Venticinque

Durante quei mesi, mentre giornali e televisioni continuavano a occuparsi della morte di Carlo Spada, molte cose stavano modificando la vita di Max Gilardi.

Dopo l’incidente davanti al cinema, si ricordò di non aver ancora ristabilito i suoi rapporti con Ciccio Caremi. Gli telefonò di sera, a casa, per essere sicuro di trovarlo e di parlare con lui.

«Scusa, ero nervoso… Mi è dispiaciuta la frase che hai detto a proposito di Elena».

«Stai con lei?»

«Ma no, figurati. La conosci, è troppo intelligente e razionale per mettersi con uno come me».

«E perché te ne occupi tu della faccenda di Alessandro?»

«Perché non sono un parente, ma soltanto un avvocato estraneo. Hanno preferito far rischiare uno come me, non un nipote. Prendila come una prova di affetto. Mi dispiace soltanto che Rosina sia arrivata a dirtelo prima di me…»

Un attimo di esitazione nella voce. Poi, con una risata: «La cuginetta mi vuole bene!»

«Capisco. Comunque scusami».

«Va bene, Max. Se hai bisogno, sai dove sono».

«Grazie, lo so».

 

Per parlare con Elena gli era stato necessario invece un tempo più lungo, durante il quale si erano incontrati saltuariamente a causa di ragionevoli scuse di lavoro. C’era stata di mezzo anche una vacanza che Elena aveva trascorso in montagna, a Cortina.

Ma soprattutto gli occorreva coraggio per rinunciare a quel gioco che l’aveva completamente distratto da sé e dai suoi dubbi in una condivisione che era stata semplice e molto gradevole.

Le telefonò in studio. La sentì allegra.

«Posso venire a trovarti?»

«A casa?»

«No, preferisco in studio».

«Ti aspetto e ti preparo il caffè».

Lo studio di Elena era come se l’aspettava: sobrio, moderno, efficiente. Gli presentò i due professionisti che lo dirigevano con lei, poi lo introdusse nella sua stanza. Aveva appesi alle pareti molti disegni di gatti.

«Ami i gatti?»

«Parrebbe di sì. Soprattutto se sono pittori come Guttuso, Cerasoli e altri a disegnarli per me». Staccò dalla parete un gatto nero, una riproduzione del famoso gatto di Matisse, e glielo porse. «Mi piacerebbe che anche tu avessi un gatto».

«Nero?»

«Sì, sono i migliori».

Si sedettero dalla stessa parte della scrivania su due poltroncine color corallo. Bevvero il caffè in silenzio, senza guardarsi.

«Allora?»

Max Gilardi allungò le gambe. «Parliamo del processo per la morte di tuo fratello Alessandro. Laura ha riletto le indagini fatte a suo tempo, abbiamo preso qualche appunto, ve li sottoporremo. Sono state trascurate molte cose, ma ne parleremo. Invece ho voluto vederti per dirti che non potremo più incontrarci come abbiamo fatto in questi mesi…»

«Perché? Che cosa ho combinato?»

«Tu, niente. Neppure io. Con la riapertura del caso autorizzata dal GIP, non posso avere rapporti privati con uno di voi. Forse lo capisci».

«No, non lo capisco. Se tu per ipotesi fossi mio marito…»

«Incaricherei un altro avvocato».

«Sono stata proprio molto furba a proporre te a mio padre. Comunque mi sembra una scusa».

«No, Elena, non lo è. Davvero mi credi così meschino?»

«No, però mi dispiace. Stavo bene con te. Stavamo bene insieme… o no?»

«Sì, stavamo bene insieme, ma tutte e due sapevamo che a un certo punto avremmo dovuto smettere di vederci in quel modo».

«Ma perché?»

«Potrei risponderti che tu sei giovane, che devi pensare a te…»

«Ma questi sono affari miei».

«Appunto. Invece ti dico la verità: questa inchiesta sarà pericolosa, non voglio farti correre inutili rischi. Ci vedremo quando avrò bisogno di voi, ma preferisco che a nessuno venga in mente di colpire te…»

«Potrebbe succedere?»

«Sì, è un’ipotesi che non mi sento di escludere». Si alzò, aveva detto tutto quello che c’era da dire, ora poteva andarsene.

«Posso darti un bacio?»

«Certo». Si sfiorarono le labbra. Max Gilardi le accarezzò i capelli. «Sarai sempre la mia migliore amica?»

«Tu… tu sarai sempre l’amico migliore che io abbia avuto. Ciao». Le tremava la voce.

Sulla porta Max si fermò. «A proposito, è stata Rosina a dirlo a Ciccio. Cercherò di capire perché».

«Perché è scema, quella lì». La voce si incrinò. Ora avrebbe pianto. Max richiuse la porta alle sue spalle.

Non aveva calcolato di poterne soffrire. Strinse i denti. Ora sapeva che non avrebbe mai potuto tornare indietro; per il bene che lei gli aveva dato doveva lasciarla andare.

 

Proprio in quei giorni Max Gilardi aveva comunicato a Giacomo che Notarnicola padre aveva chiesto la riapertura del caso che riguardava la morte di Alessandro.

«Te ne occupi tu? Ti stai pigliando una bella grana».

«Lo so… L’istanza è già stata presentata e mi hanno comunicato che è stata affidata al dottor Morandini, lo conosci?»

«Sì, molto puntiglioso, non te ne farà passare liscia una. Ma molto preparato. Sono sicuro che ti piacerà».

«Piacergli è l’ultimo pensiero della mia vita. Il primo è mettere le mani su qualcosa di preciso che mi aiuti. Qui c’è una gran confusione. Avrò bisogno ancora di te».

«Sai che ci sono. Come vuoi muoverti?»

«Vorrei dare un’occhiata alla camera di Alessandro, a casa sua».

«L’hanno già rigirata sotto e sopra…»

«Lo so, ma voglio tornarci con te. Non sapevano che cosa cercare…»

«E tu sì?»

Max si grattò la fronte, in quel gesto che gli era abituale. «Io credo di sì».

«Lo spero, accidenti. Comunque, prima, voglio fare due chiacchiere con te».

«Sono pronto».

«Alle Tre Palle, a Ripetta: te lo ricordi?»

«Certo che me lo ricordo». Era una gelateria che frequentavano da ragazzi, e che avevano soprannominato in quel modo perché il gelato doveva sempre essere di tre gusti.

«Facciamo alle sei, oggi».

«Alle sei oggi. D’accordo».

Max Gilardi fu puntuale. Della vecchia gelateria non era rimasto quasi niente. Allora il gelato era artigianale, sempre tre gusti, tre palline che stavano in equilibrio e sgocciolavano dal cono croccante. Tavolini e sedie di ferro, dove nessuno si sedeva mai, perché i clienti erano soprattutto i ragazzi della scuola vicina: con il gelato tra la mano e la bocca andavano a leccarselo sul muretto del ponte della ferrovia. A vent’anni di distanza era diventato un locale con qualche pretesa di eleganza, frequentato soprattutto da donne: tavolini con tovaglietta, tende alle finestre, cuscini sulle sedie impagliate e coppette di vetro.

Scelse un tavolino vicino alla vetrata per guardare fuori quel vicolo in salita verso la collina, soffocato dalle case, dalle bancarelle fuori dai negozi, dai panni stesi alle finestre, dai ragazzi che andavano avanti e indietro con il pattino sulle strisce di cemento umido. Ciascuno urlando per sé.

Il ponte era stato demolito perché in quel punto non passava più la ferrovia. Ora c’era un giardinetto con due oleandri e due panchine. A occhi chiusi, all’improvviso, si ricordò della ragazza alla quale una volta aveva offerto un gelato: quarta ginnasio, bruna con gli occhi neri. Si chiamava Ester ed era ebrea.

Giacomo, arrivando, gli mise una mano sulla spalla. «Dormivi?»

Max sorrise. «Sognavo. Vuoi il gelato?»

«Una birra. E tu?»

«Le tre palle: cioccolato, crema e limone».

Quando il cameriere finì di servirli, Giacomo appoggiò i gomiti sul tavolino e fece la faccia scura dei momenti importanti. Cominciò a raccontare storie di ‘ndrangheta, camorra e mafia, intrecciate con persone e personaggi che Max non conosceva.

Lo lasciò parlare senza interromperlo, ma senza ascoltarlo con l’attenzione che l’altro avrebbe preteso. Giacomo gli parlò dei Notarnicola, che venivano dalla Puglia; il cavaliere era nipote di un pescatore che fabbricava barconi e li aggiustava. Arrivato a Napoli con la giovane moglie Benedetta, si era comperato Villa Sant’Agata, una reggia, aveva aperto un cantiere e le barche erano diventate navi.

«Come te lo spieghi? Dove ha preso tutti quei soldi, me lo sai dire?»

Max Gilardi, prima di rispondere, leccò il cucchiaino. «No, non lo so. Forse la moglie era ricca…»

Giacomo riattaccò, questa volta con Marietto, il marinaio di Alessandro: che non era di Napoli ma veniva dalla campagna di Atrani. «Che cosa ne sapeva di barche, là si coltivano limoni… invece quando Alessandro alla laurea aprì il suo cantiere, il Jolly X, sulla costa verso Positano, Marietto diventò un esperto. E questo Semini il braccio forte. Capisci che ci sono molte cose che non vanno d’accordo?»

«Ho l’impressione che qui da noi ogni cosa che non ha una spiegazione logica diventi camorra. Hai provato a pensare che forse ci possono essere altre ragioni?»

«Quando circolano troppi soldi e troppo in fretta a che vuoi pensare, al culo?»

Max Gilardi sorrise scuotendo la testa. «Perché no? Magari è intelligente e anche fortunato. Invece… che cosa fa il figlio di Marietto?»

«Ah, bravo. Stavo per arrivarci. Nano… Silvano, sì. È un ragazzo in gamba, sulla trentina, forse trentadue. È capo del movimento merci di un’azienda al porto. So che lo tengono d’occhio perché i carabinieri hanno il sospetto che ci sia puzza di importazione clandestina, forse droga. Ma sono sempre arrivati fuori tempo. Osso duro. A differenza del fratello di Rosina Santacroce, Francesco. Uno gnoccolone che lavora con il padre… Ora li hanno assunti tutte e due al cantiere di Alessandro, falegnameria. Il ragazzo è viscido, drogato, inconcludente. Rosina è la capofamiglia, quella energica che tiene a bada tutti quanti».

«Già, lo immaginavo».

«Perché?»

«A naso. Ma la mia impressione non conta niente».

«Comunque non ti dimenticare quello che ti ho detto, bada. Lo so che non ci credi, ma non ci scherzare».

«No, ci rifletterò. Anche se sono convinto che questa sia una storia diversa».

«Datti pace, Max: questa è storia vera. Ci sono di mezzo loro, altrimenti il cavaliere del lavoro Domenico Notarnicola, l’armatore come lo chiamano ora, il comandante: perché avrebbe fatto chiudere l’inchiesta in fretta e furia? Glielo hanno imposto, ricattandolo. Per non perdere tutto, la figlia…»

«Magari hai ragione, ma voglio rifletterci».

«Come vuoi. Ti ho detto tutto, dovevi conoscere tutta la storia per lavorarci meglio. Ora devi ragionarci tu. Allora, domani dai Notarnicola?»

«No, scusa, aspetta… Vorrei lasciar passare ancora qualche giorno, vorrei parlargliene, tanto lì non scappa niente». Non poteva dirgli che sarebbe stato troppo presto, dopo il loro incontro nello studio di Elena. Che aveva bisogno di tempo per riuscire a rivederla e a parlarle. «Te lo dico io».

«Va bene, dimmelo tu. Tieni a quella ragazza, vero?» Max non rispose. «Molti pensavano che te la saresti sposata tu».

«Scemenze di Ciccio Caremi, la ragazza potrebbe essere mia figlia».

«Ma ci uscivi».

«E allora? È intelligente, simpatica. Una cliente. Soprattutto un’amica».

«Tienila d’occhio, Max. Secondo me anche lei è nella lista».

«E allora tienila d’occhio tu, chi meglio di te?» Si alzò, battendogli una mano sulla spalla. «Vieni a cena da noi? Papà avrebbe piacere di salutarti».

 

Il mattino seguente, in studio, a Laura che gli chiedeva se Giacomo gli avesse dato notizie utili alla causa, Max disse appena: «Fesserie di camorra. Qui hanno un solo pensiero in testa, quello».