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Laura
30 settembre 2015
Stiamo in piedi l’una accanto all’altra di fronte allo specchio macchiato. I nostri riflessi evitano di guardarsi negli occhi. Come me, lei veste di nero, e come nel mio caso è evidente che anche lei ha scelto i propri abiti con cura e attenzione. Nessuna di noi due è sotto processo, non ufficialmente, ma sappiamo entrambe che in situazioni simili è sempre la donna a venire giudicata.
I cubicoli alle nostre spalle sono vuoti, le porte accostate; in tribunale questo è il massimo della privacy. Il banco dei testimoni non è l’unico luogo in cui si debba fare attenzione a ciò che si dice.
Mi schiarisco la voce e il suono rimbalza contro le pareti piastrellate, che replicano in miniatura l’acustica perfetta dell’atrio. Nei corridoi risuona l’eco istituzionale di porte che si aprono e chiudono, e di schedari troppo pesanti che vengono trasportati su carrelli dalle ruote cigolanti. Gli alti soffitti si mangiano le tue parole e te le rimandano indietro in forme diverse.
Il tribunale, con i suoi ampi spazi e le aule sovradimensionate, gioca strani scherzi agli occhi. È deliberato, progettato per ricordarti che sei insignificante a paragone della macchina della giustizia penale, per smorzare il fulgido e pericoloso potere delle parole pronunciate sotto giuramento.
Anche i soldi e il tempo sono distorti. La giustizia inghiotte l’oro: garantire la libertà a un uomo costa decine di migliaia di sterline. Nella galleria destinata al pubblico, Sally Balcombe indossa gioielli che costano quanto un piccolo appartamento londinese. Persino il cuoio della sedia del giudice puzza di denaro. Quasi si riesce a sentirne l’odore da qui.
Ma i bagni, come in qualsiasi altro luogo, sono il grande livellatore: in quello delle donne, lo sciacquone è ancora rotto, il portasapone ancora vuoto e le porte non si chiudono bene. Lo sgocciolio delle cassette difettose dei water rende impossibile parlare in modo discreto; se volessi dire qualcosa, dovrei gridare.
Osservo con attenzione il suo riflesso allo specchio: l’abito sopra al ginocchio le nasconde le curve. Io ho raccolto i capelli, lunghi e lucenti, in una crocchia da maestrina dietro la nuca; i miei capelli sono stati la prima cosa di cui si è innamorato Kit, sosteneva di poterli vedere al buio. Abbiamo entrambe un aspetto… dimesso, suppongo che si dica così, anche se non sono mai stata descritta in questi termini, prima d’ora. Nessuno riconoscerebbe in noi le ragazze del festival, quelle che si sono dipinte il corpo e la faccia d’oro per danzare e ululare alla luna. Quelle ragazze sono sparite, sono morte, seppur in modi diversi.
All’esterno, il rumore di una porta pesante che sbatte ci fa trasalire. Mi rendo conto che lei è nervosa quanto me. Finalmente incrociamo gli sguardi allo specchio e ognuna rivolge all’altra una domanda silenziosa, troppo grave – e troppo pericolosa – per darle voce.
Come siamo arrivate a questo punto?
Come andrà a finire?