Sedici
Il campanile della cattedrale scoccò nove rintocchi lunghi e un rintocco breve. Max Gilardi controllò l’orologio, era puntuale. Vestito come Elena gli aveva suggerito, salì lo scalone di marmo di Palazzo Sant’Agata, la dimora dell’armatore Domenico Notarnicola. Aveva in mano una gardenia con il gambo rivestito di carta argentata.
Un cameriere, in giacca bianca e galloni d’oro, lo stava aspettando in cima allo scalone di marmo.
«Buonasera, signor avvocato. Accomodatevi». Si fece di lato per farlo passare e lo introdusse nel salone, dove erano già raccolte alcune persone. Dall’atteggiamento sembrava che fossero arrivate da tempo: alcuni con un bicchiere in mano, altri avevano occupato le poltrone lungo le pareti.
Elena aveva detto alle nove e mezzo, non era in ritardo.
Impacciato, la cercò con gli occhi. Gli venne incontro invece un uomo alto e snello, capelli e barba bianchi, impeccabilmente vestito di nero, che gli tese entrambe le mani.
«Avvocato Gilardi, sono contento di conoscerla. E la ringrazio per aver accettato il mio invito. So che lei conosce mia figlia, e anche mia nipote e suo marito. Compagni di università, vero?»
Max era riuscito a dire soltanto un buonasera sottovoce. Quell’uomo bello dall’atteggiamento perfetto lo intimidiva. Gli ricordò il Gattopardo, non tanto nelle descrizioni di Tomasi di Lampedusa quanto nell’interpretazione di Burt Lancaster. Anche quei saloni, tra stucchi dorati e specchi e lampade di cristallo, tende e tendoni, broccati e quadri di paesaggi sfocati, gli riproposero le immagini di Donnafugata.
Continuò a sorridergli.
«Venga, avvocato. Le presento qualche amico».
Per fortuna a quel punto li raggiunse Elena. «Faccio io, papà. Tu occupati degli altri ospiti».
Max le porse la gardenia. «Prima che tu mi chieda di mettermela all’occhiello come nei matrimoni».
«È per me?» civettò. Appuntò la gardenia alla bretellina del suo abito da sera. «Grazie, adoro le gardenie».
«Io invece non amo le feste».
«Sei l’uomo del giorno, sii indulgente. Vieni, muoiono tutti dalla voglia di conoscerti».
«C’è un’uscita di sicurezza?»
«E tu provaci!»
Max salutò Margherita, in un abito di chiffon a rose scure che a lui sembrò spaventoso. Si lasciò abbracciare da Ciccio, distribuì sorrisi e strette di mano. Elena si allontanava per lasciarlo agli ospiti, lo seguiva con gli occhi svolgendo le sue mansioni di perfetta padrona di casa, poi lo raggiungeva per salvarlo quando le sembrava che fosse in difficoltà.
Un cameriere lo seguiva come un segugio con un vassoio di tartine, e un altro gli riempiva in continuazione il bicchiere di champagne.
«Sopportabile?»
«Sopportabile».
Elena indossava un miniabito di crespo di seta bluette, con due spalline sottilissime: al collo una collana di perle e zaffiri. Era molto elegante. Guardandola, Max si rese conto con un certo divertimento che era la ragazza che veniva a letto con lui. E le sorrise.
«Sopportabile» ripeté.
Tutti gli facevano la stessa domanda con l’aria di meravigliarsi che un napoletano, vissuto al nord per diversi anni, sentisse nostalgia della propria città: ‘perché è tornato a Napoli, avvocato?’
«Nei fatti credo di non averla mai lasciata. Non me ne sono accorto, ma forse me la sono portata appresso dovunque sono stato. Napoli è una strana città… crea dipendenza».
Una signora anziana molto ingioiellata applaudì.
Su quell’applauso il cameriere dalla porta annunciò che era arrivata Costanza Prati. E gli uomini che erano seduti si alzarono tutti insieme.
La signora salutò i presenti con un ampio gesto della mano. Si lasciò abbracciare dal padrone di casa e baciò Elena sulle guance. Scorse Max Gilardi che era casualmente dietro di lei, gli sorrise e gli tese la mano. «Allora, avvocato?»
Non aveva gli occhiali e Max si accorse di quegli strani occhi, che non facevano impressione come aveva detto suo padre. Rimase invece affascinato da quello sguardo indecifrabile. Si chinò appena per baciarle la mano, quando la guardò di nuovo vide che lei stava sorridendo.
«Signora…»
La cena era servita nel salone accanto a quello dove erano stati ricevuti per gli aperitivi. Un lungo tavolo, sotto lampadari di cristallo, apparecchiato con molti piatti freddi e un sontuoso centrotavola di ghiaccio con frutti di mare e ostriche; candele, mazzi di anemoni di un unico color bluette; tavolini e sedie ben distribuiti nella stanza e nel salotto attiguo, al quale si poteva accedere da un’ampia portafinestra aperta. Cameriere e camerieri arrivavano dalle cucine con vassoi e carrelli di pietanze calde.
Max Gilardi scelse un’insalata di pesce con una salsa piccante, una pasta calda con zucchine, pomodori e gamberi, una coppetta di carne cruda condita con olio e alici.
Era rimasto in piedi, accanto a un tavolo vuoto sul quale aveva appoggiato il bicchiere. Si guardava attorno, parlando con chi lo avvicinava, cercando di capire chi fossero quelle persone, la cosiddetta ‘meglio gente’ di Napoli. E ogni volta che si girava da quella parte, incontrava gli occhi di Costanza Prati fissi su di lui, come se lo stessero studiando.
La signora era seduta al tavolo del padrone di casa con altre persone meno giovani, ma sicuramente importanti. Le signore sfoggiavano abiti e mantelle di pelliccia, e molti gioielli. Costanza Prati al contrario indossava un semplice tailleur bianco, e al collo un medaglione di corallo. Non gli sembrò bella, non come la descrivevano. Gli sembrò speciale.
Ciccio gli presentò alcuni colleghi. «Max, tu non conosci…» Oppure: «Max, ti ricordi…»
In attesa che arrivasse la torta, si era seduto al tavolo con un gruppo di vecchi compagni di università. Stava ridendo, finalmente alleggerito dal peso di quella serata che gli era sembrata insopportabile. Elena lo cercò con gli occhi, si diresse verso di lui, si chinò e gli bisbigliò all’orecchio: «Scusa, mio padre vorrebbe parlarti. Ti dispiace andare nel suo studio?» Con il capo gli indicò la porta dello studio, che era rimasta socchiusa.
L’idea che avrebbe trovato imbarazzante – di dover discutere con il vecchio armatore del suo rapporto con Elena – non lo sfiorò. Pensò invece a qualcosa di più serio.
Lo studio era una biblioteca, con scaffali carichi di libri che dal pavimento salivano fino al soffitto. Una scaletta poteva circolare lungo le pareti per consentire di raggiungere gli scaffali più alti. Tra due finestre un tavolo ovale, lungo e lucido. In quel punto, sul muro, un ritratto a carboncino di un giovanotto: immaginò che fosse il figlio. Un bel ragazzo dal viso intelligente; somigliava vagamente al padre.
Il padrone di casa era seduto su una poltrona davanti al tavolo; in una poltroncina un po’ scostata, una donna che nel salone non aveva notato, bruna, alta e formosa, vestita di nero con un grande collo di organza bianca. I capelli, dagli intensi riflessi corvini, erano divisi in due bande che scendevano ad accarezzarle il viso pallidissimo e senza trucco, per risalire a comporsi sulla nuca in un voluminoso chignon.
Immaginò che fosse Rosina, lo ‘schianto di ragazza’ della quale gli aveva parlato Elena.
«Si sieda, avvocato. E scusi se ho interrotto la sua cena. Tra poco arriverà la torta e dovremo tornare di là anche noi. So che Elena le ha raccontato la storia di mio figlio…» Poiché si accorse che Max aveva alzato gli occhi al disegno, annuì. «Sì, quello era mio figlio in un disegno di Carrano, che è stato nostro ospite. Dunque lei conosce quello che è successo. Noi abbiamo accettato la tesi della disgrazia…»
«Premetto che io non l’ho mai accettata». Aveva una voce gutturale, un po’ velata.
«Smettila, Rosina…»
«Sì, papà».
«Lei era la fidanzata di mio figlio, dovevano sposarsi…»
Gilardi le sorrise e lei, abbassando gli occhi, mormorò: «A luglio». Seguì un piccolo singhiozzo educatamente trattenuto.
In quel momento entrò Elena e si sedette sul bracciolo della poltrona del padre.
«Le dicevo, avvocato: abbiamo accettato la tesi della disgrazia, eravamo sfiniti. Mia moglie stava male, è morta sette mesi dopo. So che ha letto i faldoni del processo, si sarà reso conto…»
«Poco, per la verità. Ma abbastanza per capire che l’inchiesta è stata chiusa eccessivamente in fretta».
«Sì, appunto…»
«Troppo in fretta, ma nessuno ha voluto ascoltare il mio parere».
Elena strinse le labbra. «E continuiamo a non volerlo sentire» disse con voce asciutta e irriconoscibile. «Perché non te ne vai di là con gli ospiti a fare la padrona di casa?»
Rosina si alzò di scatto. Non era alta come gli era sembrata, vedendola rannicchiata sulla poltrona; aveva un seno prosperoso ma vita e fianchi stretti. E per quello che si poteva scorgere dall’abito, belle gambe e caviglie sottili. Max Gilardi, con una sola occhiata, aveva capito il colpo di fulmine di Alessandro, che Elena con sarcasmo gli aveva descritto. A vent’anni forse sarebbe capitato anche a lui.
Quando Rosina ebbe richiuso la porta, il vecchio armatore prese la mano della figlia. «Cerca di avere pazienza, cara».
Continuò a parlare con voce pacata, appena incrinata dall’emozione. Gli raccontò in modo chiaro e sintetico tutto quello che sapeva sull’accaduto. Alla fine sembrò stanco; trasse un lungo respiro. «Ora, avvocato, con mia figlia abbiamo deciso di chiedere al magistrato la riapertura del caso».
«Davvero?» e guardò Elena. Era pallidissima, ma gli fece di sì con il capo. «Davvero siete decisi a far riaprire il caso? Ci vogliono buoni motivi e nuove prove. Sono passati quasi cinque anni, molti testimoni saranno irraggiungibili, molte prove svanite. Sarà una cosa difficile e con poche probabilità di arrivare a un risultato diverso».
«Vogliamo provarci, avvocato. Se qualcuno ha ucciso mio figlio, voglio saperlo. E voglio vederlo condannato. Non può restare impunito perché io ho avuto fretta… Lei accetterebbe di occuparsene, avvocato? Mia figlia ha fiducia in lei, e anch’io. Accetterebbe?»
Un cameriere bussò alla porta e avvertì che stava per essere servita la torta. «Sì, veniamo» disse Elena. Poi guardò Max. «Allora, accetteresti?»
«In linea del tutto ipotetica sì, naturalmente. Devo capire…»
«Certo, avvocato. Certo. Ci incontreremo tra qualche giorno, quando sarà disponibile». Si alzarono e il vecchio Notarnicola gli strinse le mani. «Per ora grazie, avvocato. Grazie di non averci detto di no».
Poco oltre la mezzanotte, mentre altri ospiti si stavano avviando all’uscita, Max Gilardi si congedò dal padrone di casa.
«Elena sa come trovarmi, ha il mio telefono. Dovremo riparlarne. Intanto io comincerò a studiare il caso».
«Sì, grazie. Non abbiamo fretta, naturalmente. Sono contento di averla conosciuta, avvocato. Spero che anche per lei sia stata una buona serata».
«Splendida, grazie».
Baciò Elena su una guancia senza imbarazzo. E lei arrossì.
Sull’ultimo gradino dello scalone, Costanza Prati stava salutando alcuni amici. Scorgendolo, si girò completamente verso di lui.
«Ha un mezzo, avvocato?»
«La mia macchina, sì».
«Posso chiederle uno strappo fino a casa? Sono venuta direttamente dal tribunale e ho usato un’auto di servizio».
«Certo. Se mi aspetta…»
«No, vengo con lei. Due passi e un po’ d’aria fresca».
Mentre si avviavano verso il parcheggio delle auto, in fondo al parco, Max le domandò: «Se ne fanno spesso serate come questa a Napoli?» Si riferiva soprattutto a lei che, data la sua posizione, avrebbe dovuto partecipare sempre.
Costanza Prati sorrise. «Proprio così, non direi. Domenico è un vero signore e le sue serate sono speciali. Ne organizza una all’anno, ma nessuno vorrebbe mancare. Lei questa sera ha conosciuto la parte migliore di Napoli. Donne e uomini di cultura, di livello internazionale… La baronessa Anna De Angelis, moglie dell’architetto, è curatrice del patrimonio artistico di Napoli. Suo figlio Luciano, architetto anche lui, ha vissuto e lavorato a New York, l’ha incontrato questa sera: non so se è un pettegolezzo, ma credo che abbia chiesto di fidanzarsi con Elena».
Max Gilardi girò appena il capo verso di lei: perché glielo stava dicendo? Costanza Prati proseguì, con lo stesso tono: «Vincenzino Uttica, sovrintendente alle belle arti. Vico Triccera, del Teatro San Carlo, alcuni professionisti che lavorano in tutto il mondo. Napoli per fortuna è anche questo. Un piacere al quale non rinuncerei».
«Capisco. Una Napoli che non ho conosciuto. Sono partito quasi subito dopo la laurea, non avevo ancora trent’anni».
«Perché? Suo padre aveva un nome, suo nonno… Una carriera già pronta. Perché la polizia?»
«In questo momento faccio fatica a risponderle. Allora tutti quegli avvocati in famiglia mi spaventavano. Non mi piacevano le loro chiacchiere. Il lavoro della polizia mi sembrava più adatto a me, a quello che volevo».
«Ed è stato davvero così?»
«Sì, lo è stato davvero. Ho lavorato bene nella polizia. Un esercizio duro, massacrante, ma un magnifico lavoro di squadra. Si impara a fidarsi degli altri, non è poco».
«E ora, questa decisione?»
«Sono solo. Ed è solo anche mio padre. Forse era giusto tornare a casa». Max Gilardi l’aiutò a sedere e chiuse la portiera. «Ora dovrà dirmi dove abita, signora».
Una risata a labbra strette. «Lei è l’unico in tutta Napoli a non sapere dove abito. Palazzo Scajola, sa dov’è?»
«Sì, conoscevo Nanni».
«Bene. Allora sa anche la storia». Max non rispose. «E lei, accetta di riconsiderare il caso di Alex?»
Max Gilardi si girò a guardarla. «Gliel’ha detto?»
«Sono stata io a suggerirglielo. E a indicare lei. Spero di non essere stata inopportuna, forse avrei dovuto chiederglielo prima. Ma voglio bene a queste persone, mi sono molto care».
Max fermò l’auto, erano arrivati. Si girò completamente verso Costanza Prati «Perché io? Lei non mi conosce». La stessa domanda che aveva rivolto a Franca Chiapponi: ‘perché io?’
«Per tre buone ragioni, avvocato. Perché è stato commissario, e questo è un caso che ha prove difficili e forse pericolose. Perché è una persona perbene e fuori dalla mischia napoletana. Perché io la stimo. Le basta come risposta?»
L’accompagnò fino al cancello. «Sarà un compito piuttosto arduo. Mi aspetto di incontrare molte difficoltà. Da quello che ho letto, li avrò tutti contro».
«Non io, avvocato».
«Grazie». Le baciò la mano e aspettò di vederla scomparire al di là del cancello prima di tornare alla macchina e rimetterla in moto.