Trentasei
Si erano messi la giacca tutti e due, senza dirselo. Vestiti della domenica, ed era domenica infatti. A piedi arrivarono davanti alla casa bassa, un cubo di calce bianca con le persiane verdi, con un abbaino che spuntava sul tetto, la staccionata intorno, un prato e un orto. Sotto il pergolato, davanti alla casa, un tavolo, due panche e una sdraio.
Gisella Galasso li guardò, prima di aprire il cancello.
«Sono l’avvocato Gilardi, le ho telefonato».
«Sì, certo, dove ho la testa. Entrate pure, avvocato».
«Lui è Giacomo Cataldo, collabora con il mio studio sull’inchiesta per la morte di suo marito».
«E si accomodassero… qui sotto il pergolato, va bene? Fa fresco».
Si sedettero intorno al tavolo e per qualche istante rimasero a guardarsi senza sapere a chi sarebbe toccato parlare per primo. Iniziò Max Gilardi.
«Al telefono le ho detto che abbiamo riaperto il caso per la morte anche di suo marito».
«Sì, me l’avete detto».
Era una donna minuta, certamente meno anziana di quanto appariva. Capelli grigi e radi raccolti alla nuca, un golfino scuro dal quale spuntava il colletto bianco della camicetta, le calze nere e spesse, gli zoccoli. Non si era preparata per quella visita, che pure le era stata annunciata.
«Possiamo farle qualche domanda? Quello che lei ci dirà, serve soltanto a me per capirci. Io non ero qui all’epoca. Quindi risponda con tranquillità, siamo in visita». La donna sorrise, appena stirando le labbra, e fece cenno di sì con la testa. «Bene. Posso chiederle se suo marito ha passato la notte in cantiere… la notte prima del varo, per capirci?»
«E perché lo volete sapere?»
«Perché sappiamo che l’ingegnere quella notte non era in cantiere, anche se aveva detto che avrebbe passato la notte in cantiere con Marietto. Lei lo sapeva?»
Alzò una spalla. «Che ci restava a fare? Tra cani, polizia e allarmi, chi si avvicina? Era una sua idea… ne aveva tante di idee, quel giovanotto».
«Non le era simpatico?»
«Sé, sé… ma intanto il mio Marietto è morto».
«Non per causa sua».
«Non per causa sua. Amen».
Forse avrebbe aggiunto qualcosa, ma fu interrotta dall’arrivo del figlio. Un giovanotto muscoloso, scuro di pelle e di capelli, occhi vivaci, sorriso pronto. Arrivò dalla casa con un giornale sotto il braccio, jeans sciupati, felpa senza maniche, braccia nude e tatuate.
«Sono gli avvocati…»
«No, buongiorno». Max Gilardi si presentò e tenne a sottolineare che Giacomo Cataldo era un investigatore che collaborava con il suo studio. «Riaprono il caso e nell’interesse dei Notarnicola, e anche vostro, stiamo raccogliendo informazioni… io non ero qui, all’epoca; i Notarnicola sono parte lesa, come voi, e mi hanno nominato loro avvocato di fiducia. Ho soltanto bisogno di capire».
Il giovanotto si sedette e appoggiò il giornale sul tavolo.
«Il caffè?» domandò a sua madre. «Hai offerto il caffè?»
La donna si alzò di scatto, scusandosi. Fu in quel momento che Max Gilardi, girando appena la testa, vide la prima pagina del giornale. Il titolo a caratteri cubitali: Tano Carrese è fuggito dal carcere di massima… In fondo alla pagina, in un riquadro, la fotografia di Natj, in divisa. Chiuse gli occhi e deglutì. Gli sembrò di avere la bocca piena di sangue.
«Zucchero, avvocato?»
«No, grazie».
Intanto Giacomo aveva dato un colpo al giornale e lo aveva fatto cadere sulla panca. «Io sì, grazie».
Silenzio. Con quel sapore in bocca e la testa tra due martelli.
«Chiedevo a sua madre se lei sapeva… quella notte, prima della disgrazia, suo padre ha dormito in cantiere?»
«Credo di sì, io non c’ero… Ma’, che dici, dove ha dormito?»
«A casa». La voce dura, come una pietra che picchia contro un’altra pietra.
«Ma non avevano detto…»
«L’avevano detto. Volevano stare in cantiere a dare un’ultima occhiata alla barca. Invece l’ingegnere cambiò idea. C’erano gli allarmi, avevano fatto tutti i controlli. A casa, ha dormito». Spinse la sua tazzina verso il centro della tavola. «E questo che cosa cambia?»
«Niente, era per cominciare da qualche parte». Si rivolse a Salvatore. «Lei dov’era?»
«Io… sono passati cinque anni, accidenti. L’ho detto quando mi hanno interrogato».
«Non può essersi dimenticato una sera così importante. Si tratta di suo padre».
«Certo, sì… ma noi facciamo sempre le stesse cose. Allora: sono uscito prima di cena, mio padre era ancora qui, aveva preparato la borsa per la notte in cantiere». Guardò sua madre che fece cenno di sì con la testa. «Sono andato con gli amici… ho dormito fuori, questo lo so. Avevo una ragazza. Mentre tornavamo, il giorno dopo, era tarda mattina, adesso non so se era la radio o qualcuno che ha telefonato… io non avevo il cellulare, ma uno di noi sì. E abbiamo sentito quello che era successo al porto. Siamo corsi… Io sono corso, era mio padre. Sono arrivato che c’era la polizia, era arrivata anche l’autoambulanza per la signora che stava male, insomma era già successo tutto. Ho dato una mano, sono rimasto lì fino alla notte. Questo è quello che mi ricordo. Ma se mi fate rileggere i verbali di allora, forse qualcosa me la sono dimenticata».
Giacomo Cataldo fece di sì, con la testa. «Più o meno è quello che sta scritto. Lei si ricorda che amici erano e dove siete andati?»
«Più o meno». Lo guardò, abbassando sugli occhi gli occhiali scuri che aveva tenuto sulla fronte. «Che cosa ve ne importa con chi ero? È morto mio padre e voi volete sapere se ero con Mario o con Giuseppe? Oppure non credete che fossi fuori? E se non ero fuori, dov’ero secondo voi? Ora che non vi va di credere alla disgrazia, dove ero secondo voi: ad ammazzare mio padre? Era un ottimo padre. Io ne ho sofferto molto. E adesso riaprite il caso».
«È quello che stanno facendo, infatti».
Max Gilardi prese il giornale e lo rimise sul tavolo, stirandolo con le mani, ma senza guardarlo. «Vede… lei si chiama Salvatore, vero? Posso chiamarla così?»
«Certamente».
«Salvatore, questa in fondo alla pagina era mia moglie». Mise il dito sulla foto. «Mia moglie» ripeté.
«Scusatemi, non lo sapevo… mi è arrivato ora il giornale…»
«Niente, non importa. Il figlio di questo delinquente l’ha ammazzata, le ha sparato davanti ai nostri occhi».
«Gesummaria» mormorò la donna, facendosi il segno della croce.
«Ognuno ha dolori profondi che non può dimenticare. Il nostro lavoro è di far valere la giustizia. A volte è cosa durissima. È quello che mi propongo di fare anche per voi».
«Scusatemi».
«Suo padre era assicurato?»
«Sì, un’assicurazione che ci aveva fatto fare il cavaliere» rispose la donna. «Molto buona, la pagavano loro. Ci hanno anche dato dei soldi, dopo la disgrazia. Come l’hanno chiamato? Un indennizzo… ecco, sì. Salvatore ha finito di studiare e ora ha un buon lavoro al porto».
«Bene, lo sappiamo. Noi ci stiamo convincendo che non si sia trattato di una disgrazia».
«Volete dire che credete…»
«Gesummaria…»
«Sì, soltanto intuizioni e qualche fatto che ancora non ci è completamente chiaro, per questo facciamo domande. Noi siamo convinti che qualcuno abbia messo una bomba in quella barca, che è esplosa appena hanno toccato l’acceleratore».
«Una bomba?» La donna sembrò terrorizzata come se la vedesse esplodere davanti ai suoi occhi.
«O qualcuno che abbia manomesso l’acceleratore…»
Salvatore si agitò sulla sedia. «Impossibile. Impossibile, avvocato. Era un bunker quel cantiere. Cani poliziotto, polizia, allarmi, telecamere… Nessuno avrebbe potuto entrare, anche se loro non c’erano».
«Eppure suo padre e Alessandro non potevano aver commesso un errore così grossolano da far saltare la barca come se fosse un giocattolo investito da un fulmine. Ho visto il film di quella scena». Glielo aveva mostrato Elena, qualche giorno prima della visita al cantiere, nel suo studio. «Uno sfacelo simile non può esser prodotto da un errore di manovra. Quella era la deflagrazione provocata da una bomba, e neppure troppo semplice. Da professionisti. Ecco perché facciamo domande».
«È che io non so che cosa rispondervi. Una sera come tante… era un venerdì. Un venerdì con gli amici, pizza, bisboccia, musica, ragazze… Non mi viene in mente niente di diverso».
«Va bene». Giacomo si alzò e fece scivolare sul piano del tavolo verso la donna il suo biglietto da visita. «Se vi viene in mente qualcosa che possa aiutarci, chiamatemi. Il mio cellulare è sempre acceso». Guardò Salvatore.
Giacomo strinse i pugni. «Comunque, vi chiameranno a ripetere le vostre deposizioni. Se vi viene in mente qualcosa… Ma questa volta dite la verità. Lei, signora, l’altra volta aveva detto che suo marito aveva dormito in cantiere: perché?»
«Era stata quella… la Rosina Santacroce a dirmelo. Salvo, l’ho detto per quello, vero? Me l’avete detto voi, tu e quella Rosina, di dire così…»
«Perché doveva essere così, avevano cambiato idea all’ultimo, con l’ingegnere capitava sempre».
«Tanto, che differenza faceva? Qui o là, morto è morto, il mio Marietto».
Giacomo le strinse la mano. «Lei non è di Napoli». Le sorrise per acquietarla.
«No, Alessano. Sa dove si trova?»
Max Gilardi lo prevenne. «Lo so io, provincia di Lecce. Ci sono stato».
«Bravo, sì. Il mio mare… è un mare diverso, vero avvocato? Un mare speciale, dicono che sa di oceano».
Per strada Giacomo Cataldo a un tratto rallentò il passo.
«Mi dispiace, per quel giornale: il padre del ragazzo è fuggito dal carcere e i giornali… sai come fanno» disse.
«Non importa. Sapevo che prima o poi avrei dovuto scontrarmi ancora con quella faccenda. Non fa più male del solito, fa male sempre».
«Ora stai attento, Max. Hai capito?»
«Credi che il padre verrà fino qui per ammazzare anche me? Sono in vantaggio io: la polizia gli ha ucciso il figlio, ma suo figlio ha ucciso mia moglie e mio figlio, e fanno due».
«Aspettavate un figlio?»
«Sì, era l’ultima missione. Poi sarebbe rimasta a casa. Voleva mandare il figlio di questo delinquente in un ospedale, non in galera. Voleva fargli del bene, pensa un po’ a volte…» Fece un gesto con la mano davanti alla fronte, come se avesse voluto cacciare un’idea. «Ora concentriamoci su questi due. Il figlio non ricorda, la madre mente perché glielo chiede Rosina Santacroce. E quell’altra che cosa voleva nascondere, che Alessandro era stato da lei? Sarebbe importato a qualcuno? Non era il suo fidanzato ufficiale? Ci stai capendo qualcosa?»
«Niente di niente. Ma parliamo di te, Max. Stai attento. Io non posso farti da scorta, non li provocare…»
«Ma fammi il piacere. Leggerò sul giornale i particolari, conosco il tipo». Sorrise, stirando le labbra. «E per fortuna che era in un carcere di massima sicurezza… Ora sarà già all’estero, figurati se rischia di farsi riprendere per venire a cercare me. Di quel figlio gliene importava assai».
«Ma tu sta attento, hai capito? La pistola…»
«Sì, a tutta questa storia ci pensiamo domani».