Sei

Verso le undici arrivò nello studio di Ciccio Caremi, avrebbe voluto parlarne con lui. Notò che c’era molta agitazione, Ciccio dava ordini a voce alta. Lo raggiunse in anticamera.

«Hai sentito?»

«Che cosa?»

«Quella storia del figlio dell’onorevole Spada… Quello che si è suicidato alla Gabbianella, hai sentito…» Max Gilardi fece di sì, muovendo appena il capo. «Mi ha telefonato, lui in persona. Vuole che me ne occupi io… si è ricordato di essere stato amico di mio padre».

«Se è suicidio, di che cosa ti occupi?»

«La Polfer, le Ferrovie dello Stato, hanno delle responsabilità… La Regione, ti rendi conto? Quel passaggio a livello aperto a tutti…» Si fermò di colpo e guardò verso il fondo della stanza. «E quella chi è?»

Giusi scattò in piedi, confusa. «Mi scusi, avvocato. Vuole lei, avvocato Gilardi. La sta aspettando da più di un’ora».

La donna, che indossava un caftano grigio di lana grossa e aveva il capo nascosto da uno scialle dello stesso colore, si alzò e gli porse un biglietto. Era il suo biglietto da visita.

«Siete voi l’avvocato Gilardi? Il biglietto me l’ha dato mio figlio Aziz».

«La conosci?»

«No, Ciccio, ma credo di capire». Si rivolse alla donna. «Hanno interrogato suo figlio per la morte di Carlo Spada?»

«Sì, sono venuti a prenderlo stamattina alla sette e mezza e l’hanno portato in caserma. Mi ha dato questo biglietto e mi ha detto di chiamarvi. A questo numero mi hanno detto che forse vi avrei trovato qui. Scusatemi… io non capisco».

«Interrogato per la faccenda di Carlo Spada… e tu sei il suo avvocato? Interessante. E questo chi è, da dove spunta? Questa storia ora riguarda anche me».

«No, Ciccio, riguarda soltanto me. Sono il suo avvocato» tagliò corto.

«Ehi, ma che cosa racconti? Io da una parte e tu dall’altra nella stessa causa? E nello stesso studio?» Si guardò attorno per raccogliere consensi.

«No, Ciccio. Non nello stesso studio, da questo momento. Grazie di tutto». Si fece da parte per lasciar passare la donna. «Venga, andiamo». Mentre scendeva gli scalini dello studio, sentì Ciccio Caremi che imprecava contro di lui a voce alta.

 

Durante il tragitto in macchina, Max Gilardi chiamò sul cellulare un impiegato della caserma di Borgo San Pietro che conosceva.

«Sì, un ragazzo. Aziz…» La madre, che gli sedeva accanto, gli suggerì il cognome. «Bernardini. Aziz Bernardini». Max Gilardi lo ripeté due volte al telefono, scandendolo. «Che nessuno lo interroghi prima che arrivi io. Sono il suo avvocato. Hai capito bene, Giacosa? Nessuno deve interrogarlo se non ci sono io. Sto arrivando».

«Bernardini» ripeté, quando chiuse la comunicazione. «Italiano».

«Sì, lavorava in Somalia, ci siamo conosciuti, ci siamo sposati. Lì è nato Aziz. Poi mio marito è stato trasferito a Napoli e siamo venuti anche noi: quasi quindici anni fa».

«E ora lui dov’è?»

«Al cimitero, tra i morti di quell’attentato a Kabul… Aveva voluto arruolarsi perché voleva comperare la casa. Ora la casa lui ce l’ha».

«Già, la nostra missione di pace». Posteggiò l’auto nel parco riservato agli avvocati e la invitò a scendere. «Venga, e stia tranquilla».

La donna gli sorrise, e per la prima volta Max si accorse che era molto giovane.

«Volevo dirvi una cosa, avvocato, prima di salire. Noi non abbiamo i soldi per un avvocato come voi. Vi ho chiamato perché ero disperata, ma non potremo mai pagarvi…»

«Adesso tiriamo fuori Aziz da questa storia, il resto non conta».

«Me lo farete tornare a casa?»

«Se non ha fatto niente, certo. Vorranno sapere qualcosa sul conto di Carlo Spada, per questo lo interrogano. Erano amici, stavano spesso insieme…»

«Anche compagni di classe».

«È normale, quindi: stia tranquilla».

In caserma, al secondo piano, gli indicarono la stanza dove Aziz lo stava aspettando.

La stanza era uno sgabuzzino senza finestre, arredato con due sedie. Aziz si alzò di scatto.

«L’hai trovato… grazie, avvocato. Ma che cosa vogliono da me? Mi hanno chiesto se eravamo amici, che cosa abbiamo fatto…»

«Va bene, stai tranquillo». Due appuntati entrarono trasportando un piccolo tavolo e altre due sedie. «Possiamo avere dell’acqua e un caffè?»

«Sì, avvocato. Subito. Poi vuole vederla la dottoressa Santini, è qui anche lei».

«Sì, datemi quindici minuti. Grazie». Aspettò l’acqua, che offrì al ragazzo perché la madre non volle bere, e sorseggiò il caffè con calma eccessiva.

«Che cosa vogliono da me?»

«Devono interrogarti in qualità di persona informata dei fatti».

«Ma quali fatti, avvocato? Questo si è ammazzato, io che c’entro?»

«Tu eri con lui, quella sera?» Il ragazzo fece di sì, con la testa. «Ecco, è quello che vogliono sapere e tu dovrai rispondere a tutte le loro domande. Sei qui con me ora, eccezionalmente, perché conosco uno che mi ha fatto ’sto favore. Tu non sei indagato, hai capito bene? Sei qui perché sei persona informata dei fatti… e vedremo quali. Hai capito bene?» Aziz ripeté il gesto e sbuffò. «Adesso vediamo, raccontami tutto dal principio. A che ora vi siete visti, chi eravate, dove siete andati, che cosa avete fatto e fino a che ora». Gli allungò un foglio e una penna. «Scrivi tutto, hai capito? In ordine. Non dimenticare niente, perché le aggiunte pesano».

Aziz lo guardò con quell’aria strafottente che hanno spesso i ragazzi quando hanno paura. «È successo dieci giorni fa e vengono adesso a chiederci che cosa abbiamo fatto? Che, io le registro le serate che passiamo insieme? Si è suicidato, mi dispiace, ma io che cosa c’entro?»

«Niente. Il padre di Carlo, attraverso il suo avvocato, ha presentato un esposto alla Procura con la richiesta di indagare sulle eventuali responsabilità, o corresponsabilità, delle Ferrovie. Non ti riguarda, invece rispondi: vi siete visti quella sera? Eravate insieme?»

«Sì, l’ho riaccompagnato a casa io… Ma io l’ho lasciato lì» aggiunse, alzando il tono della voce. Stava tremando.

«Va bene. Ora calmati e cerca di ricordare tutto quello che avete fatto quella sera».

Iniziò il racconto, che Aziz definì di una serata comune, come ne avevano passate tante. Chi erano, i soliti ragazzi – i nomi, segna i nomi di tutti. C’era anche una ragazza, la Gioia Bruni, una compagna di classe. Che ora era? Verso le undici come al solito. Il nome del primo locale. A che ora siete usciti e dove siete andati: il nome del secondo locale. Che ore erano? Scrivi, non dimenticare niente, scrivi.

«Da questo secondo locale a che ora siete usciti? Eravate rimasti voi due soli?»

«Sì, Carlo era sbronzo che non si reggeva in piedi…»

«Drogato?»

«Non… so. Io non mi drogo».

«Ti ho chiesto di lui. È morto, Aziz, non è necessario proteggerlo, è inutile. Gli fanno un’autopsia e scoprono che era drogato. E tu non l’hai detto, sei reticente: ti chiederanno perché. Capisci come funziona? Se sappiamo la verità riusciamo anche a spiegarci cose che ora mi sembrano ancora poco chiare. Era drogato?»

«Sì, mandava giù pastiglie, non si bucava. Era ricco, le comperava. Siamo usciti dal locale e il buttafuori…»

«Nome, come si chiama? E lavora sempre lì? Vi conosce?»

«Sì, Ugo. Noi lo chiamiamo il Toro, ma si chiama Ugo».

«Avanti, scrivi».

«Lui l’ha messo in macchina e mi ha detto di lasciarlo lì. Con il fresco del mattino si sarebbe ripreso e sarebbe tornato a casa. Non mi sembrava giusto. Una macchina sola in mezzo al parcheggio vuoto, lui lì sbronzo e addormentato. Mi sembrava brutto. Una macchina scoperta, magari qualche balordo… Allora sono salito e l’ho portato a casa».

«Hai diciassette anni, non hai la patente».

«No, ma so guidare, me l’ha insegnato lui. Non era la prima volta».

«Bene, a casa. E poi?»

«Sono entrato nel giardino, il loro cancello è sempre aperto perché sanno che lui torna tardi e un po’ bevuto. Ho fermato la macchina davanti al portone, sono sceso e ho suonato il citofono».

«Chi ti ha risposto?»

«Nessuno, l’avevo fatto altre volte. Suono il citofono e me ne vado. Il cameriere – loro hanno un cameriere filippino – scende, apre la porta, se lo carica sulle spalle e lo butta sul letto. Sempre la stessa cosa».

«L’ora».

«Non lo so, credo circa le due».

«Alle due e mezza ho spento la luce ed eravamo tutte e due a letto». Intervenne la madre.

«Sì, circa le due. Dal giardino, da dietro, scendendo verso corso Umberto e poi tra i vicoli, a passo svelto ci vogliono circa venti minuti ad arrivare a casa mia. Circa le due».

«Bene. Scrivi…» Tutti e tre girarono insieme la testa verso la porta. Un usciere e dietro la dottoressa Adriana Santini, una donna piccola e bruna, vestita in tailleur blu scuro e camicia bianca, capelli tirati dietro le orecchie, occhiali.

«Avvocato».

Max Gilardi si alzò e le andò incontro. «Dottoressa».

«Allora, possiamo fare due chiacchiere finalmente con questo ragazzo? Possiamo sapere che cosa ha da dirci?» Era evidente che voleva mostrarsi gentile per non spaventare il ragazzo.

Aziz raccontò nuovamente quello che aveva appena finito di dire, e di scrivere. Fu molto diligente: persone, nomi, luoghi, orari. «Questo è quello che so» disse alla fine. Sembrava affannato come se avesse corso.

«Ecco, dottoressa, è tutto. Possiamo andare?»

«Un momento, avvocato, qualche piccolo riscontro ce lo consentirà, vero?»

«Per esempio?»

«Dice di essere tornato a casa alle due e venti: chi ce lo dice?»

«Ve lo dico io, avvocato» intervenne la madre. «Alle due e mezza ho guardato l’orologio, ho spento la luce ed eravamo tutte e due a letto».

«Lei è sua madre…»

«Potete chiederlo anche al signor De Nicola» disse Aziz con voce tesa. Era emozionato, se n’era ricordato in quel momento.

«Chi è?» chiese Max Gilardi.

Rispose la madre. «Un inquilino del primo piano, un brontolone».

«Mi ha aperto lui il portone, era andato a portare a spasso il cane. Mi ha sgridato perché tornavo a casa tardi. Sono le due e venti, mi ha detto. Potete chiederglielo».

«Glielo chiederemo, certo».

«E anche la signora Angelina dell’ammezzato, era sicuramente alla finestra quando sono arrivato. Spia sempre tutto quello che capita nella casa».

«Chiederemo anche a lei».

«Possiamo andare, ora, dottoressa?»

Adriana Santini prese il foglio sul quale Aziz aveva scritto la storia di quella notte, guardò la firma. «Tuo padre è italiano» disse, mostrando una certa meraviglia.

«Sì… sissignora. Morto a Kabul. Un eroe, mio padre». Lo disse con orgoglio.

«Capisco. L’avvocato ti dirà che dovrai rimanere a nostra disposizione, forse avremo bisogno di rivederci». Raccolse dal tavolo le sue cartelle e si diresse verso la porta. Voltando appena la testa domandò: «Non hai idea del perché si sia ammazzato?»

«No. Io non credo…» Max Gilardi lo fermò mettendogli una mano sulla spalla. «No… non credo di saperlo, signora… dottoressa».

«Bene, a disposizione, mi raccomando».

In strada, mentre stavano avviandosi verso la macchina, Max Gilardi domandò: «Che cosa stavi per dire, quando ti ho fermato?»

«Che non credo che si sia ammazzato in quel modo. Non aveva fegato, era uno che se la faceva sotto. Mandava avanti sempre noialtri e lui si nascondeva. Soltanto parole, urla e parole. Faceva la voce grossa se aveva il suo pugno di ferro».

«Ed era tuo amico?»

«Chi era amico suo a scuola poteva vivere. Io gli passavo i compiti, in cambio».

«Bene, ricordati quello che ti dico. E se lo ricordi anche lei, signora. Ti dovessero interrogare altre cento volte, tu ripeterai esattamente quello che hai detto oggi e che hai scritto e firmato. Non una parola diversa, non una parola in più. Tutto quello che dovesse venirti in mente, e che oggi non hai ricordato, lo vieni a raccontare a me. La tua versione è questa, è credibile e riscontrabile: non una parola di più. E mai e poi mai un tuo commento, una tua idea: tu non hai idee, hai capito? Lo hai capito bene?»

«Sì, avvocato».

Tuttavia qualcosa in quella faccenda non lo convinceva. Se l’inchiesta fosse proseguita, sarebbe venuta fuori. Prese per un braccio Aziz e lo tirò da parte.

«Lì sei stato molto convincente, ora cerca di convincere anche me».

«Sarebbe?»

«Quella sera, da Felice… ti ricordi di che cosa parlo?»

«Certo».

«Carlo ti stava minacciando, ti ha chiamato sporco negro… che amici eravate?»

«Con Carlo era facile litigare, non ci voleva molto. Quella sera… sì, mi ricordo. Quella scema di Gioia, che era la sua ragazza, per ingelosirlo gli aveva raccontato che la sera prima era uscita con me».

«Perché proprio con te?»

«E chiedetelo a lei, che ne so?»

«Io credo che tu lo sappia… le stai dietro anche tu?»

«Come tutti. Ma lei aveva scelto me, per farlo ingelosire. E lui ci è cascato. Stavamo litigando… ma poi, quando siamo usciti, tutto è finito lì, chiedetelo anche agli altri. Gioia non gli interessava più, lo diceva, ma guai a toccargliela: vallo a capire».

«Tu eri spaventato».

«E ti credo, con quell’arnese in mano… Lui era fatto a quel modo».

«Come facevi a essere amico di uno così? Addirittura da proteggerlo, portarlo a casa…»

«Avvocato, non fatemi parlare. Io ho la pelle… abbronzata, mi rispettano perché Carlo era dalla mia parte, non sa i primi anni che cosa ho passato… non ditelo a mia madre, lei non c’entra. Ma per me è stata dura».

«Allora ti faccio la stessa domanda in un altro modo: perché Carlo era tuo amico?»

«Perché gli passavo i compiti, ve l’ho detto. Senza di me sarebbe stato ancora alle elementari. Capite, ora? Io avevo bisogno di lui e lui di me: amicizia pari e patta».

«Con una ragazza in comune…»

«No, questo no. Chi toccava Gioia era morto, l’avete visto anche voi. Ma io non l’ho mai toccata». Scosse la testa. «Io la storia tra quei due non l’ho mai capita…»

«Va bene, tu ora sta’ alla larga da Gioia, hai capito? Non sappiamo ancora che ruolo ha in tutta questa storia».

«Ma Gioia, no…»

«Va bene, ma tu stanne alla larga».

Quando si salutarono, Aziz gli tese la mano. «Grazie, avvocato. È stato mio padre a mandarvi quel giorno da Felice. Sono sicuro che è stato mio padre».

«Va bene, ringrazialo anche da parte mia».