Cinque
Circa una settimana dopo quella sera, Max Gilardi stava tornando a casa dal circolo e si fermò come aveva fatto altre volte al Baretto, uno strano piccolo bar che gli era di strada, con orari particolari: apriva alle sette di sera e chiudeva alle otto del mattino, dopo aver servito il caffè a quelli che prendevano la corriera.
Il bar era di un certo Sandrino, che era stato un compagno di scuola. Sandrino avrebbe voluto continuare a studiare, ma il padre lo aveva messo al lavoro. Il Baretto era stata una sua idea. Era frequentato da quelli che, chiuso l’ufficio, andavano a prendere un aperitivo; poi, la notte, da nottambuli, vagabondi, qualche prostituta, operai che smettevano il turno di notte e quelli che ricominciavano i turni di giorno.
Ogni tanto, di notte, da Max Gilardi: che dava del tu a Sandrino, mentre Sandrino lo chiamava avvocato, per mantenere le distanze.
Non hai paura?, gli aveva chiesto una delle prime volte che lo frequentava.
No, avvocato. Qui balordi non ne entrano. Ci pensa Giacomo.
Anche Giacomo era stato loro compagno di scuola. Un ragazzone grande e grosso con i capelli rossi e il viso coperto di lentiggini, Giacomo Cataldo.
«Che cosa fa?» Max Gilardi non lo rivedeva dalla scuola.
«Fa l’investigatore. Voleva arruolarsi nella polizia ma non l’hanno preso, credo per gli esami…» Sandrino tentò di ridere. «Ma è in gamba, avvocato. Un pezzo d’uomo. Dovreste vederlo ora».
Quella notte, oltre la metà di ottobre, Max Gilardi entrò al Baretto.
«Ciao, Sandro. Mi dai una birra?»
«Sì, subito, avvocato».
A un tavolo tre uomini discutevano; più in là una prostituta si stava rifacendo il trucco. Due uomini in piedi al banco.
Sandrino gli mise davanti la birra nel bicchiere appannato dal freddo. «Ecco, avvocato…» Si girò per farlo sapere anche agli altri. «Noi qui stavamo discutendo della storia della Gabbianella. Voi che cosa ne pensate di questa storia?»
«Quale storia?»
«Su, alla Gabbianella… vi ricordate dov’è, avvocato? Ci andavamo in bicicletta… dove passa il treno».
«Sì, mi pare. Verso le colline, all’interno. Una trentina di chilometri fuori Napoli».
«Una ventina» lo corresse uno degli uomini che erano al banco. Che intanto si erano girati verso di lui per coinvolgerlo nella discussione.
«Sì, una ventina» confermò Sandrino. «Non sa il tempo che in quel punto devono farci la galleria. Niente, mai. Lì il treno passa allo scoperto… c’è solo un passaggio chiuso con un cavalletto… figuriamoci. Muovono il cavalletto e ci fanno passare pure le pecore…»
«Bene, che cosa è successo: hanno investito le pecore?»
«Non scherzate, avvocato. Lì ci passa il treno più o meno alle tre e venti, quello della notte che va al nord. Otto giorni fa ha investito una macchina messa di traverso sulle rotaie. E dentro c’era un ragazzo. Ma non l’avete letto?»
«Ho visto i titoli, se stiamo parlando della stessa cosa. Ma è roba di una decina di giorni fa…»
«Certo, ma ora il padre… sapete chi è il padre?» Gilardi gli rispose con un mugugno: la cosa lo interessava poco e stava rovinandogli il piacere della birra. «Il padre sta facendo il finimondo perché il figlio era con la macchina in quel punto, allo scoperto…»
«E come faceva a trovarsi lì quella macchina? Ho letto che si è suicidato».
«Il ragazzo, sì: ve lo sto dicendo. Ha voluto suicidarsi… ma ci pensate, avvocato? Si è messo di traverso sulle rotaie con la macchina. Ha aspettato il treno, l’ha sentito arrivare ed è rimasto fermo sapendo che sarebbe morto… Non ci posso pensare. Che coraggio, dico io».
«E a te queste cose chi le ha raccontate?»
«C’è sui giornali. Quelli che erano su quel treno, la polizia li ha fatti scendere. Il treno era bloccato, la locomotrice di traverso… Hanno chiamato le autoambulanze e hanno organizzato dei pullman per farli trasferire in stazione. Invece due di quelli che erano sul treno si sono fatti scendere qui davanti; uno lo conosco, lavora alla fonderia. Era andato a trovare la famiglia e tornava a casa…»
«E a chi sta facendo causa questo onorevole, se il figlio si è suicidato?»
«Ditemelo voi, avvocato. Quello è pazzo. Sta tirando in ballo le ferrovie, perché se il treno fosse passato sotto una galleria, che non c’è, il figlio non sarebbe potuto andare là ad ammazzarsi».
«Una logica di ferro. Se con la macchina si fosse buttato a mare, a chi faceva causa?»
«Quello lì, vedrete che gliela daranno vinta. Lo conoscete, avvocato?»
Max Gilardi mosse appena la testa. «Per sentito dire».
«Beh, a parte le scemenze del padre, pensate: un figlio solo, diciotto anni. Che va a suicidarsi alla Gabbianella. E in quel modo, dico io».
«Un po’ teatrale, francamente».
«Teatrale, dite» lo investì uno dei due uomini che erano al banco. «Questi ragazzi sono il prodotto di una società marcia, caro avvocato. Hanno tutto. Provano tutto. Sfidano la morte per farsi riconoscere… Chissà, questo figlio di puttana: magari credeva di farcela e di passare alla storia. Non ha pensato che il macchinista è rimasto ferito e anche alcuni passeggeri, uno grave… Gente che andava al nord, magari a chiedere un pezzo di pane. Teatrale, dite voi. Glielo darei io il teatro a questi…»
«Mi scusi se la fermo. Sono completamente d’accordo con lei su tutto. Ma a quest’ora sono ancora sobrio, e ho bisogno di dormire». Mise due banconote sul banco e raggiunse la porta.
Sandrino gli gridò: «Tornate, avvocato!» Gilardi rispose con un mugugno.
Arrivato a casa, si sciacquò la faccia per svegliarsi completamente, aprì il computer e accese il cellulare. Chiamò il numero diretto di un giornalista della nera che conosceva.
«Chi sei?»
«Max Gilardi. Senti, Gigi… sì, ciao. Che cosa sai di quella storia della Gabbianella?»
«Quello che da dieci giorni stiamo scrivendo, non hai letto niente?»
«Chi era il ragazzo?»
«Ma non sai niente?» Max Gilardi sentì che Gigi Selva stava ridendo. «Ma dove vivi, non si parla d’altro. E ora hai sentito? Il padre… sai chi è, vero?» Non attese risposta, gli sembrò ovvio. «Sta facendo il diavolo a quattro contro le Ferrovie dello Stato e la Regione».
«Sì, l’ho sentito dire. Io ho conosciuto questo ragazzo, l’ho incontrato una volta. Stento a credere che si sia ammazzato in quel modo».
«E come ci è arrivato alla Gabbianella, in mezzo alle rotaie?»
«Questo non lo so e non tocca a me scoprirlo. Ma non credo che avesse il fegato di restare immobile, in macchina, sentendo il treno arrivare. Era un pusillanime, un ragazzetto qualunque. Gli ho dato un pugno ed è svenuto: credo per la paura. Non mi pare il tipo che va a sangue freddo ad aspettare il treno per farla finita».
«Ubriaco, drogato… a quel che si dice».
«L’autopsia?»
«Devono passare sessanta giorni prima che ti mollino qualche notizia, lo sai. Stiamo aspettando. Da indiscrezioni che ho avuto… guarda che non te l’ho detto io…»
«Ma figurati, io ci parlo con i fantasmi. Allora?»
«Collo spezzato dall’urto e sfondamento del torace. Ci pensi che morte, a diciotto anni?»
«Mi sembra una faccenda molto complicata. A te, no?»
«Non lo so. La polizia ha scritto: suicidio. Anche la famiglia ha accettato questa ipotesi, pare che fosse depresso. Non andava bene a scuola… le solite cose che capitano a diciotto anni. Magari l’amore, aveva una ragazza. Però io l’ho intervistata, questa Gioia: piange come una fontana, non sa darsi pace. Lei dice che tra loro andava tutto bene. Ma tu che dubbi hai?»
«Nessuno, concretamente. Qualche riflessione. Un ragazzo di diciotto anni, che ha tutto…»
«Anche una macchina d’epoca, inglese… sai quanto costa?»
«No, ma certo non basta. Un bel ragazzo… Uno così decide di suicidarsi andando alla Gabbianella ad aspettare il treno delle tre e venti che dal sud va al nord, un treno di disoccupati e di straccioni. Come fai a crederci? Pensa se uno come lui che vuole farla finita ha bisogno di andare fino alla Gabbianella per aspettare il treno…»
«No, infatti. Comincerò a fare qualche domanda: che cosa dici?»
«Buona idea. Vediamo se qualche pesce abbocca».
«Ma se non si è suicidato, chi l’ha ucciso?»
«E lo chiedi a me? Mica sono il mago Merlino. Ho voluto fare due chiacchiere con te, fine della storia. Ciao, Gigi, grazie».
«No, grazie a te. Non mi dimenticare se sai qualcosa».
«Fatto».