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Kit
20 marzo 2015
«Svalbard», dice Richard, sventolandomi il tablet sotto al naso. «Saremmo dovuti andare alle Svalbard, maledizione». Abbiamo trovato un bar al porto con wi-fi gratuito, vista sulle casette rosse e Sólarbjór alla spina; la mia ultima bevuta per un po’, penso, e decido lì per lì di non assumere altro alcol finché i bambini non nasceranno sani e salvi. Richard ha deciso di trascorrere i nostri ultimi minuti alle Fær Øer chino sullo schermo, ad assorbire ciò che ci saremmo potuti vedere. «O persino qualche altra isola di queste – questa è stata scattata a soli trenta chilometri da qui». Ingrandisce l’immagine bellissima di un sole crescente in un cielo terso. «E guarda! C’era una nave da crociera che non è riuscita ad attraccare al porto di Tórshavn e i passeggeri si sono goduti tutto da in mezzo al mare! Perché non ci ha pensato anche la Celeste?»
«Perché non fai causa per il cattivo tempo?», butto lì. In realtà era capitato; turisti, non veri cacciatori, che martoriavano le proprie agenzie viaggi per riavere indietro i soldi in caso di cielo nuvoloso. Richard capisce al volo.
«A proposito della Celeste, dovremmo spicciarci. Salperanno tra mezz’ora, hai preso tutta la tua roba?»
«Sì», dico, dando un colpetto alla busta di carta che ho appena comprato. La mia “roba” consiste di due minimagliette con sopra l’immagine della corona e sono abbastanza sicuro che vengano dall’eclissi del 2006, lo deduco dalla caratteristica fiammata orizzontale dei getti di idrogeno. Le magliette mi sembrano minuscole, troppo piccole per niente che non sia una bambola o un orsacchiotto, ma l’etichetta all’interno dice 12-18 MESI. Resto ancora senza parole perché manca davvero poco tempo prima che diventi padre e ne so ancora così poco di bambini. Ho pensato di essere uno zio in gamba per Juno o Piper, ma Ling e Laura continuano a dirmi che non tenevo loro bene la testa e che le restituivo sempre non appena si mettevano a piangere.
Mi alzo, sento il contatto della tracolla della macchina fotografica sul collo e, buttando giù l’ultimo sorso della mia birra locale, mi accodo a Richard in direzione della nave. Ho scolato due bicchieri, e in parte è colpa dell’alcol, ma la paranoia sta venendo rimpiazzata da una specie di euforia, la follia che mi ha contagiato sulla montagna. Nonostante tutte le paure di Laura non è successo niente e tra una ventina di passi sarò a bordo della nave, pronto a tornare a casa.
«Kit!».
La donna è proprio alle mie spalle, così vicina che non aveva nemmeno bisogno di gridare. Richard alza gli occhi al cielo, ormai annoiato dalla mia celebrità, ma il cuore mi picchia contro le costole. Lo shock di sentirmi chiamare con il mio vero nome, quello che usa Laura, in questo contesto fa fermare e dilatare il tempo. Una mano si posa sul mio braccio prima che possa registrare un dettaglio importante: anche se è una voce femminile, l’accento è diverso. Mi volto a fronteggiare una donna della mia età, con i capelli scuri, una bellezza slavata, che mi sorride per il piacere di avermi riconosciuto. Non ho la più pallida idea di chi sia, però lei non sembra restarci male.
«Sono Krista!», dice. «Krista Miller!».
La mia mente si affanna invano alla ricerca di un appiglio.
«Mi dispiace molto, Krista», dico e spero di aver sfoderato un sorriso affascinante. «Mi dovrai dare una mano».
«Ah, non c’è problema», risponde lei, imperturbabile. «Sono cambiata molto – anche se tu sei rimasto identico. Aruba? Aruba ’98? Baby Beach?».
Si forma un ricordo, con la lentezza di una Polaroid. L’ultima eclissi che avevo visto con mio padre. Saltando una settimana all’università – l’anno prima di conoscere Laura – avevamo preso un volo a febbraio, sdraiandoci su una sabbia bianca morbida come seta e rovente come il metallo. Un’eclissi bellissima, con Venere e Giove che si stagliavano sullo sfondo in cielo. Tutti gli inglesi e gli americani raggruppati allo stesso bar in riva al mare per ogni notte del viaggio e tra questi una studentessa americana – l’immagine ora si fa più nitida – con indosso un top gitano e un paio di pantaloncini, e l’apparecchio fisso ai denti. Ricordo di aver posato per una foto di gruppo che qualcuno aveva scattato con una di quelle macchinette usa e getta tanto di moda all’epoca. Riaffiorano i ricordi: la promessa di restare in contatto, di spedire una copia della fotografia, di scambiarsi l’indirizzo di casa anziché l’e-mail. Perso nel passato, mi rendo conto che Krista mi fissa con uno sguardo carico di aspettativa.
«Ma certo!», dico e mi abbasso per restituirle l’abbraccio che mi offre.
«Non riesco a credere alla mia fortuna, ad averti incontrato così», dice. «Stavo mostrando la tua foto in giro, ma non posso credere che sei proprio tu. Ti abbiamo dato tutti per morto!». Ride deliziata. «Sai che molti di noi si sono tenuti in contatto dopo Aruba? Ti ho anche scritto». Non mi meraviglia che non mi abbia trovato. Avrà spedito all’indirizzo della mia vecchia casa, ma i miei si trasferivano così di frequente che le poste non sempre riuscivano a stare al passo, e ora non esiste più alcun Kit McCall da rintracciare. «Ho cercato di contattarti via Facebook, per lo meno credevo che fossi tu, mi pareva che indossassi la stessa maglietta del Cile ’91 con sopra una gigantesca…», abbassa la voce, come se l’antidroga fosse rimasta in attesa tutto questo tempo per fregarci, «bruciatura da spinello sul davanti; ne eri rimasto devastato».
«ShadyLady!», dico con un tono involontariamente divertito. «Avesti dovuto dirmi il tuo nome, ricordarmi come ci eravamo conosciuti!».
Krista si dà uno schiaffo sulla fronte con il palmo della mano.
«Ecco perché non mi hai risposto, quello stupido nomignolo. Colpa mia. Avrei dovuto insistere di più». Si stringe nelle spalle. «L’altra sera ci siamo riuniti tutti. Sei libero più tardi? C’è in giro ancora qualcuno degli altri». All’improvviso si rende conto della presenza di Richard. «Anche tu», dice con un sorriso. Richard dondola da un piede all’altro con teatralità.
«La mia nave sta per salpare a minuti», dico facendo un cenno verso l’imponente imbarcazione alle mie spalle.
«Non ci credo!», risponde lei arricciando il naso. «Ma restiamo in contatto, abbiamo intenzione di organizzare la madre di tutte le riunioni nel 2017», dice. «Abitiamo proprio dove passerà la totalità, potresti accamparti nel nostro giardino».
«Mi piacerebbe moltissimo», dico, e mi accorgo di essere sincero.
«Mi sono sposata con Bill, sai», dice. Mi guarda con una faccia da: “Chi l’avrebbe mai detto, eh?”, e le restituisco la stessa espressione, pensando: Chi diamine è Bill? Non ne ho idea. «Sta per arrivare, devi assolutamente aspettarlo per fargli un saluto».
Guardo l’orologio: ancora dieci minuti prima che chiudano le porte e la nave è così vicina.
«Wow! Sarà bello rivederlo», dico, pur non avendo ancora la minima idea di chi possa essere.
«Ci vediamo in cabina», dice Richard. «È stato un piacere incontrarti», dice a Krista, e solo ora mi rendo conto di non aver fatto le presentazioni.
«Per un momento l’ho scambiato per tuo fratello», dice lei. «Come sta? È ancora uno spirito libero?»
«Non così tanto, ultimamente», dico. «Ma prima di darsi una calmata era diventato ancora più sfrenato. Sta bene, comunque, ha due bambine e gestisce la sua attività a Londra».
«E cosa mi dici di te?», mi chiede, anche se ho notato che ha già adocchiato l’anello al mio anulare.
«Ho sposato la mia ragazza dei tempi dell’università, Laura». Dire il suo nome getta un piccolo amo nel mio cuore, attirandomi verso casa. «È a Londra, al momento, incinta di due gemelli. È stata dura, quattro tentativi con l’inseminazione artificiale». Con orrore, mi accorgo che la mia voce sta iniziando a incrinarsi. Non so se dipenda dal sollievo dopo la tensione o dallo shock di aver ritrovato un viso della mia adolescenza, ma qualcosa in questa estranea mi è così familiare da farmi venire voglia di raccontarle tutto. Tutto quanto, persino le cose che non ho mai confidato nemmeno a Mac.
«Quattro anni», dice Krista, mentre io fatico a controllare l’espressione del mio viso. «Dev’essere stata dura per entrambi, ma dei gemelli! Due piccoli cacciatori di eclissi da scarrozzare in giro per il mondo. Noi abbiamo portato i nostri due ovunque. Pensi che sia una delusione quando trovi il cielo nuvoloso, ma non è niente a paragone della faccia dei bambini. Oh, guarda, si parla del diavolo!». Agita le braccia freneticamente – mi sovviene ora che Krista faceva quasi tutto così – mentre il fantomatico Bill si fa largo tra la folla verso di noi, portandosi dietro due bambini, un maschio e una femmina. Indossano tutti lo stesso impermeabile viola di Krista. È un’istantanea del mio futuro: qualsiasi senso dello stile piegato alla vita familiare. Sono il ritratto del senso di appartenenza.
«Amico!», esordisce lui, felice di vedermi. Non ho mai incontrato quest’uomo prima in tutta la mia vita.
«È un piacere rivederti», dico. «È passato troppo tempo».
Bill alza gli occhi al cielo. «È un peccato che fosse nuvoloso».
Confrontiamo gli appunti – loro avevano tentato la sorte al porto, ma non avevano visto niente nemmeno lì – e poi ci scambiamo le e-mail e ci abbracciamo con la promessa di scriverci presto.
Mi imbarco sulla Celeste sollevato. Se riesco a rendermi così visibile nell’arco d’un paio di giorni e Beth ancora non mi ha rintracciato, il pericolo dev’essere passato. Beth non ci ha trovati qui, quando avrei anche potuto avere un’insegna lampeggiante sopra la testa per tre giorni. Deve essersi arresa.