Ventiquattro

La prima visita di quella mattina stupì soprattutto Laura.

«C’è una signora, di là… Vuole parlare con lei ma non vuole che le dica il suo nome». Max a gesti le chiese chi fosse, e Laura si toccò i fianchi, esagerando il gesto.

Max sorrise, aveva capito. «Falla passare…»

«Sta finendo di bere il caffè».

Franca Chiapponi entrò rumorosamente nello studio di Gilardi, a braccia tese verso di lui.

«Avvocato, complimenti. Davvero, sa? Complimenti. Lo studio è bello davvero, bravo, ora si respira aria giovane, attiva… E bravo, ho letto sul giornale che ci sono delle indagini in corso… Insomma, qualcosa si muove. Bravo, avvocato, permette?» E lo abbracciò, lasciando Max Gilardi impacciato e interdetto in un effluvio di profumo al gelsomino.

Sulle indagini di cui parlavano giornali e televisione la signora stava dicendo alcune inesattezze, ma non ritenne necessario correggerla. La invitò a sedersi.

Franca Chiapponi scelse una delle poltroncine del piccolo salotto, ricavato in un angolo dello studio.

«Prende un caffè?»

«Me l’ha offerto quella graziosa signorina… avvocato anche lei?»

«Laureata in giurisprudenza, sta facendo pratica. È in attesa del concorso per la magistratura».

«Eh, magari il mio Carlo avesse avuto voglia di studiare, piaceva anche a me un avvocato in casa… Pazienza, la volontà di Dio è questa». Sospirò, poi si riprese. «… Ma se lo beve anche lei, ne prendo un altro. Fantastiche queste macchinette, vero? Pensi che a casa lo facciamo ancora con la napoletana… e un pizzico di cacao amaro, come mio nonno… sì, grazie, ne bevo un altro con lei, tanto non fa male».

Chiacchierarono dei giornali che riportavano la notizia; Max Gilardi le accennò all’incontro che aveva avuto con i ragazzi.

«Niente di nuovo?»

«No, da quella parte sapevo di non dovermi aspettare niente, solo conferme. Adesso che il quadro è più chiaro…»

«Ho fiducia, ha capito? Io ho fiducia in lei, quindi è tutto a posto».

Terminato il caffè, Max Gilardi prese tempo. Prima di arrivare a una domanda diretta, volle coinvolgere la sua ospite su argomenti apparentemente secondari, di minore importanza.

Le raccontò che Gioia si proclamava innamorata di suo figlio; le disse di aver saputo che spesso litigavano per causa sua.

«Mia? Ma se non l’ho mai vista, quella lì».

«Forse un po’ di gelosia materna…»

«Ma non mi faccia ridere, avvocato. Gelosa di chi? Di una alla quale mio figlio non voleva neppure parlare al telefono? Che le venga a dire a me queste fesserie! Le rispondo, stia certo».

«Come mai stava dietro a suo figlio, se Carlo non la voleva?»

«La scemetta aveva sentito odore di soldi. Bel ragazzo, macchina, regali, feste, week-end al mare… Carlo era generoso e lei ci stava, niente di speciale. A noi aveva detto che era la più carina della scuola e che era la sua ragazza. Lui si esprimeva in altro modo, ma oggi sono cose normali».

«Per esempio?»

«… che se la faceva… lei sa certo che cosa significa».

Max Gilardi ripensò alle parole della madre di Gioia: le cose combaciavano. Capì che la signora, malgrado il tono superficiale, era agitata. Apriva e chiudeva di continuo la borsa, accavallava prima una gamba e poi l’altra, si stropicciava le mani.

«Ha considerato, signora, la possibilità che la ragazza dichiari di aspettare un figlio da Carlo?»

Franca Chiapponi lo osservò, aggrottando le sopracciglia, prima di chiedere, con una evidente sfumatura d’irrisione nella voce: «È questo che racconta la ragazza? Di aspettare un figlio da Carlo?»

«No, signora. Non ho parlato con la ragazza, non di questo. Mi ha soltanto mostrato i messaggi di Carlo sul cellulare e una scritta sul diario dove accennava alla Gabbianella, appunto. Erano parole d’amore, per quel che ho letto».

«A quell’età l’amore si spreca…» Fece una pausa, come se ci ripensasse. E con tono improvvisamente diverso, domandò: «Ma la ragazza davvero racconta di aspettare un figlio? È incinta?»

«Non lo so. Ma se fosse, ed è solo un’ipotesi, lei come reagirebbe?»

Franca Chiapponi ebbe uno scatto, un gesto inaspettato che tradì un’improvvisa collera. Uno scatto persino d’ira, subito trattenuto. Che tuttavia non sfuggì a Max Gilardi.

Franca Chiapponi si alzò a metà e ricadde pesantemente a sedere. «Davvero c’è questa possibilità? Che la ragazza sia incinta di Carlo?» La sua voce era improvvisamente ridiventata quieta. E stava sudando. «Che lo venga a dire a me…»

«Ripeto, è un’ipotesi. Che non mi sento di scartare, data l’età, i rapporti di oggi tra ragazzi, l’accenno alla Gabbianella come luogo d’amore e di rapporti più intimi. La mia domanda è diversa: di fronte a una simile eventualità, lei come reagirebbe? Qualora fosse provata, lei…»

«Se la ragazza è incinta, poiché riguarda Carlo, come sembra, sarebbe la benvenuta nella mia casa. Glielo dica. Il bimbo avrà nome e cognome, e sarà mio nipote… una parte di mio figlio che ritorna». Sembrò a un tratto sopraffatta da quello che stava dicendo, come se le costasse fatica.

«Fatti gli opportuni test, naturalmente…»

«Ma che test e test! Una ragazza a quell’età… Se Carlo l’amava non ho bisogno di test, avvocato. Litigavano… e chi non litiga a quell’età? Si amavano, avevano fatto i loro pasticci… va bene così. Voglio quel nipote, se c’è. Glielo dica. Avrà tutto quello che vuole, ma io voglio quel nipote, il figlio di Carlo…» Franca Chiapponi si alzò, quella sua figura ingombrante dominava la stanza. Allargò le braccia. «Si ricordi, avvocato: io voglio quel bambino. Voglio il figlio di Carlo, glielo dica».

Non erano le parole di una madre che ha perso un figlio e che reclama quella parte di lui che ancora sopravvive.

Era l’esortazione disperata di una donna che vuole a ogni costo che quella speranza diventi una realtà.

 

Quando Franca Chiapponi uscì dallo studio, Max Gilardi ripensò a quel colloquio. Ai gesti della donna, alle parole, agli improvvisi sbalzi d’umore. Gli scatti e i toni. In un continuo alternarsi puntiglioso, senza sofferenza.

Le interessava quell’ipotetico nipote. Che forse era figlio di Carlo. Anche se quel forse metteva in gioco molte ipotesi, non tutte semplici.

Gilardi ci pensò a lungo, per giorni. Tornando spesso a quello scatto, di umiliazione e di collera, che l’aveva assalita all’ipotesi che Gioia aspettasse un figlio da Carlo. Perché?

All’improvviso i toni erano diventati autoritari. La scena improvvisamente cambiata. La ragazza, scemetta e introfulona che aveva sentito odore di soldi, era diventata la brava ragazza amata da Carlo. Che tuttavia non voleva parlarle al telefono e che i compagni avevano sentito e visto maltrattare.

Era bastata l’idea che Gioia aspettasse un figlio da Carlo?

Non era stato a quel punto che l’atteggiamento di Franca Chiapponi era cambiato. Quell’ipotesi all’inizio l’aveva irritata. Dopo, come se ci avesse ripensato, come se ci fosse arrivata con la ragione invece che con il cuore, aveva ceduto.

Perché?

 

Lasciò passare due settimane e la richiamò al telefono.

«Novità, avvocato?»

«No, signora. Ma avrei bisogno di parlarle. Posso venire da lei?»

«Qui c’è confusione, non mi lasciano un momento tranquilla. Va bene se vengo da lei verso le tre e mezza, oggi?»

Max Gilardi non guardò neppure l’agenda. «Va bene, grazie. L’aspetto».

Si ripeté la stessa cerimonia dei saluti, degli abbracci, del caffè bevuto insieme, come scene di un film già visto. Quando finalmente Franca Chiapponi si mise a sedere al suo solito posto, davanti alla vetrata, e Max Gilardi di fronte a lei e leggermente in ombra, arrivò la domanda che Max Gilardi si aspettava.

«Allora, la ragazza è incinta?»

Max Gilardi restò un attimo a osservarla, prima di risponderle. Con un’altra domanda: «Suo figlio Carlo era omosessuale?»

La reazione di Franca Chiapponi non lo stupì. Siamo a Napoli, pensò. Era arrossita fino a confondere il colore della pelle con il biondorame dei capelli.

«Che cosa mi sta chiedendo, avvocato, ma siamo pazzi? Mi sta chiedendo se Carlo era ’nu ricchione? Ma siamo pazzi? Ma chi gliele dice ’ste cose? Chi, che l’ammazzo io… Mio figlio era un uomo!» gridò con enfasi. «Un uomo, mi ha capito?» Sembrò calmarsi, come se volesse imporselo. Con tono diverso, domandò: «Ma non l’ha visto anche lei? Bello, forte, intelligente… un uomo!»

«Conosco omosessuali che sono belli, forti e intelligenti. Alcuni sono miei amici; con altri ho disputato gare di nuoto e mi hanno anche battuto. Che differenza fa?»

«Sarà… ma Carlo era un uomo, e anche scapestratello a quel che sembra…» Tentò un sorriso con labbra che tremavano.

«Ci pensi bene signora, è importante».

«Ma la smetta, che cosa vuole che pensi… Ma a lei quest’idea da dove l’è venuta?»

«Da lei, signora. Dalla sua reazione alla notizia che forse Gioia potrebbe aspettare un bimbo. Da suo figlio. Forse».

«E allora? Niente forse, questo è. Sono contenta che mi resti qualcosa di lui…»

«Non conosco nessuno che accetterebbe una cosa del genere senza un test».

Sembrò sollevata. «Tutto qui? Due ragazzi giovani, belli, innamorati… di che test ha bisogno per sapere che hanno fatto pasticci? Anche alla Gabbianella, il posto più sudicio del mondo… ma a quell’età…» Lo guardò e capì che Max Gilardi stava pensando ad altro. «Tutto qui?» domandò.

«Signora, le rifaccio la domanda: suo figlio era omosessuale? Se suo figlio era omosessuale, io devo saperlo. Capisce che le indagini potrebbero avere un altro corso? Che noi forse stiamo cercando dalla parte sbagliata?»

«E sa che cosa le dico, avvocato? Che non me ne importa niente delle vostre indagini, non me lo restituiscono, il mio ragazzo. Ma mio figlio era uomo normale, con tutte le maiuscole, e quello è mio nipote, stop».

«Le indagini andranno avanti e arriveranno anche in quegli ambienti particolari che per il momento abbiamo trascurato…»

«E quel figlio cos’è, gessubambino

«Quel figlio, ammesso che ci sia davvero, non è per caso la prova che lei vuole assolutamente per mostrare agli altri, contro ogni dubbio, che suo figlio era uomo maschio con tutte le maiuscole?»

«E invece?» fu quasi un urlo.

«Invece lo chiedo a lei. Poteva suo figlio mettere incinta una ragazza? Ci pensi, prima di rispondere. Una ragazza incinta che Carlo non voleva più né vedere né sentire al telefono, che i suoi compagni hanno visto trattare a male parole… mi hanno detto che ultimamente la sfuggiva come la peste. Che cosa le fa pensare questo comportamento? Il bisticcio di due ragazzi innamorati o l’atteggiamento di un ragazzo che sa per certo di non avere né colpa né merito in questa faccenda e vuole rimandarla al mittente?»

«Che cosa cambia, se lui è morto?»

«Molto, signora. Le indagini, di fronte a un fatto nuovo, possono cambiare obiettivi e arrivare a soluzioni molto diverse dal dubbio. Non mi ha detto che vuole guardare in faccia chi ha ucciso suo figlio? E allora ci aiuti a scoprire la verità».

«La sapremo mai la verità? E mi ridarebbe mio figlio?»

«No, non le ridarebbe suo figlio. Mi dispiace, questo non posso farlo. Ma io credo nella giustizia, credo in quello che sto facendo, e voglio arrivare alla verità. Mi aiuti, signora. Suo figlio era omosessuale?» Senza rendersene conto, aveva alzato il tono di voce, come non gli succedeva mai.

Franca Chiapponi esitò la frazione di un secondo. Poi scosse la testa. «No… Carlo era malato». Ora stava piangendo. «Quel figlio non potrebbe essere suo… Impossibile». Max lasciò che si calmasse prima di chiederle perché ne fosse così sicura. «Perché era mio figlio, avvocato. E purtroppo lo conoscevo bene. Cose che di solito non si raccontano… ma lei è il mio avvocato, devo fidarmi. Carlo non aveva… insomma, aveva un apparato genitale infantile: non so da chi abbia preso, da suo padre no di certo. Ma era così».

«Mi scusi: così come?»

«Insomma, aveva tutte le sue cosine ma in forma ridotta, infantile. Era in cura da un professore in Svizzera, ma senza risultati. Si chiama sindrome di Froelich: le parti genitali sono poco sviluppate e così ricoperte di grasso da essere invisibili. Questi ammalati non possono avere figli. Non poteva quindi avere una donna e tanto meno metterla incinta. Capirà che l’idea mi ha sconvolta».

«Non lo sapevo, mi scusi. Forse il dottor Funari nel suo documento l’avrà evidenziato, ma non ci ho fatto caso. Io ho guardato soltanto l’ecchimosi che aveva al collo».

«È stata la ragazza innamorata?»

«No, impossibile. Di sicuro ci è voluta più forza di quanta lei ne abbia. Ma soprattutto avrebbe dovuto essere più alta. Sono state eseguite delle prove: chi l’ha ucciso doveva essere più alto della ragazza e avere più forza. Inoltre il suo alibi per quell’ora non è inattaccabile, ma può reggere. L’abbiamo esclusa».

«E aspetta un figlio che dice di essere di Carlo?»

«No, no… Non lo dice, è una mia supposizione. Lei mi ha fatto capire di averlo amato in modo completo, la prima volta, proprio alla Gabbianella».

Franca Chiapponi scosse la testa. «Ne ha di fantasia, la ragazza. Lei ci è mai stato alla Gabbianella, avvocato?»

«Sì, da ragazzo, in bicicletta…»

«No, dicevo: a conoscere una ragazza in modo completo?» Max Gilardi scosse la testa. «È il posto più scomodo che esista al mondo. Noi ci andavamo al lunedì di Pasqua, quando ero ragazza. Piaceva a mio padre. Andavamo a fare il pic-nic. Scomodo, formiche, bestie di tutti i generi, compresi i topi. Sei sotto gli occhi di tutti quelli che passano. Gliel’ho raccontata io la storiella della gabbianella impaurita, a mio figlio. E credo che non ci sia mai stato».

«No, ci sono stati». Le disse di quello che aveva scritto sul diario che Gioia gli aveva mostrato e delle frasi sul cellulare.

«Senta, a me sembra un’altra fesseria, però… Avranno pasticciato, che ne so. Comunque non sono andati a conoscersi meglio, questo lo so di certo».

«Quindi se la ragazza le venisse a raccontare che aspetta un figlio da Carlo…»

«Magari, avvocato. Io voglio quel bambino!»

«Sapendo per certo che non può essere figlio di Carlo?» Forse il clima di Napoli aveva qualcosa di sbagliato.

«Per certo, chi? Io, sua madre. E forse la ragazza, se gli ha messo le mani tra le gambe. Ma ne dubito, non si faceva vedere e toccare da nessuno. Si vergognava, povero il mio ragazzo. Se mi viene a raccontare che aspetta un figlio da Carlo, le apro le braccia anche se lei non mi piace. Ma ci pensa? Avere per casa un nipotino…»

«Ma non sarebbe suo nipote».

«Questo lo saprebbe la ragazza, e magari si farebbe convinta di averci presi per il naso. E glielo lascerei credere. Mi alleverei questo bambino… lei è carina, vero?» Max Gilardi assentì. «Quindi sarà pure un bel bambino».

«Ma signora, lei sta scherzando, vero? Quella ragazza potrebbe essere complice di chi ha ammazzato suo figlio…»

«Non me ne importa niente, avvocato! Se è complice, con i soldi la tiro fuori di galera. Io voglio quel bambino, avvocato. Per la mia consolazione e per vendicare l’onore di mio figlio. Nessuno dovrà dire di lui che era senza caz…» Si portò le mani alla bocca. «Mi scusi».

«Giuro, non riesco a capirla. Un bambino che non è di suo figlio e che lei vorrebbe allevare come suo nipote: ma si rende conto dell’enormità di quello che mi sta dicendo?»

Franca Chiapponi si passò la mano sotto il mento. «Avvocato, faccio torto a qualcuno? Se nessuno lo reclama, e ne dubito, che enormità sarebbe? Si adottano figli di sconosciuti, almeno qui una cosa certa c’è, il mio Carlo le ha voluto bene. Mio figlio ne esce a testa alta. Ad ammazzare mio figlio sono stati i parenti della ragazza?» Max Gilardi mosse appena la testa: non poteva escluderlo ma neppure esserne sicuro. «Uno che ce l’aveva con lui? Che vada all’inferno. Che vadano all’inferno tutti quanti! Ma se la ragazza aspetta un figlio, quello è mio. Gli diamo il nome… si può post mortem, avvocato, se la loro intenzione era di sposarsi?» Non attese risposta. «Sarà Carlo Spada, o Carlina se sarà una femmina… quel bambino è mio, avvocato».

Si era alzata dalla poltrona. Era rossa in viso, leggermente sudata. Ingombrante, come la prima volta che l’aveva incontrata. Ripensandoci, Max avrebbe usato un altro aggettivo per descriverla: scalmanata. Era letteralmente scalmanata.

Prese Max Gilardi per le braccia. «Mi dica, quella ragazza aspetta davvero un figlio?»

«No, per quello che ne so. Stavo facendo un’ipotesi…»

«No, voglio saperlo. Non andrò io a chiederglielo, non vorrei che negasse per paura. Glielo chiederà lei, e per favore le dirà che io sono pronta ad accettarla nella nostra vita come una figlia. Le dica che non le mancherà niente. Che crescerò il bambino come mio nipote. Glielo dica, per favore. Lei di certo non sapeva della malattia di Carlo, altrimenti non mentirebbe su quel bambino che aspetta. Quindi le dica di mentirmi, di giurare che è di Carlo, e io fingerò di crederle, mai le dirò la verità. Ci mentiremo a vicenda. Ma Carlo a testa alta. Un uomo! Avvocato, faccia in modo che accetti».

«Sempre che l’ipotesi…»

«Avvocato, ma chi vuole prendere in giro? Se lei l’ha buttata lì, avvocato… io sono cresciuta, sa? Se lei l’ha detto… comunque non insisto, lei ora sa che cosa voglio».

«Per non intralciare le indagini…»

«Mi fido di lei, avvocato. E mi escluda la ragazza, se aspetta un figlio. Nessuna imputazione, fuori da ogni sospetto: fermi tutto se deve andarci di mezzo lei. La voglio pulita. E la voglio con quel figlio. Se c’è».

«La ragazza potrebbe essere incriminata per istigazione al delitto…»

«Quell’ochetta giuliva? Non ci credo neppure se me lo dicesse di persona. Ho visto le lettere, diciamo così, che scriveva a Carlo. Quella non è capace di pensare… figuriamoci, qui ci vuole una mente diabolica. Quella di diabolico ha soltanto il rossetto delle labbra con cui stampava baci sul diario di Carlo. Guardi che io so molto più di quello che crede, avvocato mio. La prego, dia retta a me».

«Ci proverò».

Quando la signora Chiapponi fu uscita dalla stanza, Max Gilardi andò a sedersi dietro la scrivania. Fu allora che si ricordò delle parole del procuratore a riposo Antonio Giussani.

Sa che cos’è, avvocato, il matto affogato nel gioco degli scacchi?

Sì, ora lo sapeva. Avrebbe potuto dare scacco matto al Re, ma ogni mossa gli sarebbe stata impedita proprio dai pezzi che aveva messo in gioco. E dalla sua regina.

Avrebbe telefonato alla dottoressa Santini e avrebbe rinunciato a proseguire le indagini.

 

«Perché?»

«Sono venuto a conoscenza di un fatto che ritengo incompatibile con il mio incarico professionale».

«Potrebbe in qualche modo…»

«Assolutamente, no. Mi dispiace, la ringrazio».

La storia di Carlo Spada, morto alla Gabbianella, per lui era definitivamente chiusa.