Quarantatré

Furono necessari all’incirca sei mesi, coinvolte quattro procure, per istruire il maxiprocesso contro l’onorevole Cosimo Spada e un’altra decina di coimputati. L’imputazione, come declamava il PM nelle aule del tribunale, era lunga e complessa quanto la Sacra Scrittura.

Nei fatti, Cosimo Spada e i suoi soci dovevano rispondere di reati di tipo mafioso, appropriazioni indebite, corruzione, collusione tra mafia e politica, esportazione di capitali, abusi edilizi, conferimento sospetto di appalti miliardari in opere pubbliche.

Il giudice Malaspina, che da Palermo si era trasferito a Napoli, per oltre sei mesi aveva lavorato attivamente attingendo alle operazioni di polizia, estese da Napoli alla Puglia e alla Calabria, con qualche riflesso di rilievo anche a Torino, Genova e Milano, assumendo dati, intercettazioni, riscontri. Un evento di eccezionale portata che documentava la straordinaria efficienza dell’antimafia e del governo, coinvolgendo nomi eccellenti e istituzioni non soltanto locali.

Sei mesi. Di operazioni a volte clamorose, a volte soltanto puntigliose da parte della procura. Quelli che venivano incriminati – diceva il procuratore – spesso parlavano. Si liberavano dalla paura.

Durante quei sei mesi tutta la stampa, le emittenti radio e televisive, nazionali e internazionali, si occuparono di Cosimo Spada e dei suoi affari, pubblicando le rare notizie che emergevano soprattutto dalle confessioni dei pentiti. In quella ‘mondezza’, come si esprimeva calorosamente Giacomo Cataldo, ci sarebbero finiti tutti. Anche i Notarnicola, purtroppo: con i due cantieri e la villa.

Il Jolly X di Alessandro Notarnicola fu affidato in gestione a un gruppo inglese che avrebbe continuato a produrre una nuova versione del famoso siluro. Il cantiere grande fu diviso: le navi da crociera a Viareggio, le navi da trasporto ad Ancona. Costanza Prati riuscì invece a salvare Palazzo Sant’Agata per Elena, risultata completamente estranea ai fatti.

 

A questo punto, Max Gilardi capì che doveva cominciare a sistemare anche la propria vita. E che avrebbe dovuto, prima di ogni altra cosa, discuterne con suo padre.

Lo raggiunse in quello che definivano tinello, una stanza non troppo grande, con un tavolo quadrato e quattro sedie in un angolo; sul lato opposto una poltrona e di fronte l’apparecchio televisivo, acceso tutto il giorno, dalla mattina alla sera. Anche se suo padre lo guardava poco: su quella poltrona per buona parte del giorno sonnecchiava.

L’architetto De Angelis senior gli aveva trovato un appartamento al quarto piano in uno dei nuovi grattacieli di Napoli: due camere da letto, bagno, cucina, un ampio soggiorno, uno studio, oltre alla camera di servizio.

Nello stesso grattacielo, al secondo piano, c’era lo studio. Come aveva chiesto.

«Possiamo parlare, pa’?»

«È successo qualcosa?»

«No, volevo dirti…» E glielo disse, cercando le parole.

«Perché te ne vuoi andare un’altra volta? Qui che cosa ti manca, figlio mio?»

«Niente, pa’. Ma ho bisogno della mia libertà, prova a capirmi».

«E qui chi te la toglie? Hai un’uscita sul giardino, dalla tua camera… se è questa la libertà che vuoi».

«No, pa’, non è questo. Sarebbe poca cosa, l’avrei già risolto se fosse questo soltanto. Io ho trovato un appartamento con lo studio due piani sotto, dalle parti del Tribunale. Voglio andare a stare lì, anche per il mio lavoro. E voglio avere una casa mia…»

«Hai trovato ’na donna che viene a vivere con te?» Gli si illuminò il vecchio viso che le rughe ormai rendevano irriconoscibile. «Ce l’hai?»

Max Gilardi scosse la testa. «No, sono solo. Ma preferisco così. Però verrò a trovarti, staremo insieme qualche volta. Verrò a parlare con te del mio lavoro». Sapeva che l’avrebbe fatto raramente. Ma che doveva prometterglielo.

Suo padre lo guardò con uno sguardo attento, come se volesse riconoscerlo. Ci pensò, prima di dirgli: «Ora che stiamo parlando, non capita spesso…» Non si lasciò interrompere. «Io ti capisco, noi due non abbiamo mai avuto molta confidenza, come ne avevi da bambino con tua madre… lo so».

«Siamo adulti, ora».

«Certo, sì, adulti. Io vecchio, questo sono. E penso, rimugino pensieri nella mia testa, tutto il giorno… qua a non fare niente. E allora ti chiedo: ma tu, che lavoro fai?»

«L’avvocato». Si spaventò, come se improvvisamente stesse rendendosi conto che suo padre era malato di quella malattia che distrugge il cervello. «Avvocato» ripeté.

«Questo lo so. Certo che lo so. Ma è quello che vuoi fare davvero?»

«Sono tornato a Napoli…»

«Questo me lo hai detto. Ma io mi credevo che tu volessi seguire la mia strada, io sono stato giudice, il mio nome…»

«Conosco la storia, pa’. Sei stato una gloria per il tribunale di Napoli. Me lo ricordano tutti quelli che incontro. Ma io sono avvocato».

«Tu ti ricordi che mentre aspettavi di fare gli esami di Stato, hai fatto anche il concorso per la magistratura: te lo ricordi?»

«Certo che me lo ricordo, prima di partire per New York. Per fare contento te, ci tenevi».

«Già. Poi ti sei fatto gli esami di Stato per fare contento nonno Rodolfo, l’avvocato. Poi la polizia… ne hai fatte di stramberie, figlio mio».

«Ho passato la vita a fare esami per accontentarvi tutti. Poi, sì: ho fatto quello che ho voluto. Ora sono avvocato, perché lo voglio io».

«Non potrai sceglierti i clienti, ci hai pensato? Dovrai difendere anche dei farabutti. Assassini, speculatori, politici corrotti… è questo che vuoi? Questi saranno i tuoi clienti».

«Lo so… non sempre, spero. Nonno Rodolfo mi ha insegnato una cosa che non ho mai dimenticato: l’avvocato difende la gente, il magistrato la giustizia. Due facce della stessa medaglia, o no?»

«Fesserie di tuo nonno. Lui amava le belle frasi. Io leggo i giornali, mi informo… che cosa te n’è venuto, fin qui?»

«È importante? Ho partecipato a due processi, uno ancora in corso…»

«Nell’altro ti sei ritirato: vedi che anche se non parlo ti seguo… e mi dispiace. Ma tu farai quello che vuoi, come hai sempre fatto. Ora sei un uomo. Fai come vuoi, capisco anche la casa… Sì, ti capisco, scegliti la casa che vuoi, se puoi comprala, benedetti i soldi mattoni, diceva la tua povera mamma. Soldi mattoni: comprala. E sì, ogni tanto verrai a trovarmi. E io ti aspetterò. Non ti chiedo di dirmi se sono stato un buon padre, non me lo diresti. Io so di averti amato, di amarti anche ora, di essere orgoglioso che tu sia mio figlio… E so che vorrei vederti felice, vorrei vederti come quel giorno, quando sei arrivato qui e mi hai detto: lei sarà mia moglie. Ti brillavano gli occhi, figlio mio. Ora i tuoi occhi sono sempre tristi. Lo so che io non c’entro, ma tu pensaci, Massimo. Tu pensaci».

Perché stava commovendosi? Si chinò verso suo padre per abbracciarlo. «Scusami…» mormorò. Non poteva chiedergli di perdonarlo se non riusciva ad amarlo come forse avrebbe voluto, come forse avrebbe meritato. «Scusami, pa’… anch’io ti voglio bene, scusami». Suo padre stava piangendo e lo trovò insopportabile. «Ma allora, che festa è?» disse cercando di ridere. «Avanti, sto per diventare padrone di casa, che festa è? Liciuzza, portaci il caffè, avanti. Presto, su!»

Una soffiata di naso, un colpo di tosse. Due caffè bollenti. Non ne avrebbero mai più riparlato, mai avrebbero ritrovato l’emozione di riconoscersi.

Per suo padre trovarono una donna di mezza età, che sostituisse Liciuzza, che invece dichiarò ostinata di voler andare con lui nella nuova casa.

«Perché?» gli aveva chiesto il vecchio Gilardi.

«Perché il signor avvocato…» e non c’era dubbio che ora si riferisse a Max, «ha bisogno di me. E poi la casa è al centro di Napoli».

«E di questo hai bisogno tu… Va bene, un pezzo di casa nostra che lo segue, Madonna benedetta. Già me lo vedo perso, quel ragazzo. Perso…»

Si trasferì con poche cose, non volle quasi niente di quello che era in casa. Svuotò esclusivamente la propria stanza e la libreria; Liciuzza pensò a piatti, posate e bicchieri ‘che tanto l’avvocato non usa’. E rifornì la nuova casa anche di lenzuola e di tovaglie di famiglia. Suo padre, nel bagaglio, aggiunse due quadri. «Questi sono buoni» gli raccomandò.

Non si era ancora abituato al cambiamento. L’architetto De Angelis, in amicizia, era anche intervenuto nell’arredamento. Quando si stendeva sul divano beige con cuscini scuri e chiari, davanti al megaschermo della televisione, si sforzava di non rimpiangere il sofà marrone a mazzi di fiori colorati di suo padre. Si era adattato alle molle un po’ sconnesse di quel vecchio mobile di casa assai più di quanto gli riuscisse di adattarsi ora ai mobili laccati di nero, alle sedie e al tavolo a tulipano di Saarinen, alla lampada ad arco e alla poltrona avvolgente di Colombo. Di quello che suo padre aveva insistito per dargli, avevano salvato soltanto uno scrittoio per il suo studio. L’appartamento gli piaceva. Soprattutto il terrazzino verso il mare, dove Liciuzza aveva sistemato un tavolo con due sedie e qualche vaso fiorito: per non fargli rimpiangere il giardino della sua vecchia casa. In quel terrazzino Max Gilardi avrebbe consumato i suoi pasti, quando il tempo e le stagioni glielo avrebbero consentito. Con quel mare che si intuiva oltre i palazzi non sarebbe mai stato completamente solo.

I due quadri che gli aveva regalato suo padre formavano l’unico ornamento delle pareti bianche, trattate a cera, del soggiorno. Laura aveva collaborato, invece, ordinando i duemila volumi nella sua nuova libreria.

Quando si rese finalmente conto che quella casa sarebbe stata sua per sempre, il suo primo pensiero fu per Elena: chissà se le sarebbe piaciuta. Il gatto di Matisse che lei gli aveva regalato lo aveva appeso nel suo bagno, accanto allo specchio. Era lì. Nero, stilizzato, quasi un gioco del pennello. Come era stata la loro relazione.

Quasi un gioco: al quale ora non doveva più pensare.

Anche il nuovo studio lo imbarazzava, malgrado avesse ottenuto di arredarlo con le vecchie scrivanie e i mobili con cui aveva ‘ringiovanito’ lo studio di suo padre. Erano anche cresciuti di numero: oltre a Ricky, Laura e a Francesca, che faceva da segretaria a tutti, avevano dovuto assumere Angelica, una archivista di oltre trent’anni, molto efficiente.

Gli sembrava di essere tornato ai tempi di Trissera, a quel corridoio dove passavano in tanti e tutti proteggevano l’uscio del suo studio, in fondo. Quelle nuove dimensioni lo preoccupavano.

Il primo a bussare alla porta dello studio fu Ciccio Caremi. Si presentò alcuni giorni dopo il trasloco con bottiglia di champagne e braccia aperte.

«Allora, vecchio… complimenti, che meraviglia. Beviamo, avanti, li avete i bicchieri? Un abbraccio, Max. Sono contento davvero».

«Grazie. C’è ancora un po’ di disordine…»

«Il posto è bellissimo, bravo. E ora al lavoro, perché dovrai mantenerla questa baracca».

Appunto.