Tre

Max Gilardi ci mise sei settimane prima di decidere che sarebbe andato a trovare Ciccio Caremi, in studio.

Aveva trascorso tutto quel tempo a sfogliare i libri dello studio di suo padre. Vecchie sentenze. Arringhe. Processi. Anche romanzi polizieschi, per rilassarsi.

«Tutte scemenze» aveva commentato suo padre. Gli sembrava che Max buttasse via tempo prezioso, senza decidersi. «Ma tu, che cosa vuoi fare?»

«Non lo so». Era vero. Non lo sapeva.

Qualche volta, verso la fine del pomeriggio, era andato da Felice per incontrare vecchi compagni. Due volte soltanto aveva incrociato Ciccio Caremi, che non gli aveva chiesto niente della promessa di andare a trovarlo. Si era accorto che Max Gilardi si era tagliato la barba e l’aveva detto a tutti, a voce alta. Alcune ragazze che erano al banco con lui avevano riso.

«Questo è sempre stato il mio eroe: Max Gilardi, ricordatevi questo nome. Il mio eroe, eh Felice? Te lo ricordi quando eravamo studenti? Io ero piccolo e smilzo… ridete, già: ma da ragazzo ero piccolo e smilzo. E lui era grande e forte. Mi proteggeva sempre… Max il grande. Ora è tornato, Max l’eroe senza barba».

«E piantala».

«Non fare il modesto… è stato poliziotto, capite? Un poliziotto avvocato!»

«Sei sbronzo, Ciccio. Va’ a casa».

 

Una sera, mentre al banco stava bevendo un gin tonic, con la coda dell’occhio vide in un angolo un gruppetto di tre ragazzotti che stavano spingendo contro il muro un quarto ragazzo di colore. Non sentiva le loro parole, ma poteva intuire le loro intenzioni. Il ragazzo di colore aveva gli occhi sbarrati, iniettati di sangue. Uno dei tre che lo spintonavano aveva il pugno di ferro infilato nella mano sinistra.

Max Gilardi spostò con la mano il bicchiere sul banco. Scese dallo sgabello e con un largo giro si avvicinò al gruppo, alle spalle.

«Che cosa succede?» domandò. Sembrava uno che chiedesse informazioni.

«Vattene» sibilò tra i denti quello che doveva essere il capo.

Max Gilardi aveva la pistola nella fondina sotto il braccio, come quando era commissario. Aveva restituito pistola e tessera con le dimissioni, ma con il porto d’armi aveva riacquistato una pistola. Come un’abitudine.

Picchiettò con due dita sulla spalla di quello che aveva il pugno di ferro. «Che cosa succede?» domandò di nuovo. Con un tono diverso.

Il giovanotto si girò di colpo, con la mano alzata. «Ho detto vattene, stronzo».

Gilardi con un movimento del braccio lo afferrò al gomito, lo fece girare su se stesso e lo gettò a terra. A uno dei due che stava per avventarsi contro di lui, mostrò la pistola. «Fai un gesto ed è l’ultimo della tua vita, imbecille» recitò alla Humphrey Bogart.

Intanto il ragazzo di colore si era allontanato dal muro ed era rimasto a guardare, in disparte. Era teso e tremava.

«Uno sbirro» fece uno dei tre. E sputò per terra.

«Andiamocene» ordinò quello che era stato gettato a terra. «Perché non ho voluto fargli male… vecchio scemo. Mi capiterai tra le mani, stronzo. Fai il bello perché hai la pistola. Andiamo, lasciamo perdere. Tanto stai sicuro che ne riparliamo, sporco negro…» Il pugno lo colpì sul mento. Vacillò annaspando con le braccia nel vuoto, fece una mezza piroetta e cadde a terra. Svenuto.

«L’hai ammazzato, porco di sbirro…»

«L’hai ammazzato».

Gilardi prese dal banco il suo bicchiere e lo vuotò sulla testa del ragazzo che era rimasto a terra. «Ora resuscita, vedrete. Io sono Dio».

Il ragazzo si alzò, questa volta aggrappandosi a una sedia, sembrava sul punto di piangere. «Ma perché t’immischi? Non abbiamo fatto niente, parlavamo… Ehi, diglielo tu a questo: parlavamo sì o no? Avanti, negro, diglielo».

Gilardi ritornò al banco. «Venite qui. Tutti e tre… e anche tu… come ti chiami?»

«Aziz».

«Bene, ora mettete sul banco quegli arnesi di ferro che avete in tasca. Avanti, li voglio vedere sul banco». I tre ragazzi, spiandosi l’un l’altro per essere certi di star facendo la cosa giusta, misero sul banco due pugni di ferro; il terzo aveva un coltello a serramanico. Aziz girò le tasche per mostrare che non aveva niente. «Bravi, così va bene…» Diede un colpo ai tre oggetti e li fece cadere oltre il banco. «Ora Felice li fa sparire, perché se la polizia vi trova con quegli aggeggi in tasca, vi manda dritti al riformatorio, imbecilli che non siete altro».

«Sei uno sbirro?»

«No, sono un avvocato».

«Hai la rivoltella, l’ho vista».

«Sono stato commissario di polizia fino a tre mesi fa. Ora sono avvocato. Ma posso sempre mettervi a terra con un pugno».

Il ragazzo che era stato colpito sorrise. «Accidenti se picchi forte, hai un macigno in quelle mani».

Max Gilardi bevve una Coca Cola con loro, fece qualche domanda, chiese da dove venivano, pagò il conto e li salutò sulla porta. «Non cercate guai, ragazzi, la vita è troppo breve».

«Ok, avvocato. Se abbiamo bisogno di te?»

«Felice sa dove trovarmi. Ma spero di non vedervi mai più».

I tre uscirono facendo chiasso. Aziz si avviò alla porta camminando all’indietro, senza staccare gli occhi da Max Gilardi. Era impacciato, come se stesse facendo qualcosa di sbagliato.

«Grazie… Ma state attento a quei tre, specie al biondino, Carlo. È lui che comanda».

«Mettermi nei guai è il mio mestiere. Tu stanne lontano». Non sapendo come dimostrargli simpatia in altro modo, gli allungò un suo biglietto da visita. Nuovo, glieli aveva fatti trovare suo padre sulla scrivania. «Caso mai…» mormorò con un sorriso.

«Sì, signore. Grazie… avvocato».