Diciassette
Qualche giorno dopo la festa in casa Notarnicola, Max Gilardi fece una cosa che non aveva programmato.
«Ricky, che cognome ha questa Rosina?»
«Santacroce, avvocato».
«Martire e santa…» sospirò.
«Non le è simpatica?»
«No. Povera ragazza, ha pagato un prezzo molto alto. È l’unica della famiglia che non abbia accettato la tesi della disgrazia. Accidenti, poverella, questa disgrazia le ha cambiato la vita… abbiamo un numero di telefono, un indirizzo?»
«Sì, avvocato». Gli mise davanti, sulla scrivania, la cartelletta di Rosina Santacroce. «Qui c’è tutto».
Gilardi restò a fissare quei numeri, giocando con il telefono. Poi, con una smorfia, finalmente si decise. Uno squillo, due… al terzo riattacco, pensò.
Invece gli rispose la voce squillante di Rosina Santacroce. «Chi è al telefono?»
«Buongiorno, sono Gilardi, l’avvocato… si ricorda, signorina?»
Risatina. «Come vuole che non mi ricordi, avvocato. Come sta? Ci sono novità?» Gli sembrò agitata.
«No, signorina, e quali? Non abbiamo neppure aperto i fascicoli. Ci vuole pazienza in queste cose, soprattutto perché è passato tanto tempo. Mi servirebbe invece fare due chiacchiere con lei… a proposito dell’incidente. Possiamo?»
«Quando vuole, avvocato. Quando le fa comodo, anche subito. Io sono qua, quando vuole…»
No. Subito non mi serve, pensò. «Facciamo venerdì… le sta bene venerdì, signorina?» Venerdì era dopo tre giorni.
«Venerdì, avvocato. Venerdì, se sta bene a lei, io l’aspetto».
«Grazie. Verso le cinque, va bene per lei?»
«Verso le cinque, avvocato. Le faccio provare i miei dolcetti e le faccio il caffè… venerdì alle cinque, avvocato. A sua disposizione. Stia bene, avvocato».
«Anche lei».
Quando chiuse la comunicazione restò un attimo a fissare l’apparecchio. Perché era così agitata?
Certo che è agitata, pensò. Ha tutta la famiglia contro e lei è convinta che non sia stata una disgrazia. Lei sola. Ora dovrà convincere anche me.
Il venerdì seguente alle cinque in punto (suo padre avrebbe detto che quella puntualità che spaccava il minuto era una stupida fissazione milanese) Max Gilardi suonò il campanello: sulla porta si poteva leggere in un corsivo con svolazzi la scritta: Rosina Santacroce.
Rosina gli aprì immediatamente la porta come se fosse stata ad aspettarlo con la mano sulla maniglia. Era vestita di nero; invece del colletto bianco aveva al collo una collana di perle con un ciondolo al centro: un cornetto di corallo rosso. Che durante la visita, durata un paio d’ore, lei continuò ad accarezzare come se fosse un tic.
«Avvocato, è lei… si accomodi, venga». Lo precedette in corridoio fino al salotto, e arrivata davanti alla porta si fece da parte per lasciarlo passare. «Avanti, avanti. Senza complimenti, avvocato. Si accomodi». Forse immaginò che Gilardi guardasse quella grande sala mezzo vuota con un certo imbarazzo, perché aggiunse: «Questa stanza, che è un salotto, ma lì ci sarebbe andato un tavolo per mangiare… il povero Alessandro la diceva con un nome…» Scosse il capo e le onde sulla fronte ebbero un piccolo fremito.
«Living room?» suggerì Gilardi.
«Sì, quello… Poi tutto si è fermato, vede, avvocato mio. Quei bei mobili me li ha dati lui, li voleva nella nostra casa. Lì c’è la cucina, moderna come aveva voluto lui. Ci ha fatto fare anche il forno. Di là… venga, avvocato, venga». Un corridoio, tre porte. Rosina ne aprì una a destra e una a sinistra, spostando appena le spalle. «Lì c’era il nostro bagno, moderno anche quello. E questa era la nostra stanza, rimasta com’era. Guardi, guardi…» Un letto a baldacchino con la spalliera imbottita di seta rosa, un armadio a tre ante, una poltrona. Una bambola di porcellana in un tripudio di pizzi rosa sul letto. «Vede, avvocato. Ora ci dormo io. Da sola. Sarebbe stata la nostra camera nuziale…» Un altro sospiro. Richiuse la porta e sollevando il mento aggiunse: «Là in fondo la camera dei bambini… ne sarebbero arrivati di certo». Altro sospiro. «Venga, avvocato. Andiamo a metterci in salotto… una bella stanza, vero? Anche questa, vuota».
Gilardi si sedette su una delle due poltroncine davanti alla vetrata che dava su un terrazzo ingombro di piante che erano state verdi. La casa era al terzo piano, e davanti non aveva il mare ma altre case, quasi a ridosso.
«Ora ci beviamo il caffè con i miei pasticcini e poi parliamo: va bene, avvocato?»
Mentre la sentiva sfaccendare in cucina, un familiare rumore di tazzine e di posate, Gilardi si alzò e fece il giro della stanza. Due mobili antichi di buona fattura, un sécretaire e un trumeau, probabilmente mobili di famiglia; nessun quadro alle pareti. Lo sorprese che ci fossero soltanto tre fotografie del ‘povero Alessandro’ in cornici modeste. In argento, invece, una grande foto insieme, entrambi giovanissimi.
Rosina, entrando con il vassoio tra le mani, lo sorprese mentre studiava quella foto.
«Siamo noi due» disse, appoggiando il vassoio su un tavolino basso. «Io avevo diciotto anni e il povero Alessandro ventitré…» Con civetteria aggiunse: «Sono passati cinque anni e due siamo stati insieme… lei sa fare i conti, avvocato mio: ho venticinque anni, sono vecchietta ormai. Venga avvocato, che si fredda e il caffè deve essere bollente, altrimenti non è caffè». Insistette per fargli assaggiare i famosi dolcetti, fatti con le sue mani, restando sospesa a guardarlo mangiare, aspettandosi un complimento.
Gilardi le sorrise. «Buoni, davvero».
«Il mio Alessandro diceva che mi sposava per due cose… i miei dolci e…» Risata, con la testa tra le mani, come se si vergognasse. «Ma questo non posso dirlo…» Si ricompose e si fece seria. «Allora, avvocato. Di che cosa voleva parlarmi?» E depose la tazzina sul vassoio con aria consapevole.
Le fece raccontare quando e come si erano conosciuti. «Io non avevo neppure diciotto anni e lui sembrava impazzito. M’ero innamorata anch’io. E come, no? Era bello, ricco… un principe, avvocato».
«Che rapporti aveva con la famiglia?»
«Rapporti, dice lei? Il padre, il cavaliere, forse lui mi sopportava. Ma la madre e la sorella… la madre è morta, ma Elena l’ha conosciuta… quelle mi odiavano. Gelose, avvocato. Come se gli portavo via un fidanzato. A casa loro io mi sentivo sempre una serva… e guardi che serva non sono stata mai, avvocato. Famiglia modesta, operai, ma io…» alzò una mano aperta verso di lui. «In palma di mano, avvocato. Non mi è mai mancato niente. Rispettata da tutti. Da quelle due, mai. Mai una parola di conforto, neppure ora, che sto sopportando questo dolore da sola. Il cavaliere ha le sue navi, la figlia i suoi amori. Ma io qua sto, e sono sola».
«Ma il cavaliere, mi diceva…» Il padre Notarnicola era per alcuni comandante, così lo chiamavano per via delle navi che produceva. Tuttavia aveva sentito che altri si rivolgevano a lui chiamandolo cavaliere. Non volle fare domande in proposito.
«Sì, il cavaliere è l’unico che ha capito che ci amavamo davvero. Sposarci dovevamo. A luglio, capisce, avvocato? A luglio, due mesi dopo. Alessandro non aveva voluto la festa di fidanzamento prima della fine dei lavori per quella maledetta barca. In cantiere lavoravano giorno e notte…»
«Chi, lavorava giorno e notte? Conosceva qualcuno degli operai?»
Rosina scosse la testa. «Soltanto Alessandro e Marietto, il suo uomo di fiducia. Sa, avvocato, come lo chiamavano in cantiere?»
«Chi?»
«Il Marietto. Lo chiamavano ‘remora’. Lei sa che cos’è la remora, avvocato?» Gilardi fece di sì, con la testa, e sorrise: il pesce che sta attaccato alle tartarughe di mare. Termine azzeccato da quello che aveva capito.
«Bene, così lo chiamavano: remora. Sempre attaccato al mio Alessandro, come una remora. Era in barca con lui, non so se l’ha saputo». Gilardi fece ancora di sì con la testa. «Sempre insieme. Una gran fiducia… chissà».
«Lei non aveva fiducia in Marietto? Perché?»
«Non so, ma ormai è morto anche lui. Forse non era così esperto… ecco, io penso questo».
«Allora lei pensa a una disgrazia. A un motore che…»
«No, Alessandro era ingegnere navale, era bravo nel suo lavoro. Non poteva sbagliare. Non lui».
«Che idea si è fatta, se posso chiederglielo?»
Rosina lo fissò un attimo, come se volesse ignorare la domanda. Invece disse: «Qualcuno ha sabotato il motore… questo penso io».
«Ma perché avrebbero dovuto sabotare un motore che era ancora in fase sperimentale? Che fastidio dava, e a chi?»
«Ai grandi cantieri, avvocato. Perché la Nautica Notarnicola non dava fastidio a nessuno finché stava nel suo guscetto. Ma se creava un motore che era potente e consumava poco, allora dava fastidio a molti. Ecco che cosa penso, ma chi mi sta a sentire?»
«Io, ora, lo sto facendo». Stupito, peraltro, di sentirla parlare di motori con una certa proprietà.
«Sì, avvocato mio, lei ora lo sta facendo. Ma lo vada a raccontare alla famiglia. La tratteranno…» Si interruppe, stava suonando il telefono. «Mi scusi…»
Dal corridoio Gilardi la sentì rispondere. «Sì, è qui. Dopo ti chiamo io. Ora lasciami, vai… Dopo, sì».
Rosina rientrò, lisciandosi l’abito sui fianchi in un gesto che doveva esserle familiare. «Mio fratello» disse, sedendosi. «Altro caffè, finché è ancora caldo?»
Gilardi scosse il capo. «Lei ha fratelli?»
«Uno, Francesco. Più giovane di me di due anni».
«Che lavoro fa, suo fratello? Lei prima diceva che suo padre è operaio… ho capito bene?»
«Sì, avvocato: ha capito benissimo. Padre e fratello, hanno una piccola officina. Roba da poco, ma onesti e lavorano bene. Sono apprezzati. Ora lavorano al cantiere, li ha chiamati l’ingegner Semini, l’ha conosciuto?» Gilardi scosse la testa. «Brava persona. Almeno lui…»
«Come mai invece Alessandro non aveva preso in cantiere suo fratello? In fondo era del mestiere anche lui».
Rosina alzò un sopracciglio, che aveva scuro e ben delineato. «Lavorava bene soltanto Marietto» disse. Come se non lo pensasse affatto. «E poi, allora, Cesco era troppo giovane».
Gilardi si alzò. «Le ho rubato molto tempo» disse, avviandosi.
«Ma no, che cosa dice. Sono sempre sola. Ho fatto due chiacchiere volentieri. C’è altro che posso fare, avvocato?»
«Sì. Mi scusi la domanda… ma quando è successa la disgrazia, lei e Alessandro eravate ancora insieme?»
«Ma che cosa mi sta dicendo? Avvocato, mi sta chiedendo se eravamo ancora fidanzati? Questo, mi sta chiedendo?» Poiché Gilardi era rimasto impassibile, Rosina gli afferrò un braccio. «Ma dovevamo sposarci a luglio, due mesi dopo. L’ha sentito anche lei quella sera alla festa, dai Notarnicola. L’ha detto il padre, il cavaliere, non io. Due mesi dopo dovevamo sposarci. Chi le ha detto che avevamo litigato? Quella strega di Elena, vero?»
«No, non ho mai parlato di questo con nessuno di loro. Era una domanda che dovevo farle, signorina. E lei dov’era quando è successo…»
«Lì, ero. Lei ha visto il posto dov’è il cantiere? Sì? Ha visto che dietro al cantiere c’è come una specie di promontorio… ha presente? Da lì si vede il mare dall’alto. Lì, ero. Gli avevo chiesto di portarmi con lui. In barca, volevo essere. Con lui. Gliel’ho chiesto facendo i capricci, l’hanno sentito tutti. Invece non mi ha voluta. Mi ha detto di andare sul promontorio, in quel punto: così ti vedo, mi ha detto. Io avevo un abito a fiori rossi. Così ti vedo. E io sono andata lì, con mio fratello. Mia madre non c’era, ma mio padre era giù, tra la gente che assisteva al varo. Sua madre era seduta, perché non stava bene. C’era Elena e c’era suo padre. E molta gente, giornalisti, fotografi. Due barche d’appoggio e in una c’era la televisione con una telecamera. Un fatto importante…» Si passò due dita sotto gli occhi: se voleva fargli sapere che stava piangendo, non ci riuscì, perché Gilardi si accorse che aveva gli occhi asciutti. Non era commossa, era arrabbiata. «Il resto lo sa» aggiunse in fretta.
«No, me lo racconti lei».
Rosina lo fissò un attimo, forse per rendersi conto dove Gilardi stava conducendola con quelle domande. «Non lo sa? Hanno messo lo scafo in mare, una barca bellissima: nera e bianca, diciotto metri… un siluro…» Elena gli aveva detto che era di quindici metri, gli sembrò che la fidanzata fosse più informata. «… e all’atto di accelerare il motore…» Rosina trasse un lungo respiro, era visibilmente emozionata. «Sì… Alessandro era seduto al posto di comando. Marietto si era chinato e trafficava in coperta. Dalla barca Alessandro ha alzato un braccio. Verso di me, avvocato. Per salutarmi… l’hanno visto tutti. Ha salutato me. All’atto di accelerare il motore…»
«Da dove era lei ha potuto sentire il motore che accelerava? Ci pensi, è importante». Non era vero, ma voleva che lei si sentisse protagonista del racconto.
«Sì, si è sentito chiaramente… Fu un attimo, la barca alzò il muso, come se volesse uscire dall’acqua, ed esplose». La donna si portò le mani alla bocca. «Esplose tutto… tutto insieme».
«Sì, immagino di sì. L’ho visto molte volte nei film di guerra. Il mare che esplode». Lo aveva detto anche Elena: ‘era esploso il mare e anche il cielo che ci stava sopra’.
«Non hanno trovato più niente…»
Sì, il resto lo sapeva. Le mise una mano sul braccio. «Mi dispiace, ma qualcuno doveva raccontarmi queste cose. Lei è stata molto precisa e la ringrazio. Mi scusi se le ho rinnovato…»
«Dovere, avvocato. Dovere mio e anche suo. Mi faccia sapere se ci sono novità». Aprì la porta che dava sul pianerottolo, ma rimase con il braccio teso attraverso la porta, per impedirgli di uscire. «A me nessuno dice niente» aggiunse, quasi scusandosi.
«Perché? Lei conosce Ciccio Caremi, anche lui è al corrente di queste cose, è un parente oltre che un eccellente avvocato». Ti ho fregato, pensò soddisfatto.
«Già, è un cugino. Pensavo che sarebbe toccato a lui…» La solita risatina a labbra strette. «Ma lei è più bravo».
«No, non c’entra. Lui è un parente stretto e io no: c’è soltanto questa differenza. E conta molto». Arrivato sulla porta le chiese: «Lei lavora?»
«No, e che lavoro farei?»
«Mi hanno detto che lei è ragioniera».
«No, ma quale ragioniera. Ma chi racconta queste storie? Ho fatto le medie e poi un corso per contabilità… tengo la contabilità a mio padre. Che ragioniera, avvocato. Io sono ignorante, ma il mio Alessandro mi amava com’ero».
Lo credo, pensò Gilardi. E le strinse la mano. «Se avrò ancora bisogno di lei?»
«Avvocato, io sono qua. A disposizione».
Tornato in studio si rimise alla scrivania con gli occhi chiusi e le mani premute contro la bocca.
Così lo trovò Laura. «Allora?» domandò. «Come è andata con la vedova?»
Era arrivato intanto anche Ricky. Gilardi scosse la testa. «Sembra tutto a posto, eppure c’è qualcosa che non quadra».
«Per esempio?»
«Per esempio… perché due mesi prima del matrimonio questi avevano ancora la casa mezza vuota?» Guardò Laura. «E poi, quante ante ha il tuo armadio?»
«Quattro, perché?»
«Ti pare normale che l’armadio della loro camera nuziale avesse tre sole ante? Che cosa ci mettevano? E un letto matrimoniale rosa, con le bambole? Che camera nuziale è?»
«Un mattatoio» disse Ricky.
«Un che?»
«Un mattatoio, è così che noi ragazzi chiamiamo le stanze dove riusciamo a portare le ragazze. Di solito è in casa, di nascosto, ma se qualcuno ha un mattatoio lo presta anche agli amici».
«E Alessandro Notarnicola, con la casa che aveva, andava a vivere in quel posto, schiacciato con le case davanti alle finestre, brutte scale… ma siamo pazzi? Lei insiste che si dovevano sposare dopo due mesi: avevano un’altra casa? C’è traccia di questa casa? Avete guardato, avete chiesto?»
Laura scosse la testa. «No, per la verità ci siamo fidati che quella fosse la casa, l’unica. Chi ne sapeva niente? Il padre Notarnicola l’ha regalata alla ragazza, ora è sua, è agli atti. Possiamo vedere se Alessandro aveva intenzione di andare a vivere in un’altra città…»
«Certo» esclamò Gilardi, interrompendola. «Certo. Vorrei dare un’occhiata alla camera di Alessandro».
«Ma l’hanno già fatto, è agli atti».
«Bene, lo rifacciamo. Quando sarà il momento lo diremo a Cataldo, vorrei che fosse lui a fare la richiesta alla famiglia, l’investigatore è lui. Poi penseremo al cantiere». Si alzò e aveva lo sguardo di quando qualcosa cominciava a rovistargli il cervello. «Se c’è una spiegazione dobbiamo trovarla. Avanti, non possiamo perdere tempo, i giorni passano. Qui c’è qualcosa che non va. Non va per niente, accidenti».