto. Vuoi bere qualcosa?»
Max Gilardi scosse la testa. «No, vorrei mangiare, grazie. Non ho cenato».
Si ritrovarono in cucina. Max Gilardi aveva aperto il frigorifero estraendo formaggi, paté, salmone affumicato, burro. «Hai del pane?»
Si sentì ridicolo, ma aveva fame. Quando si è confusi, storditi, insicuri, si ha bisogno di mangiare. E non da soli. Guardò Costanza Prati e le sorrise. Era contento che lei fosse lì.
«Mi dispiace, sei capitato proprio nella serata di libera uscita dei domestici» scherzò, facendogli capire che non c’erano domestici. «La governante si è già ritirata: vuoi che la chiami e che ti faccia preparare qualcosa?» Anche la governante ero uno scherzo. Voleva vederlo sorridere.
«Mi stai sfottendo, vero? Sai fare un caffè?»
«Certo. Davvero ti basta?»
«Davvero».
Mentre Costanza Prati gli apparecchiava il posto sul tavolo di servizio, Gilardi guardava incantato la massa di capelli lunghissimi e biondi che le ricadevano ancora umidi lungo la schiena. Chissà a letto dove li tiene… un pensiero irriverente che lo rasserenò. Forse le cose capitano.
Chiacchierarono, non più di giustizia e di politica. Di cavalli e di sci, le passioni di Costanza Prati, che Max Gilardi non condivideva.
«Non fai sport?»
«Penso: non basta?»
«Mai sentita la frasetta: mens sana in corpore sano? Credici, è vera».
«Io ho un corpore sanissimo, signora. Da ragazzo ho tirato di boxe, e sono stato campione universitario di nuoto. Nuoto ancora, quasi ogni giorno: può bastare?»
«Meno male. Altrimenti diventeresti grasso e perderesti tutto il tuo fascino».
«Forse in questo momento, e nel pantano in cui mi trovo, non mi dispiacerebbe».
«Guai di cuore?»
«No, di testa. Sono i peggiori». Lo interruppe il suo cellulare. Lo aprì, lesse il messaggio e lo richiuse. «Era Giacomo, ha scritto partiti. Significa che li ha imbarcati a Fiumicino per New York. Posso dire una cosa? Forse non gli daranno una medaglia e nessuno saprà mai chi è Giacomo Cataldo. Ma ti assicuro che non ce ne sarà mai un altro come lui».
«Sono perfettamente d’accordo. Anch’io lo stimo molto e sono contenta che siate amici. Sarà sempre capace di proteggerti. E forse ne avrai bisogno anche tu. Gli investigatori privati sono spesso dei ficcanaso. Cataldo è retto come un soldato». Gli offrì il caffè e si sedette davanti a lui. «Ora che cosa vuoi fare?»
«Parli di questo momento? Posso stare un po’ di là a guardare la tua televisione? Mi angoscia il pensiero di tornare a casa».
«Certo, vieni. E quando sei stanco di guardare la TV, in fondo a questo corridoio dove c’è la luce accesa c’è la stanza degli ospiti con il bagno. È pronta, puoi coricarti in quel letto quando vuoi. Io ti saluto e vado a dormire perché domattina ho la sveglia alle sei e mezza».
«E che cosa ci fai in piedi alle sei e mezza?»
«Viene il mio personal trainer e facciamo ginnastica, poi nuoto in piscina. A proposito, ho una piscina coperta qui sotto, se vuoi tenerti in allenamento. Colazione, e tribunale alle nove. Buonanotte, Max. Fai come se fossi solo».
«Grazie, buonanotte». Era davvero solo, come lo era stato poche volte nella sua vita.
Quando avvertì il cellulare, Max Gilardi si stropicciò gli occhi e faticò a ricordare dove fosse. Era sdraiato sul divano bianco di Costanza Prati, qualcuno gli aveva steso addosso una coperta. Erano passate da poco le otto e in casa non si sentiva alcun rumore.
Aprì il cellulare. Un messaggio breve: Saluta Costanza, ciao.
«Elena?» domandò la voce di Costanza dalla cucina.
Max Gilardi la raggiunse. «Ciao, già pronta? Allora, sì. Era di Elena anche se il cellulare non era il suo. Molto prudente. Perché mi scrive di salutare te? Come faceva a sapere che ero qui?»
«Non lo sa, infatti. Sono stata io a dirle che, arrivando, mandasse un messaggio a te con i saluti per me, così mi avresti telefonato e io avrei saputo che erano arrivati. Pura strategia. Non immaginavo certo che tu avresti passato la notte sul mio divano».
Rideva, con i capelli ricomposti dietro la nuca, gli occhiali fumé ad attenuare la stranezza del suo sguardo, l’impeccabile tailleur, poco trucco. Perfetta. Lontana come può esserlo la terra dal sole. E se Costanza poteva rappresentare la terra, il sole non era certamente lui. Si sentiva stropicciato, e non soltanto metaforicamente.
Costanza gli offrì il caffè. «Aspetta un bambino» disse.
«Sì, me l’hanno detto ieri sera».
«Forse avrebbero potuto aspettare… ma si sa, certe cose capitano quando capitano». Perché gli sembrò di percepire una particolare allusione in quelle parole? «Comunque sono contenti e immagino che si sposeranno in California. Il matrimonio da favola che Elena aveva progettato di organizzare a Napoli, tre giorni di festa come nei matrimoni reali, non ci sarà. L’importante è che sia felice. Ti piace Luciano?»
«Direi di sì, lo conosco poco. Ma lei ne parla con affetto e molta stima…»
«Uhm, che brutto modo di dirlo… Amore è una parola che non conosci, avvocato?» Max la fissò intensamente senza rispondere. «Pericoloso pronunciare la parola amore davanti a te?»
«Assolutamente inutile». Si alzò da tavola. Costanza gli aveva mostrato dove era la camera degli ospiti e il bagno dove avrebbe potuto fare una doccia prima di uscire. Le prese la mano. «Grazie, Costanza. Sei una donna straordinaria. Se fossi anche disordinata saresti perfetta».
Costanza rise, quando rideva era bella. «Va bene, quando vuoi io sono qui. Ti aspetto, Max, lo sai. E ti giuro: non mi innamorerò di te e non ti chiamerò mai amore. Proposta accettabile?»
«Direi di sì. Devo rifletterci. Per ora grazie, avevo bisogno di sentirtelo dire». Quando Costanza Prati chiuse la porta, Max Gilardi strinse i pugni: era vivo.
Alle sue spalle lo raggiunse il cameriere.
«Il signore fa doccia? È tutto pronto in camera ospiti, se vuole».
«Sì, grazie. Anche un altro caffè, per favore».