Ventitré
La donna era piccola di statura, formosetta, avrebbe detto Elena, che preferiva le donne magre. Un sorriso paziente che le rischiarava un viso non più giovane ma ancora piacevole.
«Voleva parlare con me?»
«Sì, signora, se posso disturbarla un momento. Sono l’avvocato Massimo Gilardi, mi sto interessando…»
«Sì, lo so. Leggo i giornali». Corrugò la fronte e scosse appena il capo. «Non so che cosa potrei dirle che già lei non sappia, ma se vuole… lo sento anche come un dovere. Ora io ho due ore di lezione, posso chiederle la cortesia di vederci a casa mia, e non qui a scuola? Guardi, questo è il mio indirizzo; all’una e mezza, le dispiace? Non si aspetti un pranzo, ma qualcosa potremo mangiare insieme… forse lei ha altri impegni, mi scusi». Guardò l’orologio che aveva al polso destro. «Mi scusi, le sembra…»
«Sì, perfetto. L’aspetto a questo indirizzo all’una e mezza, d’accordo. La ringrazio molto davvero. Credo di aver bisogno di lei».
«Lo spero, avvocato. Lo spero».
Ora era pentito di aver accettato. Non era un invito a pranzo di cui sentiva il bisogno. Di questa professoressa, oltre al fatto che si chiamava Tindara D’Antoni e che insegnava latino e greco al liceo Dante Alighieri, non sapeva assolutamente niente oltre quello che gli aveva detto Roberto.
Stava passeggiando sul marciapiede di fronte al numero otto di quella via della vecchia Napoli. Una casa a sei piani con i balconi tutti in fila, uno sull’altro, le stesse tende del medesimo colore, gli stessi fiori. Il portone chiuso, per la pausa pranzo degli eventuali portieri.
Dalla curva vide sbucare l’utilitaria verde, e intuì che doveva essere lei. L’auto si fermò al parcheggio autorizzato, vide spegnere le luci e aprire la portiera. Le andò incontro.
«Mi dispiace, io non volevo…»
«Su, avvocato. Stiamo parlando di una cosa molto seria, venga». Aprì il portone, entrò nell’atrio e con passo sicuro si diresse verso l’ascensore. «Io sto al quarto» disse, perché Gilardi premesse il pulsante del piano: lei aveva le mani occupate da cartellette, fogli e un registro.
In casa si mosse come se fosse stata sola. «Lei si metta dove vuole, avvocato: faccio in un momento».
Ritornò infatti dopo qualche minuto. Si era cambiata la camicetta, ora indossava una casacca di seta a fiori viola.
«Ci siamo» disse. E sorrise.
Gilardi la seguì in cucina, sul tavolo era apparecchiato un posto solo. Tindara D’Antoni aprì il forno a microonde. «Siamo fortunati, oggi la donna mi ha preparato zucchine farcite con salmone… va bene anche per lei?»
«Sì, grazie». Lo disse con il tono di chi è costretto a fare qualcosa controvoglia. Le sorrise, per riprendersi.
Tindara D’Antoni accese il forno, poi aprì il frigorifero: velocemente e con molta disinvoltura prese una bottiglia di vino bianco e due bicchieri. «Anche per lei?»
«Grazie, sì».
«Il freddo non molla, ma queste bollicine ci stanno proprio bene. Si sieda, è subito pronto».
Mentre parlava, stava apparecchiando il posto per Max Gilardi all’altro capo del tavolo.
«Ecco, c’è tutto. Ora possiamo metterci a tavola, venga».
Le zucchine farcite con il salmone erano appetitose. Mentre mangiavano, Tindara D’Antoni gli raccontò che soltanto suo padre era siciliano, e le aveva messo quel nome perché lui era nato a Tindari.
«Usa così laggiù. Se è maschio lo chiamano Tindari, se è femmina Tindara. È toccato a me».
«Un bel nome, strano…»
«Sì, ma ci si abitua anche a doverlo spiegare ogni volta».
Dopo le zucchine era arrivata in tavola un’insalata verde con mozzarelline e pomodori; poi un cesto di frutta, che Gilardi rifiutò.
«Lei è nata a Napoli?»
«Sì, mio padre è stato trasferito più o meno quando stavo per nascere. Era professore pure lui, al Manzoni».
Max Gilardi scosse la testa. «Non mi ricordo di un professor D’Antoni, io ho studiato al liceo Manzoni».
Tindara D’Antoni sorrise. «Mio padre era il professor Matteo Sansi».
«Ah, capisco… mi aveva confuso il cognome. Non è stato mio professore, era nella sezione B. Me lo ricordo bene».
Lo ricordava, infatti. Piccolo, anziano, pelato, con i capelli soltanto alla nuca e lunghi oltre il colletto della camicia. Severo, dicevano i suoi alunni. Meticoloso.
«Credo che se lo ricordino tutti: i suoi allievi, soprattutto. Era molto severo».
«Sì, lo dicevano. Matteo Sansi, siciliano, sì».
«D’Antoni è il cognome di mio marito… Vedova» aggiunse in fretta. «Mi hanno mandato a studiare dalle suore, al Sacro Cuore… forse con l’intenzione di salvarmi l’anima. Invece mi sono innamorata del mio professore di filosofia, che aveva il doppio della mia età». Sorrise, sistemando le due posate sul piatto. «Appena terminato il liceo ci siamo sposati, allora usava così. Ho fatto in tempo a frequentare l’università, a laurearmi… per fortuna senza figli. E Giovanni è morto d’infarto. Io cominciavo a insegnare e ho mantenuto il cognome».
«Era molto più vecchio di lei».
«Sì, aveva quasi vent’anni più di me. Ma tra professori e allieve l’incontro è spesso fatale».
«Davvero? Io non me ne sono mai accorto… ma forse avevo professoresse poco allettanti da quel lato».
Tindara D’Antoni scosse il capo. «No, succede tra ragazze e professori, difficilmente la cosa funziona con i maschi. A meno che non si tratti di uno schianto!» Rise, premendosi il tovagliolo sulle labbra. «Di solito una supplente, noi siamo fuori corso».
«Da voi ci sono professori acchiappafemmine?»
«Perché no? Qualcuno c’è. Uno come il professore di matematica, per esempio…»
«Milasi? L’ho conosciuto».
«Non sarebbe male, ma è troppo rigido. Uno che non parla mai. Come conquistatore mi sembra poco portato. Inoltre è talmente severo che incute timore, non amorosi sensi…» Rise della propria battuta e fece di no con la testa.
«Come mai, secondo lei, da Trieste l’hanno mandato a Napoli? Si può fare?»
«Sì, certo. L’hanno fatto. È un ottimo professore, niente da dire. Ha tre classi disciplinatissime e con buon rendimento generale. Forse l’ha richiesto lui, e le ragioni possono essere tante. Scolastiche o familiari. Mi sembra di sapere che abbia una moglie, a Trieste. Insegnante pure lei. Ma di lui si sa poco, non chiacchiera molto e mai di sé, questo è certo».
«Sì, è sembrato di poche parole anche a me. Molto legato ai suoi ragazzi, preoccupato per questa storia…»
«E chi non lo è, avvocato? Si finisce per sentirsi tutti colpevoli, in qualche misura. Dove non ho capito? Dove ho sbagliato? Perché non mi sono accorta di niente? Io ho molte più ore con questi ragazzi. Li conosco tutti e so le storie di quasi tutti… si parla, in classe, si discute. Come ho fatto a non capire che questo ragazzo era così infelice da desiderare di morire a diciotto anni? Come ho fatto, dica lei».
«Capisco che possa servire a poco, ma Carlo Spada non si è suicidato».
«Ma come, i giornali…»
«In quel posto ci è arrivato già morto. È stato ammazzato. Almeno da una settimana ne parlano tutti i giornali» aggiunse con un sorriso che voleva rassicurarla.
«Ma guardi… non ho tempo, non sento neppure la radio. Mi immagino che una notizia così avrei dovuto saperla. E si sa da chi? Le questioni del padre?»
«Non lo so, stanno indagando. Di certo ora sappiamo che è stato ucciso prima di arrivare alla Gabbianella, su quel binario».
«Ma ucciso da chi? Un ragazzo… era ricco, aveva tutto. Un po’ strafottentello, l’età, i soldi…»
«La ragazza. Lei sapeva che amoreggiava con Gioia Bruni?»
«Sì e no… cose da ragazzi, sa come succede. Lei era la più carina della classe, lui il meglio pomo del cesto… Non ne so molto di più, mi creda. L’ho sempre considerata una cosa da ragazzi».
«Speriamo».
«No, la ragazza no. Di questo posso dire di essere sicura».
«Infatti. Nessun sospetto su di lei».
«Ci mancherebbe… non va molto bene, ha via la testa. Ma è una ragazza carina, gentile… disegna bene, pensi un po’. Se quest’anno non passa si iscriverà a una scuola di disegno, è molto brava. No, su di lei mi sentirei di metterci la mano sul fuoco».
«Non se la brucerebbe, questo almeno posso dirglielo».
«Certo che a ripensarci con quello che mi ha detto ora, la dinamica di questo omicidio mi lascia molto perplessa. Ma per fare una cosa simile, uno che testa deve avere?»
«Qualcuno che ha voluto complicare le cose e crearsi un alibi difficile da smontare».
«Intelligente, accipicchia. E poi, perché alla Gabbianella? Non poteva lasciarlo dov’era? O l’ha ammazzato alla Gabbianella?»
«Questo non lo sappiamo. Lei gli ha mai sentito dire che voleva morire alla Gabbianella?»
Tindara D’Antoni scosse leggermente il capo, aggrottando la fronte. «Scemenze, avvocato. Non starete a sentire queste scemenze. Lo dicevano quando c’è stata la disgrazia… ora non so più come chiamarla. Allora hanno detto che lui voleva morire alla Gabbianella, l’aveva scritto… qualcuno dei ragazzi l’aveva sentito dire dalla Bruni. A me era sembrata una cosa inventata per giustificare questa morte strana in un posto strano davvero. Capisco il treno, il bisogno di farlo passare per un suicidio. Ma comunque mi sembra l’azione di un pazzo. Certo non di un esperto in omicidi. O sì?»
«È quello che ci confonde, infatti».
«E c’era bisogno di portarlo fino alla Gabbianella? Tutto quel viaggio…»
«Noi abbiamo rifatto il tragitto, da Corso San Gregorio, girando dietro la Chiesa del Carmine, si sale verso Barchetta e in venti minuti sei alla Gabbianella, dove passa il treno. Quindi non un gran tragitto, con il tentativo quasi riuscito di farlo passare per un suicidio. Poco esperto, evidentemente».
«Un delinquente poco esperto… Un dilettante, forse. E credo che per voi sia più difficile».
«Sì, ha ragione. Quando ero commissario…» Assentì con il capo per rispondere a un’occhiata interrogativa di Tindara D’Antoni, «lo dicevo sempre, i dilettanti sono i peggiori. Fanno talmente tanti errori da confondere e farti perdere la testa».
«Anche in questo caso?»
«Spero di no. Ma non è un caso semplice, gliel’assicuro». Appoggiò il tovagliolo sul tavolo e scosse la testa. «Quando mai ci sono casi semplici?»
«Caffè?»
«Sì, grazie».
La professoressa D’Antoni versò il caffè nelle tazzine, spinse quella di Max Gilardi verso di lui e rimase a guardarlo, sorridendo.
«Che cosa ho fatto?» le domandò.
La professoressa D’Antoni scosse la testa, appena un cenno del capo, ancora con quel sorriso divertito sulle labbra. «Sto pensando a che cosa succederà domani in classe quando dirò che oggi ho pranzato con l’avvocato Massimo Gilardi» disse.
«Mi conoscono?»
«Lei è famoso, avvocato…»
«Non ho ucciso nessuno!» rispose scherzando.
«Lei non legge i giornaletti… che chissà perché definiscono femminili. Secondo me li leggono anche i ragazzi, ci sono sempre belle donne seminude e uomini famosi. Lei c’è spesso per i suoi processi, soprattutto perché non risponde mai alle domande dei reporter… Lei è stato l’avvocato di Bernardini, l’ha tirato fuori dai guai…»
«Devono convincersi che Bernardini non aveva guai, era soltanto l’ultimo che l’aveva visto vivo quella notte. Appurata questa circostanza, non c’era niente altro da dire».
«Questo lo dice lei, ma per le ragazze lei è un eroe. La mettono alla pari con Richard Gere… le sembra poco?»
«Non George Clooney?» domandò con lo stesso tono, ricordando le battute di Elena.
«No, troppo poca classe… Richard Gere è meglio. Capelli grigi…»
«Io non ho i capelli grigi».
«Be’, qualche filo grigio… non sia permaloso. Serio, poche parole, libero… suona il pianoforte, lei?»
Max Gilardi scosse la testa. «La chitarra: troppo volgare?»
«No, benissimo. Domani lo dirò: penso che il numero delle chitarriste aumenterà, a Napoli».
«Ma davvero sono così sciocche?»
«Non sono affatto sciocche. Non avendo modelli positivi attorno, in famiglia, tra gli amici, si creano ideali. Sanno che è un gioco, ma le aiuta a sperimentare sentimenti, pensieri, sensazioni. Lei è un modello positivo, avvocato: serio, frequenta donne belle e importanti, difensore dei deboli… le manca l’aureola».
«Interessante, non conoscevo questo lato del problema…»
«Stupisce che un uomo come lei sia scapolo: come mai?»
«Sì, forse a quasi cinquant’anni…»
«Lei ha quasi cinquant’anni? Gliene davo di meno. Non lo dirò alle ragazze».
«Grazie. Tengo al mio fascino…» Max Gilardi scostò leggermente la sedia per alzarsi. «La ringrazio».
«Spero che le mie chiacchiere a qualcosa le siano servite».
«Molto, sì. È stato davvero interessante parlare con lei. Io non sapevo niente delle ragazze di quell’età. Non le conosco».
Si strinsero la mano sul ballatoio. Tindara D’Antoni aspettò che Max Gilardi le voltasse le spalle, e chiuse la porta.
Quando arrivò in studio chiamò Ricky.
«Novità, avvocato?»
«Lo chiedo a te. Si sa che cosa diavolo fanno questi ragazzi usciti da scuola? Chi va a ripetizione e da chi? Che cosa fanno del loro tempo, dove vanno, chi vedono? Si può sapere qualcosa?»
«Lei pensa a un compagno di scuola?»
«Ricky, una volta per tutte: io non penso. Io voglio sapere chi ha ammazzato quel ragazzo. Quindi va’, fammi ’sto piacere». Gli mise una mano sulla spalla. «Scusa, ho i nervi a pezzi. Non ne esco, e questo mi rende nevrastenico; ma ti assicuro che apprezzo le vostre opinioni. E mi aiuta molto discutere con voi… Scusami, va’».
«Ma le pare avvocato, ce l’ha detto lei che ha un cattivo carattere…!» E ci fece una risata per fargli capire che invece era contento di lavorare con lui.