Undici
Ci pensò due giorni, per sapere se quello che voleva fare andava fatto.
Ci ragionò da solo, come faceva quando era commissario. Tutte le ipotesi, senza scartarne nessuna e dando a ognuna una spiegazione plausibile. E sostenibile di fronte a chiunque.
Quando era stato commissario, l’aveva molto aiutato il suo passato avvocatizio. Ora lo sosteneva la sua esperienza al commissariato. Il gusto dell’indagine gli era rimasto.
La mattina del secondo giorno passò davanti al liceo classico verso l’ora di chiusura delle lezioni. In piedi, vicino a una delle piante del viale, aspettò con l’aria di chi fosse lì per caso.
Cominciarono a uscire alcuni ragazzi, delle prime classi, giudicò dall’età. Poi qualcuno più grande, qualche ragazza già con i tacchi e la gonna sopra il ginocchio o i jeans sotto l’ombelico.
Ci siamo, pensò.
Il primo a vederlo fu Aziz. Alzò il braccio verso di lui e gli corse incontro.
«Ancora grane?» domandò, senza neppure salutarlo.
«No, nessuna. Passavo di qui… era la mia scuola». Non era vero, ma gli sembrò una scusa plausibile. Intanto stavano uscendo gruppi di ragazzi; alcuni si fermavano intorno a loro, altri passavano senza guardare. I due che erano stati al bar di Felice lo salutarono a voce alta, facendosi riconoscere.
Aziz chiamò uno di quelli che stavano passando. «Ehi, Barto… è il mio avvocato».
«E chi se ne fotte».
«Sapete, abbiamo seguito i giornali, la televisione… non ci capiamo niente. Qualcuno è per il suicidio e qualcuno per l’omicidio…»
«E voi da che parte state?»
Rispose uno, di statura bassa e carnagione scura. «Non lo sappiamo. Qualcuno l’ha sentito che lo diceva, che voleva morire alla Gabbianella… cazzate che si dicono».
«Ma se era un fifone? Non te lo ricordi che urlava sempre ed era sempre il primo a nascondersi? Per ammazzarsi ci vuole fegato…»
«Sì, quello che hai tu, figuriamoci! Io dico che l’ha fatta finita, e basta».
«Io dico che ce l’hanno portato e l’hanno legato. Altrimenti se la dava a gambe, anche ubriaco e fatto com’era».
«Ma va… per farlo fuori dovevano portarlo fin là? Bastava un colpo in testa, era fatto».
«Io ci credo».
«E voi, avvocato» gli chiese uno dei ragazzi più alti del gruppo. «Da che parte state, voi?»
«Se studierai legge imparerai che l’avvocato non deve avere opinioni personali».
Il ragazzo gli rispose con una pernacchia e tutti scoppiarono a ridere.
Aziz li interruppe. «Oh, ecco, guardate». Max Gilardi guardò verso il punto che Aziz gli stava indicando: il portone della scuola. E sul portone una bella ragazza molto bruna e molto appariscente, con una massa di capelli ricci intorno al viso, gli occhiali scuri e un abito molle che le si appoggiava sul seno e sui fianchi. «Quella è Gioia, la ragazza di Carlo. Gioia Bruni… ve la chiamo?»
«No, lascia stare».
«Zoppica» rise uno. «Caduta dai tacchi!» aggiunse a voce più alta, facendo imbuto con le mani intorno alla bocca.
La ragazza, che intanto stava avvicinandosi zoppicando, alzò una mano verso quello che aveva parlato. «Scemo, vorrei che capitasse a te».
«Intanto è capitato a te. E ora sei senza macchina e senza autista, vero?» Facendo con le mani il gesto di guidare una motoretta, aggiunse: «Se sua altezza vuol favorire». Altro scoppio di risate.
Max Gilardi capì che era arrivato il momento di interrompere quello scambio di battute. «Mi ha fatto piacere avervi incontrato. Statemi bene… e mi raccomando la scuola, era la mia».
Si sparpagliarono, affrettando il passo verso le motorette del parcheggio. Aziz gli strinse la mano e si avviò a piedi.
Max Gilardi andò incontro alla ragazza. «Posso aiutarti? Sono…»
«Sì, lo so chi siete voi. Accidenti, con Aziz è stato bravo, una forza». Si era fermata e si era tolta gli occhiali: occhi verdi e inquietanti.
«Aziz ha fatto tutto da solo, era pulito. Invece, posso aiutarti? Davvero sei rimasta a piedi?»
«No, grazie. Ho avvertito mio padre, verrà a prendermi».
Mentre la ragazza parlava, Max Gilardi la osservava, soprattutto le mani con le unghie dipinte e scrostate: forse le rosicchiava come faceva da bambina. La giudicò di famiglia modesta. Forse operai.
«Quando ti sei fatta male?»
«Proprio quella sera, mentre ballavo. Una storta…»
«Tu eri la ragazza di Carlo» disse, senza preamboli.
«Sì… in macchina con lui ci sarei dovuta essere io. Proprio la sera in cui mi sono fatta male…» Modulò la voce e la trasformò in un sospiro. «Non so darmi pace. Mi chiedo se avremmo potuto fare qualcosa che non abbiamo fatto…»
Max Gilardi arricciò il naso: sentì l’imbeccata di Ciccio Caremi.
«In casi come questo è difficile poter fare qualcosa».
«Oh, lo so, lo so… suicidarsi a diciotto anni…» Altra imbeccata.
Offrendole il braccio perché si appoggiasse, si incamminarono verso quel prato mal ridotto e ormai secco che era davanti alla scuola, con un’unica panchina ancora con le traverse di legno scorticato, il supporto in ferro scuro. Sulla traversa che faceva da spalliera qualcuno aveva scritto in stampatello: Ti amo, Max…
Gioia Bruni glielo indicò puntando il dito. «È il vostro nome? Vi chiamate Massimo, vero?»
«Dubito…» Si sedettero e Gioia allungò le gambe.
«Possiamo fare due chiacchiere?» La ragazza mormorò sottovoce un okkei senza grazia. «Questa storia mi incuriosisce… come a tutti, penso. Quando non si capisce, quando non se ne viene a capo… Tu ti sei fatta un’idea? Eri la sua ragazza. A te pare possibile che si sia suicidato?»
«Non lo so, continuo a chiedermelo. Non lo so. Io credo a quello che so». Altra imbeccata di Ciccio Caremi, poteva scommetterci.
«E che cosa sai?»
«Guardate…» Gli aprì il cellulare e fece scorrere le dita in fretta. «Leggete qui…»
Amore G…. Torniamo a G…. Ti amo G….
«Non capisco. Chi è G?»
«G sta per Gabbianella. Vi rendete conto? Noi siamo stati là la prima volta… insomma, capite…» Max Gilardi aveva capito, ma non voleva interromperla. «La Gabbianella era il nostro modo di dirci certe cose che solo noi capivamo. Poi me l’ha scritto…» Frugò nella sacca e trasse un diario scolastico. «Ecco, leggete qui».
Max Gilardi guardò le due righe scritte a penna che Gioia gli stava mostrando: Io voglio morire alla Gabbianella…
«E anche qui. Questo è di una settimana prima… Non riesco a leggerlo». E strinse le labbra per impedirsi di piangere. «Anch’io morirò a G. dove ci siamo amati. Ricordati. Capite?»
«Andavate d’accordo?»
«Ma per carità! Ci amavamo, altroché se andavamo d’accordo».
«E Aziz?»
Gioia si voltò di scatto a guardarlo. «Che cosa ha raccontato, quel bastardo?»
«Niente che ti riguardi. Ero da Felice una sera e ho sentito che Carlo stava insultando Aziz a causa tua. La domanda mi è venuta da lì» si giustificò.
«Ah, volevo dire… Aziz è molto carino, gentile. Mi fa gli occhi dolci. Ma è amico di Carlo… era amico di Carlo… Non l’avrebbe mai fatto, non lui».
«Lo credo anch’io».
«Aziz, il biondino… così Carlo lo chiamava. Si volevano bene. Sono contenta che l’avete tirato fuori dai guai».
«Non ne aveva. Invece Carlo che ragazzo era? Non mi sono fatto un’idea».
«Meraviglioso, credetemi, avvocato. Ci amavamo…» S’interruppe, e Gilardi notò che era leggermente arrossita. Stava passando accanto a loro un uomo biondiccio, di media statura, con il viso segnato, le labbra sottili e gli occhiali. Sotto il braccio una cartella di cuoio nero. «Buongiorno, professore. Vedete, sono tornata a scuola». Accompagnò la frase con una risatina eccitata. Il professore le sorrise appena e proseguì. «Il nostro professore di matematica» spiegò. «Io vado male, accidenti… e lui è una carogna, ti scortica con i voti».
Intanto si era fermato davanti a loro un camioncino con una scritta blu di traverso, che Max Gilardi non riuscì a leggere. Ne scese un uomo basso di statura e robusto, con i jeans sporchi di vernice. Si diresse verso di loro.
«Ancora ti fa male? E voi siete il dottore?»
«No, babbo. Lui è l’avvocato di Bernardini, era qui a parlare con i ragazzi».
«E cosa volete da mia figlia?» Il tono altezzoso che di solito hanno quelli che sono dalla parte del torto.
«Niente, stavo soltanto cercando di aiutarla. Ma ora che è arrivato lei, io sono inutile».
«Sì, grazie. Andiamo, fai in fretta che sono in ritardo».
«Piacere di avervi conosciuto, avvocato. Tanto piacere mio».
No, pensò Gilardi: tanto piacere mio.
Si girò verso la scuola d’istinto, senza nessuna ragione. E vide che il professore di matematica lentamente stava camminando verso di lui.
«Lei è l’avvocato Gilardi, vero?»
Non immaginava di essere famoso in quella scuola. «Sì».
«Io sono il professore di matematica di quella classe». Gli tese la mano: «Aldo Milasi».
«Molto lieto». Dall’accento capì che veniva dal nord, forse dal Veneto.
«Era qui ancora per Bernardini? Gran bravo ragazzo. Il migliore della classe e uno dei migliori della scuola. Spero che continui a studiare».
Stavano camminando verso i cancelli che ormai erano chiusi. Il professore aprì con uno scatto un portoncino laterale e si fece da parte per far passare Gilardi.
«Lei non è di qui».
Il professore sorrise. Aveva un viso segnato, interessante. I capelli biondi sembravano schiariti per alcune ciocche già grigie. Lisci, ben acconciati per coprirgli in parte la fronte e le orecchie. Piccole rughe intorno agli occhi e alla bocca. «Di Trieste». Fece una pausa, per sottolineare l’importanza di quella provenienza, evidentemente non apprezzando Napoli allo stesso modo. «Ho insegnato al liceo per quattro anni e poi mi hanno trasferito a Napoli. Capita». E sorrise con occhi azzurri, di ghiaccio.
«Mi piacerebbe fare due chiacchiere con lei, possiamo?»
«Certo. Un boccone insieme?»
«Buona idea. Lei sa dove, qui intorno?»
«Sì, venga, possiamo andarci a piedi. Non si meravigli, troveremo altri professori, forse. O forse no, oggi è martedì, non ci sono lezioni nel pomeriggio. Venga, è qui dietro».
Era cortese, mai cordiale. Gentile. Educato nel modo in cui sono di solito gli ex-allievi di un collegio religioso.
Il ristorante era uno di quei tipici buchi che fioriscono intorno alle scuole e alle grosse aziende popolari. Molto spartano con un buon profumo di cibi al forno.
«Se le piace la pizza, avvocato».
«Grazie, ho visto una cernietta al forno che mi ispira. Con un’insalata. E lei, professore?»
«Le farò compagnia». Lo disse esitando, come se si concedesse. E gli sorrise.
Mentre Max Gilardi versava il vino nei bicchieri, il professore si tolse gli occhiali, li ripassò con un angolo del tovagliolo e se li rimise. Con gesti minuziosi, precisi. «Voleva parlarmi?» domandò.
«No, non proprio. Ma avendola incontrata ho pensato che avremmo potuto scambiarci qualche opinione. Lei i ragazzi li conosce meglio di me, non c’è dubbio. Mia moglie si occupava di minori. Io sono stato commissario di polizia a Milano, fino a giugno dello scorso anno».
«Trasferito anche lei?»
«No, mi sono trasferito da solo. Ho dato le dimissioni e ho ripreso a fare l’avvocato. In fondo è quello che ha sempre voluto mio padre. Per la verità lui avrebbe voluto che entrassi in magistratura… Ci sto pensando». Guardò la cernia nel piatto che aveva davvero un bell’aspetto e sollevò le posate. «Mia moglie è stata uccisa in un’azione di polizia» disse. E puntò deciso la forchetta nella pancia del pesce.
«Oh, mi dispiace… Che cosa le interessa dei miei allievi?»
Parlarono in generale dei ragazzi di oggi, della loro età, dei loro problemi. Il professor Milasi parlava di loro con toni affettuosi. Si irrigidì sulla disciplina.
«Non sanno neppure che cosa sia. Le famiglie… credo che la colpa sia delle famiglie. Che cosa possiamo fare noi, a scuola, se i genitori sono latitanti? Sono contro di noi. I ragazzi vanno male a scuola ed è colpa dei professori. Li accontentano in tutto, e noi dovremmo fare altrettanto, essere indulgenti. Sono generalmente ragazzi infelici».
«Anche Carlo Spada?»
Il professore restò un attimo a osservare il suo interlocutore. Forse voleva rendersi conto di quale significato avesse quella domanda. Prima di rispondere si pulì la bocca nel tovagliolo. «Sì, avvocato. Anche Carlo Spada. Un ragazzo che aveva tutto e anche di più. Svogliato, intelligente, ma sempre con la testa da un’altra parte. Scontento».
«Potrebbero essere queste le ragioni del suo suicidio?»
«Non lo so, non lo conoscevo fino a questo punto. Era un ragazzo difficile. Ho sentito dire che raccontava di voler farla finita… a quell’età il suicidio è un’avventura. Alla Gabbianella. Non so perché abbia scelto quel posto. Morire a diciotto anni…»
«Caffè, professore?»
«Sì, grazie. Una delle poche cose che apprezzo di Napoli, non me ne voglia».
«Stava dicendo… ah, sì: morire a diciotto anni. E se lo avessero ucciso, invece?»
Il professor Milasi si strinse nelle spalle. «Si è parlato di camorra, di affari oscuri del padre… Vai a sapere. Potrebbe essere?»
«No, lo escludo. La camorra ammazza in pieno centro, alla luce del giorno. Vuole far sapere che è la sua mano. Non ci devono essere dubbi su chi sia il più forte. Lei non è di qui, e forse queste cose le ha lette soltanto sui giornali: la camorra non fa sconti e neppure si nasconde». Si sorprese di quello che stava dicendo, gli sembrò di fare il verso a Giacomo Cataldo.
«Non c’è soltanto la camorra. Qualche affare andato male, per esempio. Come lo chiamate? Uno sgarro».
«Io non so la verità, come non la sa lei. Ipotesi. Ma dubito fortemente che si tratti di vendetta sotterranea. Uccidere il figlio per colpire il padre… Vede, professore, qui le cose stanno così». Appoggiò i gomiti sul tavolo e si sporse leggermente verso il professore. «Se avessero voluto colpire il padre gli avrebbero lasciato un messaggio. Il padre doveva sapere che era lui che volevano colpire. Mi sono spiegato?» Il professore annuì. «Invece niente. Lo avrebbero messo in piazza. Doveva perdere anche la faccia. Ora l’onorevole rivuole il corpo del figlio, un funerale di prima classe, lapide, elargizione a qualche ente benefico. Finito. Così funzionano le cose quaggiù». Sorrise, giocando con le palline di mollica di pane che aveva arrotolato parlando. «Perché ucciderlo alla Gabbianella? A venti chilometri da Napoli, in piena notte?» Finì il vino che aveva nel bicchiere e depose il tovagliolo sul tavolo. «Io credo, ma è solo un’ipotesi perché non conosco a fondo la faccenda, che volessero colpire lui. Proprio lui, ma perché? Il ragazzo si drogava: è questo? Ha fatto uno sgarro o la spia a qualcuno? Questo è il mistero che qualcuno dovrà spiegare».
«Quindi lei esclude il suicidio, che sembra invece probabile a tutti, soprattutto a quelli che lo conoscevano. Persino ai suoi genitori».
«No, non lo escludo. Io non ero lì».
Il professore si passò una mano sugli occhi, sotto gli occhiali. «Lei conosce poco i ragazzi di quell’età. Non sono felici… alcuni sì, certo. Ma molti di loro sono ragazzi soli, cresciuti in famiglie dove non c’è amore ma vizio, solitudine, ignoranza. Spesso, prepotenza».
«Non mi sembra il caso del figlio di Spada, per quel che se ne sa».
«Appunto. Per quel che se ne sa, avvocato. Carlo era un ragazzo viziato e lasciato molto a se stesso. Prepotente, come lo sono spesso i deboli. Un ragazzo difficile».
«Aveva molti amici» azzardò Max Gilardi.
«No, anche a questo non credo. Mi dispiace. Morire a diciotto anni… Terribile». Alzò gli occhi verso Gilardi e gli sorrise appena stirando le labbra sottili. «Che cosa sarebbe meglio, avvocato: pensare a un suicidio o a un regolamento di conti?»
«Davvero non lo so, se il risultato è tragicamente lo stesso. Posso soltanto dirle che mi sembra una messinscena da dilettanti. Questo posso dirlo».
«Certo, certo. Ho visto le foto sul giornale… terribili. Succederà come per altri casi analoghi. Un gran parlare, poi tutto finirà come dice lei: in un bel funerale».
Si alzarono insieme. «E la ragazza?»
Erano davanti alla porta e il padrone gridò verso di loro un ‘grazie e buongiorno’ che li fece voltare.
«Quale ragazza?»
Non mi fare il puritano del nord perché ti do un pugno in testa.
«Gioia Bruni. Non era la ragazza di Carlo?»
«Sì, può essere… certo. Di queste cose, francamente…»
«Bella ragazza. Ma quanti anni ha?»
«Diciotto, è ripetente. Non va molto bene a scuola. Grilli per la testa anche lei. Spesso è assente alle mie lezioni, va male anche quest’anno».
«Grazie della compagnia, professore. È stato un piacere aver chiacchierato con lei».
«La ringrazio io, avvocato. A buon rendere. Quando vuole, non se ne dimentichi. Sa dove trovarmi».