Trentacinque

Era entrato alla Libreria del Corso senza una ragione precisa, tanto per dare un’occhiata. Girando tra i banchi, sfiorando con sguardo disattento i titoli, scorse un libro che non stava cercando ma che fu lieto di trovare: La variante di Lüneburg di Maurensig. Un romanzo che aveva letto qualche anno prima e che gli sarebbe piaciuto rileggere.

Distrattamente appoggiò il libro sul banco della cassa, con la coda dell’occhio notò che stavano infilandolo in un sacchetto, pagò, prese il sacchetto e si avviò alla porta.

«Ma quello è mio…»

Si girò di colpo, confuso. Nel sacchetto che aveva in mano, infatti, c’era un romanzo diverso. «Mi scusi…»

«Questo è il suo… Avvocato, ma si ricorda di me?» La donna che aveva di fronte stava sorridendogli. Era formosetta, i capelli tirati dietro le orecchie e il corpo attraversato da una cinghia che sosteneva una grande borsa di stoffa nera. «Si ricorda?»

«Certo, la professoressa dal nome strano» disse, sorridendole. «Tindara D’Antoni: come sta?»

«Bene, per i tempi che corrono…»

Stavano uscendo insieme. «Un caffè?»

«Grazie, sì volentieri, se lei ha tempo».

«Certo, venga».

Nel bar, che era proprio di fianco alla Libreria, Max si avvicinò al banco. «Caffè?»

«Veramente preferirei un tè, se va bene anche per lei».

«Certo, allora sediamoci».

Scelsero un tavolino verso la vetrata, un po’ in disparte.

«Che libro è, che non l’ho mai sentito?»

«Per gli appassionati di scacchi, soprattutto. Ma è allo stesso tempo una storia molto crudele. L’ho letto quando è uscito, mi piacerà riguardarlo».

«Lei gioca a scacchi? Non ce lo facevo».

«Perché?» Erano intanto arrivate le tazze, la teiera, le bustine e anche un vassoietto con qualche sfogliatella. «Perché le sembra strano che io giochi a scacchi?»

«Perché mi pare un gioco da solitari…»

«Intanto bisogna essere in due».

«Sì, due solitari…» Tindara D’Antoni versò il tè nelle tazze. «Lei non è da zucchero, vero?»

«No, infatti. Anche questo è da solitari?» Stava ridendo.

La donna scosse la testa. «Lei, mi scusi se glielo dico, ma non mi sembra un vero napoletano».

«Sono nato a Napoli, e anche mio padre. Soltanto i genitori di mia madre erano siciliani. Una volta Napoli era per il meridione la Milano del sud. Sa che cosa significa. Dal sud venivano a Napoli perché qui c’era la vita. Perché non le sembro napoletano?»

«Perché lei mi sembra un uomo triste… mi scusi, ma perché non mi faccio gli affari miei?»

«No, va bene… Chi le ha detto che i napoletani sono allegri? Non lo era certamente Peppino. Capaci di ridere, ma nel profondo vivono una tragedia vecchia di secoli. Una grandezza mai riconosciuta. Questo, credo, siano i napoletani. Forse anch’io non faccio eccezione».

«Sì, certo… mi scusi». Si versò un’altra tazza di tè. «Anche noi abbiamo vissuto la nostra piccola tragedia, a scuola. Una faccenda che ci ha sconvolti. Pover’uomo… parlo di Milasi. Io credo davvero che l’abbia fatto per sbaglio, senza volerlo. Non è tipo, tiene ai suoi ragazzi… L’onore. Il suo avvocato è stato bravissimo. Per salvare quella ragazza che si era confidata con lui, ci ha rimesso libertà, faccia e reputazione… Io credevo che fosse lei, all’accusa».

«No, non è quello il mio ruolo. Io ero fuori da tutto».

«Già, ho visto. Mi fa pena, che cosa le devo dire… davvero una gran brava persona».

Un gran farabutto, pensò Gilardi. Anche i giornali avevano commentato la sentenza in quei termini. Fiorini era stato molto abile, pensò: io, al suo posto, avrei premuto un po’ di più sulla ragazza, per alleggerirgli ancora la pena; ma era chiaro che Fiorini non si era fidato di lei.

Tindara D’Antoni era ancora emozionata. «C’è sempre la mano di Dio, nelle cose. Anche in quelle peggiori. Mi hanno detto che la famiglia di Carlo si prenderà cura di Gioia, almeno questo povera ragazza… Lei ha lasciato la scuola e ora, quando nascerà il bambino… lo sapeva che era incinta?» Non attese risposta, le sembrò ovvio. «Vorrebbe frequentare l’Accademia, è brava: si ricorda che gliel’avevo detto? Speriamo…»

«E Aziz?» domandò, per cambiare discorso.

«Un bravo ragazzo, molto impegnato davvero. Il migliore della scuola. Vorrebbe iscriversi a legge…» Lo guardò e gli sorrise. «Credo che l’abbia influenzato lei. Speriamo che possa farlo, che ci riesca con le borse di studio, l’università costa».

«Senta, vorrei chiederle una cosa, se posso». Si morsicò le labbra, ora sapeva che sarebbe stato difficile dirle quello che voleva.

«Certo, dica».

Max Gilardi dal taschino interno della giacca prese un suo biglietto da visita e lo mise in mezzo al tavolo, con due dita lo spinse verso di lei. «Io vorrei chiederle… mi scusi, non è una cosa facile. Vorrei chiederle… se dovesse sapere che Aziz non ce la fa a iscriversi o a frequentare l’università, mi piacerebbe che lei me lo dicesse. Vorrei provvedere io; ma in forma assolutamente anonima, la prego».

«Ma davvero lo sta dicendo?» Max Gilardi fece di sì, con il capo. Era a disagio. «Ma in che mondo sto vivendo io?» Si passò veloce due dita sugli occhi. «Ma perché lo fa?»

«La storia è lunga, ma penso che lei debba saperla». Le raccontò di Natj, del loro matrimonio durato pochi mesi, di quel bambino che era morto con lei, nell’agguato. Le raccontò del paese, in Africa, e di quella popolazione alla quale Natj aveva dato molto in aiuto e sostegno anche economico. Alla quale lui aveva lasciato tutto quello che era stato di Natj, come lei avrebbe certo voluto.

«Io non ho fatto niente» disse in fretta. «Sono sicuro che se mia moglie fosse qui farebbe la stessa cosa».

«Accidenti che storia… mi scusi». Non trovando un fazzoletto si asciugò gli occhi con il tovagliolino. «Mi scusi, sa… lei è una persona così fuori dal normale. Adesso capisco perché mi sembra così triste, una storia così… E io che la credevo solo un po’ scapricciatiello». Tentò di sorridere, ma le tremava il mento. «Lei è… be’, sono contenta di averla conosciuta, avvocato. Davvero davvero. Che storia… altro che il suo romanzo sugli scacchi. Avrei voglia di piangere, accidenti».

E infatti stava piangendo.

«Ora lo beve un caffè?» Tindara. D’Antoni fece di sì con la testa. Max Gilardi li ordinò alzando il braccio. «Ora basta, però. Qui penseranno che stiamo vivendo una tragedia amorosa».

Tindara D’Antoni riuscì a ridere. «Che lei mi stia piantando e che io mi disperi? Non ci conti, avvocato mio, non è cosa: mai disperata per amore. O per qualsiasi altro surrogato. Le donne come me non hanno mai tragedie d’amore». Bevvero il caffè in silenzio. «E che cosa vuole che faccia, avvocato? Ora me lo deve dire».

«Basterà che lei mi telefoni se ci sono difficoltà, e io provvederò con la segreteria dell’università. Se va a legge, mi conoscono». Aiutò Tindara D’Antoni ad alzarsi, scostando la sedia. «Spero che la cosa non le procuri nessun disagio…»

«Ma le va di scherzare? Non la posso raccontare, ma è la più bella storia d’amore che abbia sentito, creda a me». Erano in piedi e stavano avviandosi verso la porta. «E ora com’è, scapolo?» Max Gilardi fece di sì con la testa. «Prima o poi le arriverà di nuovo».

«Ma non è come il raffreddore che te lo pigli anche se non vuoi. Ci devi mettere del tuo».

«E lei ce lo metta, avvocato. Ce lo metta… altrimenti lei mi sembra sprecato. Quanti anni ha, cinquanta m’ha detto?»

«Quarantanove… quasi».

«Hai voglia la differenza!» Fece una risata, quando rideva sembrava più giovane. «Si innamori… ne faccia felice almeno una, accidenti! Almeno una…» Gli strinse la mano calorosamente.

«Devo accompagnarla?»

«Ma no, avvocato. Abito qui dietro, lì, a sinistra, non si ricorda?» Max Gilardi si confuse. «Sono arrivata, grazie. E grazie anche per quel ragazzo, che non lo saprà mai».

La vide avviarsi con passo spedito, e quella borsona che le premeva sul fianco. Era la persona giusta alla quale affidare quella storia, di questo era sicuro.

Si avviò verso il lato opposto della strada, la più bella strada di Napoli. Dal mare arrivavano spruzzi incandescenti contro la balaustra di pietra massiccia, oramai interamente bagnata. Sarebbe arrivato cattivo tempo. Lo sapeva ogni napoletano che quando il mare si alzava da quella parte avrebbe portato maltempo.

Max Gilardi si fermò a osservare la massa scura striata di schiuma che si agitava sotto i suoi occhi. Gli spruzzi gli bagnarono gli occhiali. E anche i capelli. E anche la giacca di velluto. Anche le mani.

Capì in quell’attimo, mentre si scostava per ripararsi, mentre si asciugava gli occhiali e le mani, capì che la sua vita avrebbe potuto ricominciare da lì. Da quel mare rabbioso che annunciava maltempo, alzando la schiuma contro la balaustra di pietra.

Un ragazzo, passando di corsa, gli gridò: «Ehi, ti bagni tutto, scimunito! Ma dormi?»