Diciotto

Prima che potessero stabilire un incontro con la dottoressa Santini, il dottor Funari aveva chiamato Giacomo Cataldo.

«Dovresti venire, ho qualcosa da mostrarti».

«Verrò con il dottor Russo, dello studio Gilardi: è per la faccenda della Gabbianella?»

«Sì, quella».

Li ricevette con la solita aria annoiata, tuttavia la sua voce aveva un tono leggermente meno tetro del solito.

«Venite a vedere». Accese lo schermo, e fece apparire nuovamente il corpo ricomposto di Carlo Spada. Un telo bianco lo copriva fino al petto.

«Guardate qui, sul collo… io non ci avevo fatto caso perché il collo era completamente slogato all’indietro… insomma, era rotto e non sapevo che cosa cercare. Ma dopo aver parlato con voi… vedete qui?»

Cataldo e Ricky guardarono dove il dottore stava indicando con il cursore luminoso. «Sono dei segni scuri, ma non so che cosa significhino. Non riesco ad attribuirli a niente, nella dinamica di questo incidente».

«Potevano esserci già prima?» azzardò Ricky.

«Probabilmente. Ma se c’erano già prima, come dice, il ragazzo era già morto…»

«In che senso, scusi?»

«Se qualcuno l’ha colpito in quel punto, lo ha ammazzato sul colpo. E non è stato il treno. Qui hanno preso la giugulare, lo appureremo. All’urto con il treno la testa è crollata all’indietro perché lui era già morto». Guardò prima uno e poi l’altro i due uomini, che ora stavano osservando quei segni sul collo che un gesso aveva evidenziato seguendone i contorni. «Vedi, Cataldo: nell’urto il giovanotto si è rotto l’osso del collo per il contraccolpo, ma non ci sono segni che qualcosa lo abbia urtato in quel punto. Il corpo… evito di mostrartelo ancora, aveva chiari e evidenti i segni del volante, del cruscotto… insomma, lì c’erano contusioni diciamo logiche. All’altezza del collo non c’era niente che potesse provocare questi segni. Strani, non trovi? Non saprei a che cosa attribuirli. Possiamo analizzare la pelle in quel punto, ci arriveremo. Ma se volevate sapere se qualcosa aveva potuto ucciderlo prima del treno, ecco, credo di sì. Non so a causa di cosa, ma ora posso affermare che all’arrivo del treno il ragazzo era già morto».

«Appena morto?» domandò Ricky.

«Sì, appena morto. Questione di un’ora, un’ora e mezza al massimo. Come ho scritto nel mio rapporto».

«Grazie, dottore: grande!» Ricky stava ancora osservando quei segni, cercando di capire lo strumento che li aveva provocati e che aveva potuto uccidere il ragazzo. «Grazie» ripeté, chiudendo il computer. «Gilardi sarà soddisfatto, lui lo sapeva».

«Ah, e per quello che mi avete chiesto riguardo allo stomaco… agli esami tossicologici abbiamo riscontrato ecstasy, cocaina, alcool… un brutto miscuglio, ma non letale. C’è tutto scritto nella mia relazione».

«Questo materiale è già a conoscenza della dottoressa Santini?»

«Sì, da ieri. Con le mie annotazioni e le conclusioni. Purtroppo non determinanti, ma non ho altro. Però quei segni… quale arma o strumento contundente può lasciare quei segni?»

Cataldo si grattò la barba. «Questa prova cambia molte cose…» pensò ad alta voce.

Funari gli girò le spalle. «Vedetevela voi, e chiudete la porta uscendo».

 

Quando in studio mostrarono le immagini a Max Gilardi, si resero subito conto che lui un’idea ce l’aveva già chiara in testa.

«Lei sa come si è procurato queste ecchimosi?» Ricky le ingrandì sullo schermo cercando di osservarle da vicino. «Così irregolari… una tenaglia. È una tenaglia?»

Max Gilardi fece di no, con la testa, e gli chiese di stampargli le foto. «Questo punto soltanto, a grandezza naturale, per favore».

«Per farne che?»

«Dopo ve lo dico, presto…»

E mentre in studio stavano verificando e riordinando il materiale da sottoporre alla dottoressa Santini, Max Gilardi decise di fare due chiacchiere con i compagni di scuola, gli amici più vicini a Carlo Spada.

Come gli aveva chiesto, fu Felice ad avvertirlo che quel pomeriggio quattro di loro erano al bar.

«Trattienili come puoi: arrivo subito».

Li riconobbe, erano gli stessi che aveva incontrato da Felice la prima volta, oltre a uno nuovo, piccolino, bruno, che quella volta non c’era.

«Ragazzi…» li salutò.

«Ehi, anche voi…» Aziz gli si fece incontro sorridendo, dandosi importanza. «Loro li conoscete» disse. «Lui invece è Manu, quella sera non c’era».

«Quale sera?» Dovettero raccontargli di quella sera in cui si erano incontrati proprio da Felice e l’avvocato aveva dato un pugno a Carlo.

«Un pugno?» ripeté stupito Manu, che di nome faceva Emanuele, ma per tutti era Manu. «E non l’ha ucciso?» Risero tutti.

«Che cosa bevete, un’altra Coca?»

Si sedettero in un angolo del bar e arrivarono le Coca Cola per tutti.

«E allora?» chiese il più alto, Roberto.

«Vi ricordate che quella sera, proprio qui, vi ho sequestrato i vostri arnesi?»

«Già… il mio pugno di ferro era nuovo nuovo, appena regalato. Non l’avrei adoperato, ma mi piaceva, era un bell’oggetto da avere».

«Ti chiami?»

«Enzo».

«Pensa che proprio un oggetto come quello potrebbe aver ucciso Carlo».

«Non ci credo» disse Manu, appoggiando con forza la lattina sul piano del tavolo, per far rumore. «Non è possibile… ne aveva uno Carlo, non si trovano in vendita facile… insomma, non sono al mercato, ecco».

«Eppure chi l’ha ammazzato…»

«Ma non è stato il treno?»

«Svegliati, Enzo, non li leggi i giornali? L’ipotesi ora è che non sia stato ucciso dal treno… è così, avvocato?»

«È un’ipotesi, sì. Gli inquirenti ci stanno lavorando».

Il ragazzo bruno, che gli sedeva di fronte e che era sempre stato zitto, si alzò di scatto. «Io vi saluto, belli. Non voglio aver niente a che fare con questa storia… ma non capite? Questo qui ci sta accusando di aver ammazzato Carlo».

«Rimettiti a sedere… tu sei?»

«Giò… sta per Giovanni» suggerì Aziz.

«Bene, Giò, rimettiti a sedere. Voi non c’entrate in niente e per niente. Altrimenti non saremmo qui a bere Coca. Siediti, che vi devo mostrare una cosa. Invece io spero che voi possiate aiutarmi».

«E come?» domandò Manu con l’aria ancora spaventata. «Noi non sappiamo niente…»

Gilardi, guardando gli appunti che gli aveva dato Laura, rifece la storia di quella notte. Chi c’era, dove erano andati, chi avevano incontrato, che cosa avevano bevuto, a che ora erano andati a casa. All’ultima riga alzò la testa. «Tutto giusto?»

«Accidenti, sì» disse Roberto, che doveva essere il più grande del gruppo. «Dieci e lode, ci avete seguiti?»

«No, indagini. Se si ha il sospetto che dietro una morte accidentale o volontaria ci sia un delitto, le indagini durano mesi e sono precise. Altrimenti non contano».

«E noi facciamo parte delle indagini?» Manu sembrò preoccupato.

«No, voi mi state dando una mano. Ci sono cose che voi mi potete aiutare a capire».

«Ma cosa volete da noi?» Ancora Roberto, aggressivo.

«Taci, che se non ci salvava il culo lui quella sera, proprio qui, avremmo avuto i nostri guai, con quello». Roberto si girò di scatto verso Giovanni. «Allora parla tu, sapientone. Che cosa hai da dire?»

«Io dico che è tutto giusto, quello che ci avete letto. Sacrosanto. Manca però un particolare da niente…»

«Cioè?» Fu quasi un coro.

«La madamina… Gioia, che è arrivata al Mocambo e lui l’ha quasi aggredita. Questo ve lo siete dimenticato o lei vi ha dato qualcosa per tacere?» E si portò la mano al cavallo dei pantaloni, con un gesto volgare.

«Ma smettila, figuriamoci… Il primo della lista semmai saresti tu…» Poi Aziz si rivolse a Gilardi. «Sì, però Enzo ha ragione. Carlo l’ha aggredita a male parole, questo dobbiamo dirlo». E guardò gli altri per avere consensi. «Appena è arrivata lei, lui ci ha spostati tutti dal Mocambo, e lei si è ripresentata da Ugo perché voleva parlargli».

«Gli ha parlato?»

«Figuriamoci». E questa volta risero tutti insieme.

«No» proseguì Roberto. «Noi ce ne siamo andati, come avete detto voi prima. Lui stava alzando la voce e trattandola a male parole…»

«Per essere gentili. Le ha detto di tutto».

«Per esempio?»

Manu si nascose la bocca dietro la mano. «Le ha detto… ‘togliti dai piedi, brutta troia’. Io non l’ho mai detto alla mia ragazza».

«Ma dai, lo sapete anche voi com’era fatto… urla e parolacce, poi se ne dimenticava».

«Già, tu ne sai…» Aziz si rimise a sedere. «Te ne diceva anche a te mica male… ma perché stavate sempre zitti?»

Max Gilardi mise in mezzo al tavolo uno dei pugni di ferro che aveva sequestrato quella sera e che Felice aveva conservato in un cassetto. «Perché aveva uno di questi» disse.

Manu tirò su dal naso, come un ragazzino. «Quando si arrabbiava faceva paura, questo sì. E quella sera… ma l’aveva ancora quel coso?»

«Questo è uno di quelli che vi ho fatto gettare quella sera…»

«Ehi, noi non li abbiamo più visti» si agitò Roberto.

«Lo so, li aveva ancora Felice». Dalla tasca trasse una busta di plastica che conteneva un altro pugno di ferro. «Questo era quello di Carlo, ci sono le sue impronte».

«Ma lui ne aveva un altro» disse Manu, a bassa voce. «Io gliel’ho visto».

«E tu?» chiese a Aziz.

Il ragazzo si morsicò il labbro inferiore prima di rispondere. «Sì, ne aveva un altro».

«E glielo avete visto quella sera?»

Tutti risposero di no, insieme. Anche Aziz.

«Non glielo hai visto, quella sera?» E restò a fissarlo per fargli capire che voleva la verità.

«No, non l’ho visto, ma sapevo che l’aveva nella tasca della portiera. Me l’aveva detto… non quella sera, una volta. Ne ho un altro, mi aveva detto. E me l’aveva fatto vedere. Ma quella sera non l’ho visto, posso giurarlo. Ma perché tutte queste domande?»

Max Gilardi si fece spazio sul tavolo, tra lattine e bicchieri; aprì una busta grande e mise in mezzo al tavolo l’ingrandimento fotografico del collo di Carlo, con quei segni bluastri e sbiaditi… Quasi incomprensibili.

I ragazzi si ritrassero con una smorfia. «Accidenti» disse Manu.

«Già, accidenti». Sistemò sulla mano il pugno di ferro e si avvicinò alla foto. «Capite ora? Capite perché è importante sapere che cosa è successo quella sera? E se qualcuno aveva un aggeggio come questo?»

«Sentite, nessuno di noi. Voi ce li avevate fatti gettare…» Mentre parlava, Roberto girò la foto per non doverla più guardare. «Noi questi aggeggi non li abbiamo più avuti, dopo che voi ce li avete fatti gettare. Ne aveva uno lui, chissà dove l’aveva trovato. Ma lui aveva sempre tutto quello che voleva, anche le ragazze. E gettava anche quelle. Ma questo non c’entra niente con quello che è successo, lo potete capire anche voi. Noi siamo impressionati da questa storia, era un nostro compagno».

«Prepotente finché si vuole, ma accidenti, era uno di noi» aggiunse Manu.

«Ed era anche buono, a suo modo» disse Aziz.

«Levati, va’…» Giò era il più duro.

«Comunque noi non c’entriamo, questo volevo dire».

«Lo so. Volevo essere io a dirvelo» disse Gilardi, raccogliendo foto e pugno di ferro. «Carlo Spada non si è suicidato, ora è ufficiale. È stato ucciso con un pugno di ferro come questi, ma con nessuno di questi».

«E noi?» domandò aggressivamente Roberto.

«Voi eravate i suoi compagni, mi è sembrato giusto che lo sapeste da me. Ora possiamo procedere. È omicidio».

«Accidenti, ragazzi… sono tutto sudato» disse Manu, alzandosi. «Be’, grazie. Qui ci pensate voi? Io vado… chi viene?»

Si alzarono tutti e tutti gli passarono davanti per salutarlo. Aziz per ultimo.

«Io quella sera non gliel’ho visto» ripeté a mezza voce. «Avrò ancora grane?»

«Nessuna, sei fuori. Il tuo momento di gloria è finito». Ridendo gli diede una pacca sulla spalla. «Vai, va’…»

 

Quella sera, mentre stavano preparandosi per andare al cinema, Max Gilardi raccontò a Elena l’incontro che aveva avuto con i ragazzi, al bar di Felice.

«Non sai come rispondono… sembrano imboccati. Ma a scuola gli fanno lezioni speciali? Io mi sentivo Nero Wolfe!» Stava ridendo.

Elena alzò le spalle e prese il giornale. «La televisione, chi altro? Ci sono più trame di gialli che nella biblioteca di Agatha Christie. Ormai in televisione ti insegnano come uccidere e farla franca; come prendere il più improbabile degli assassini; come condurre un’inchiesta e come rispondere in tribunale per far credere quello che ti serve. L’avranno imparato da lì».

«Può darsi. Ma forse no».