Quarantuno
La prima telefonata gliela passò Francesca, la segretaria fresca di assunzione, in studio. «Avvocato, la polizia per lei».
Mentre cercava di capire che cosa gli stavano dicendo, squillò anche il cellulare. «Un momento, prego…» Era Elena, e stava piangendo. «Che cosa c’è? Scusi… non capisco, chi? Aspetti…»
Laura entrò correndo e gli prese il ricevitore dalle mani. «Dica a me» disse risoluta.
Intanto Max Gilardi era andato verso la finestra con il cellulare premuto contro l’orecchio. «Elena, per l’amor di Dio, che cosa c’è? Non capisco… una bomba, dove?»
«Avvocato, un certo Giuliani della polizia voleva avvertirla, appunto. Hanno fatto saltare parte del cantiere dei Notarnicola a Punta Simma».
«Il cantiere?» domandò anche a Elena.
«Sì, vieni, ti prego… ci sono dei morti, mi hanno detto. Vieni, ti prego. Vieni subito».
«Sì, dove sei?» Era nel suo studio. «D’accordo, aspettami».
Arrivò nello studio di Elena con Ricky e Laura. Tutti avevano i visi spaventati. Una ragazza, appoggiata alla parete e rannicchiata sulle ginocchia, stava singhiozzando: suo padre lavorava in cantiere e non rispondeva al cellulare.
«Avranno perso la testa, cerchiamo di non perderla anche noi». Elena si aggrappò a lui, stava tremando. «Possiamo intanto chiudere lo studio. Possiamo?»
Il dottor Tomasi disse di sì. Dietro gli occhiali, gli occhi sembravano due buchi neri. Gli impiegati, una decina in tutto, avviandosi all’uscita passavano davanti a lui e a Elena, salutando con visi tirati.
«Buonasera, signorina, se ha bisogno…»
«Buonasera, avvocato».
«Dottore, se vuole…»
«Sì, grazie, per domani ci telefoniamo. Grazie, buonasera».
Elena, aggrappata al suo braccio, il viso contratto e le labbra tese, continuava a tremare.
«Avvocato, vado al cantiere?»
«Sì, Ricky. Sta’ attento. Accompagna la signorina e vedi perché suo padre non risponde al cellulare… Signorina, vada con l’avvocato Russo, l’accompagna».
«E noi?»
«Un momento, Elena. Doppiamo parlare. C’è qualcosa che devi sapere».
«Qui, ora?»
«No, andiamo a casa tua. Ma prima aspetta».
Lasciò che Elena si allontanasse per andare a recuperare il cappotto e chiamò Giacomo. Fece in tempo soltanto a chiedergli: che cosa devo fare? Giacomo parlò in fretta, in quel suo modo ruvido che lui conosceva e capiva. Non lo interruppe mai, fino a quando Giacomo gli domandò: «È tutto chiaro?»
«Sì, ho capito. Va bene».
Prese Elena per mano. «Vieni, andiamo». Strinse tra le sue una mano di ghiaccio.
Appena entrata in casa Elena si lasciò cadere su una delle due poltrone. Era pallida, violette le borse sotto gli occhi e le labbra esangui. Tremava ancora. «Non riesco a togliermi quella scena dalla testa. La telefonata dal cantiere, le urla… Non posso credere che sia davvero accaduta una cosa simile. Perché devo avere paura, Max?»
Le fece bere un po’ d’acqua e le passò una mano sui capelli. «Ora rilassati e ascoltami. Devi andare via».
«Dove, ma che cosa dici?»
«Giacomo è andato a prendere Luciano, partirete questa sera stessa… No, ascolta. Farai quello che ti dico. Non discutere, non ora, non abbiamo tempo. Ora vai di là e prepara una borsa, non una valigia, una borsa a mano con quello che non vuoi lasciare qui. Per favore, Elena. Per favore, ascoltami e non discutere».
«Almeno dimmi perché sta succedendo tutto questo. Che cosa c’entro io?»
«Niente. Ora non c’è tempo. Devi andare via, lasciare che le acque si calmino. Ho paura per te, questa è gente senza scrupoli. Non mi fido di nessuno: Semini, Tomasi, Accursi, Mattei… non mi fido di nessuno e voglio che tu vada via. Dobbiamo capire che cosa sta succedendo, ma voglio che tu sia al sicuro, lontana da qui. Mi dispiace, ma devi fidarti di me».
Elena si alzò, sembrava di colpo diventata più vecchia. Si appoggiò con le spalle alla parete e lo guardò a lungo prima di bisbigliare: «Aspetto un bambino».
Max la guardò come se non avesse sentito. Si portò una mano sul petto. «Io…»
«No, Max. Non ti avrei mai fatto una cosa simile. Non l’avrei mai fatta a me stessa. Per riuscire a cancellare te dalla mia testa e dal mio cuore ho voluto questo bimbo da Luciano…»
La guardò disorientato. «Luciano ti vuole bene, non puoi fargli questo…»
«Perché? Luciano è felice. Le analisi me l’hanno confermato, non ci sono dubbi. Sarà il nostro bambino, per questo abbiamo anticipato il matrimonio a maggio… volevo che tu lo sapessi».
Max la guardò disorientato da quel formicolio in mezzo allo stomaco, quel pulsare accelerato del sangue. Quasi un dolore fisico, evidente.
«Elena, credimi… Ti voglio bene, sai che ci ho provato. Tu sei stata importante, per me. Forse dirtelo ora non ha senso, ma sei stata importante in un momento della mia vita in cui io non so ancora se sono vivo».
«Lo so. L’ho sempre saputo. Io ti ho amato, Max. Lo sapevi anche tu. Ti ho amato da morirne. Poi me ne sono fatta una ragione e ho capito che non ci sarei mai riuscita. Non eri mio, non lo saresti mai stato».
Max Gilardi tentò di rimanere calmo. «Ora non abbiamo tempo» disse. «Adesso dovete partire, non c’è tempo per queste cose…»
«Almeno dimmi: non t’importa niente?» Lo disse a bassa voce, ma fu come se avesse urlato.
Max Gilardi alzò la testa verso di lei: quella era la ragazza con la quale aveva riso, a letto, mentre facevano l’amore. Non riuscì a chiedersi che cosa stesse provando in quel momento: dolore, rabbia, rimpianto… La prese tra le braccia, stringendola contro il petto, quasi aggrappandosi a lei. Con la voglia di gridarle di non farlo, di non andarsene, di non sposare un uomo che non avrebbe mai amato.
Deglutì. «Elena, lo sai, lo sapevamo tutti e due, ti prego. Adesso è tardi per tutto, devo pensare a te. Ti prego. Io voglio che tu sia felice… io non potrò mai… Ci ho provato. Lo sai anche tu, io sono uno straccio d’uomo».
Elena lo guardò con un sorriso disperato. «Credi davvero che avrei voluto sposarti? Non sono completamente pazza. Alzarmi ogni volta dal letto leggendoti in faccia la delusione perché la mia pelle non è scura?»
«Non è vero, non è mai successo. Te lo giuro, Elena, mai».
«Chiedilo a me, Max. Chiedilo a me. No, caro. A quelle condizioni, mai. Ti ho amato. Forse non riuscirò a dimenticare quanto ti ho amato e come sono stata felice e disperata tra le tue braccia. Quanto abbiamo riso insieme. Quanto sei stato importante, nella mia vita. Ma so che non saresti mai stato completamente mio. Io voglio bene a Luciano. Eravamo innamorati da ragazzi, poi lui è andato in America e io sono stata con quel tale dell’università. E poi sei arrivato tu». Si passò una mano tra i capelli e alzò il viso verso di lui. «Io voglio bene a Luciano. È buono, intelligente, simpatico. Abbiamo molte cose in comune. So che con lui sarò felice perché sarò sempre l’unica donna che avrebbe voluto. No, Max. Io sposerò Luciano».
«Grazie…»
«Ma io non voglio perderti. Ti prego. Tu sarai sempre… ti ricordi? l’amico migliore che abbia mai avuto». Fece di sì con la testa, mordendosi il labbro inferiore. Non voleva piangere. Voleva che Max la ricordasse com’era sempre stata con lui. Coraggiosa. Ecco, sì. In tutti quei mesi, amandolo disperatamente, era stata coraggiosa. Non aveva mai pianto, ogni volta che salutandolo non sapeva se l’avrebbe rivisto.
Sentirono la chiave girare nella serratura. Lui ha la chiave di casa, a me non l’aveva mai data, pensò Max, e avvertì un certo bruciore in mezzo allo stomaco. Si voltò e strinse la mano a Luciano.
«Tesoro». Luciano baciò Elena. «Ho sentito, pazzesco… Ti ha detto Max? Fai una borsa, piccola, non importa. Io ho casa a Palo Alto… ti ha detto che ora partiamo per New York? Comprerai a New York tutto quello che ti serve, o quando arriverai a casa. Vai, tesoro, qui ci sono i biglietti». Si rivolse a Max. «Mio padre ti manderà…»
«Sì, non importa, va bene». Quando Elena lasciò la stanza, Luciano abbassò la voce per dire: «Aspetta un bambino».
«Sì, me l’ha detto ora».
«Forse avremmo potuto aspettare… ma va bene così. Io ho una casa a Palo Alto, in California, le piacerà» ripeté, come se fosse la soluzione a tutti i loro problemi.
Elena rientrò: aveva indossato una giacca di renna. La borsa da viaggio la prese Luciano. «Sono pronta» disse. «Non capisco quello che mi sta succedendo, ma sono pronta».
Davanti al portone Giacomo aprì la portiera della macchina blu. Elena si sollevò sulla punta dei piedi e diede un bacio a Max. Sulla guancia, tenendo gli occhi chiusi. «Ciao. Sarai sempre il mio eroe, vero?»
«Vero. Ma ora vai». Abbracciò Luciano e lo spinse quasi a forza in macchina per non sentire che stava ringraziandolo.
«Li imbarco a Fiumicino».
«Sì, Giacomo. Come d’accordo». Alzò il braccio, mentre la macchina si avviava. Restò fermo in quel gesto fino a quando la vide sparire oltre la curva.
L’autista di Giacomo, che lo conosceva, aprì la portiera. «A casa, avvocato?»
«No, dalla dottoressa Prati». Allungò le gambe e chiuse gli occhi: era sfinito. E non voleva restare solo.