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Kit

19 marzo 2015

 

Mi sporgo dal parapetto della Princess Celeste e osservo il porto di Tórshavn nel tentativo di lottare contro il genere di sbornia che non avevo più provato dai tempi in cui ero studente. L’odore di pesce portato dalla brezza mi provoca un conato. Indosso i pantaloni del pigiama sotto il cappotto arancione e ho i piedi nudi negli stivali. Non mi sono lavato i denti né la faccia e non accendo il telefono da ieri notte. Richard è andato a prendermi un caffè, che mi darà il colpo di grazia o mi rimetterà in sesto. L’aria è così pulita, sembra quasi di berla, anziché respirarla, e ho bisogno di ogni centimetro cubo di ossigeno per scacciare via la notte scorsa.

La nostra nave getta un’ombra che si prolunga verso la baia. Da qui si scorge l’intera città, affacciata sul margine dell’acqua, le montagne circostanti scivolano verso il punto di fuga. Le scogliere di basalto emergono dal mare come i vulcani che un tempo erano. Le case dipinte di rosso punteggiano il grigio paesaggio urbano. Sembrano costruzioni LEGO e la folla che cammina per le strade, come tanti vestiti ambulanti dai colori primari, ricorda i giocattoli. Manca ancora una giornata intera all’eclissi e non abbiamo in programma nulla fino al pomeriggio, quando prenderemo il minibus per salire in montagna. Il solo pensiero mi provoca un conato di bile.

Non ho l’energia per andare a fare colazione, figuriamoci per mettermi alla ricerca del bar rivestito di pietra.

«Voglio solo tornarmene a letto», dico a Richard quando mi raggiunge con l’elisir a base di caffeina bollente e amara in una tazza di plastica.

«Non esiste», dice. «Ce ne andiamo in esplorazione».

Il caffè fa il suo dovere. Nell’angusto bagno della cabina mi lavo i denti, mi faccio la doccia e mi sento quasi umano. Solo a quel punto controllo il telefono. Mi accoglie un messaggio di benvenuto di Føroya Tele, che mi augura un felice soggiorno sull’isola, seguito da alcuni messaggi inquietanti e da tre chiamate perse da Laura.

Le rispondo: “Mi sono svegliato adesso. Notte faticosa, sono contento che stai bene. Ti chiamo dopo. Baci”.

Lo lascio in cabina, le scriverò più tardi. Io e Richard riempiamo i portafogli con banconote da dieci krónur nuove di zecca e ci dirigiamo verso il centro di Tórshavn. Per le strade gli intraprendenti abitanti del posto stanno spacciando la consueta paccottiglia: magliette, cappellini da baseball e occhiali per l’eclissi. Compro tutto, questa volta per due, così i miei figli non dovranno litigare per chi avrà cosa; a differenza mia e di Mac, voglio che loro diventino entrambi cacciatori di eclissi. I nostri maglioni faroesi sono in vendita ovunque e non sono più tanto sicuro che io e Richard sembriamo così fighi quanto pensavamo. Ogni negozio e caffè è pieno fino a scoppiare.

Richard si è comprato una cartina. «Questi magazzini di legno appartenevano un tempo alla famiglia reale danese», dice mentre ci avviciniamo a uno degli edifici dipinti di rosso.

«Apriamo le danze!».

«Ok, simpaticone», commenta Richard, poi fa un cenno verso un bar vicino. «Per i postumi della sbornia?».

Ci prendiamo una pinta di chiara spumeggiante che è stata preparata apposta per commemorare il non-evento. A quanto pare, la Sólarbjór è stata fatta fermentare completamente al buio e con la luna piena. Poteva anche essere stata prodotta dagli elfi e dalle fate sotto un arcobaleno magico, ma non sarei stato comunque capace di finirla. Ne butto giù un paio di sorsi e poi la spingo via. Non berrò mai più.

Al museo nazionale c’è una testimonianza dell’ultima eclissi totale sopra le isole, nel 1954. La folla si accalca per leggere e si distribuisce su quattro file, non è qualcosa che capita spesso di vedere. Richard legge una citazione dell’allora geologo di Stato: «“Piove e c’è la nebbia, impossibile lavorare”», dice. «Be’, per lo meno non sta piovendo».

«Non ancora», commenta una donna con un impermeabile. «Secondo la mia app, la probabilità di precipitazioni, domani, è del cinquanta percento».

Mi schizzo il caffè sulla mano.

«Ora come ti senti, amico?», mi dice Richard.

«Direi profondamente depresso».

«Tu almeno ne hai già vista un’altra prima», commenta e poi alza le mani al cielo con fare drammatico. «Vi scongiuro, o dèi del tempo, non fatemi morire vergine!».

«Ah ah». Dopotutto mi è simpatico.

 

Quando torniamo in cabina mi sta squillando il telefono. L’immagine di Laura riempie lo schermo e una notifica nell’angolo mi informa che ho già ricevuto, che diamine, sedici chiamate senza risposta. La mano mi trema, mentre scorro con il dito per rispondere.

«Cosa è successo?», le chiedo.

«Ti sei visto su Internet, per la miseria?», dice con voce stridula. Sento un’ondata di acido vorticarmi nello stomaco. Deve aver scovato i miei account sui social, come una detective della scientifica; non è affatto da lei, ma ultimamente non è se stessa. Non avrei mai dovuto lasciarla da sola.

«Ho un’identità falsa». Percepisco la mia voce che si incrina. «Non c’è nemmeno la mia faccia, ho coperto le mie tracce». L’ho fatto davvero; come immagine di profilo ho la mia maglietta del Cile ’91 e ho disabilitato la posizione geografica sulle poche foto postate. Non c’è alcuna possibilità che lei…

«Di che diavolo stai parlando?», dice. «C’è tutta la tua faccia, in primo piano, su questa cazzo di cosa! Complimenti per averla aggiornata senza fatica. Ti sei reso completamente ridicolo su Internet con un cazzo di rap».

«Un rap?», le faccio eco, ma la parola sblocca un ricordo. La scorsa notte; ho fatto l’idiota davanti a una telecamera; io – oddio – ho inventato una filastrocca, non è così?, elencando tutte le eclissi cui ho partecipato. Non ricordo di nessuno che abbia detto che l’avrebbe postato sui social, ma non ricordo nemmeno di aver impedito a qualcuno di rendere pubblico il video. Ciao, senso di colpa, vecchio amico mio.

«Non dovrebbero permetterti di bere», grida. Mi stacco il telefono dall’orecchio, come fanno gli uomini nelle sit-com. Sì, sono nei guai, ma lei non sta parlando del mio account Facebook e con il tempo lo ricorderemo come un errore e non un sotterfugio.

«Devi convincerli a toglierlo dal web, subito», mi sta dicendo, quando riporto il cellulare vicino all’orecchio.

«Senti, mi dispiace, non avevo idea che qualcuno l’avrebbe caricato».

«È la prima regola! Non lasciare tue foto in giro. E tu ti sei fatto filmare, cazzo». Ora sta piangendo.

«Per favore non agitarti, non fa bene ai bamb…».

«Non venirmi a dire cosa fa bene e cosa non fa bene ai cazzo di bambini!». Riesco a immaginarmi con gli occhi della mente le vene del suo collo che si gonfiano, mentre perde la pazienza.

«Mi dispiace», ripeto, non ho altre scusanti. «Ma ascoltami, Laura, lei non è qui. Ho controllato tutta la nave. Ecco perché mi sono concesso un drink, per celebrare il fatto che non ci stesse seguendo».

«Be’, non c’è bisogno che sia a bordo della nave, non è così? Sa dove stai andando. Sa il nome della nave, il nome della città! Sarà di certo su un aereo in questo momento, sempre che non sia già là».

Non avevamo mai litigato al telefono prima. Cerco le parole giuste che possano calmarla. «Tutti i voli per le Fær Øer sono stati prenotati mesi fa».

«No». Parla con autorità. «C’è un volo charter che parte da Inverness questa sera e che, fino a ieri, aveva ancora due posti liberi, ma è l’unico modo per arrivare laggiù. Uno dei due è stato prenotato stamattina, dopo che hai deciso di sbandierare la tua posizione».

La rabbia rimpiazza il senso di colpa. Ho fatto un casino, ma anche Laura non è stata ai patti. Mi aveva promesso di non agitarsi, andando a cercar guai su Internet. Non è finita per caso sul video mentre faceva la spesa o inviava un’email di lavoro. Me la immagino seduta sul divano, con le gambe incrociate sotto al pancione, con l’isteria che cresce a ogni clic. Ma non dico niente, al mio solito.

«Le probabilità che sia stata lei a prenotare quel biglietto sono esigue».

«Sì, be’, anche le probabilità che ci trovasse in Zambia erano parecchio remote, cazzo, ma ce l’ha fatta comunque».

«Quella volta era diverso. Eravamo a un festival, era come rubare le caramelle a un bambino».

C’è un silenzio carico di tensione talmente lungo che devo controllare che il mio cellulare non abbia perso la ricezione. Cinque barre piene sono allineate come campane tubolari. Sta mettendo il broncio e io non so come gestirla da così lontano. Vorrei poterla toccare.

«Laura, stai ingigantendo il rischio».

«Ma se alla fine ti trova davvero?».

Allora farò ciò che è necessario per affrontarla, penso, ma so che farei solo allarmare di nuovo Laura. «Facciamo così», rispondo. «Prima lasciami dare un’occhiata al video. Ti richiamo più tardi, te lo prometto».

Di nuovo sul ponte, le mie rassicurazioni a Laura sul mio anonimato cadono nel vuoto non appena un altro passeggero, uno che non riconosco, mi dà il cinque e si congratula con me per la mia “poesia”.

Merda.

Nell’atrio mi accoccolo sulla mia poltrona preferita, mi infilo le cuffie e, con una sensazione d’inquietudine, apro YouTube. Si può trattare solo di: Crociera di cacciatori di eclissi. Tizio ubriaco rappa sulla Princess Celeste. DA MORIRE DAL RIDERE. Giuro solennemente tra me e me di non toccare niente di più forte della limonata per il resto della crociera e avvio il video. Non credevo che si potesse arrossire senza nessuno a guardarti, ma ho le guance in fiamme mentre mi osservo, con la faccia paonazza da ubriaco, snocciolare una lista biascicata – lo definirei un monologo, più che un pezzo rap o una poesia, ma tant’è – di tutte le eclissi cui ho partecipato dai tempi del Cile ’91. Se, nel mio stupore ebbro, avevo creduto che il cappello fosse un camuffamento efficace, mi ero sbagliato; a quel punto mi era scivolato in cima alla testa, tanto da non gettare nemmeno più un’ombra sul mio viso. Ci sono due lati positivi, però, immagino. Il primo è che il cartellino col mio nome era sul maglione, che mi ero levato parecchio tempo prima della mia esibizione; il secondo è che non viene fatta alcuna menzione di come mi chiami, non c’è scritto nemmeno Christopher, figuriamoci Kit. Vengo presentato come “gentiluomo e studioso”. Inoltre la mia unica concessione alla Cornovaglia ’99 è stata: «Nuvolosa / non è una bella cosa», suscitando fischi tutt’intorno a me. Non sono sicuro che dipenda dal fatto che simpatizzino con me per la mia sfortuna meteorologica o che si lamentino della pessima rima. In effetti non penso che sia poi tutta questa faglia nella sicurezza che ci ha visto Laura, ma non posso comunque negare di essere un gigantesco coglione.

Una mano sulla spalla mi fa trasalire.

«Hai trovato il vlog di Darren, eh?». Richard si abbandona sulla poltrona di fronte alla mia. «Me ne ha appena parlato. Stavo per mettermi comodo a guardarlo». Non so cosa tradisca la mia espressione, ma Richard si addolcisce leggermente. «Su dai, non eri poi così sbronzo. È divertente, fa ridere».

«Dio come odio la tecnologia», dico, prendendomi la testa tra le mani. «Ma è consentito?»

«Politica di crociera». Richard ora sembra in imbarazzo. «Avevo intenzione di dirtelo, no? Quando ti sei alzato per andare a fare un goccio».

Ripenso a inizio serata; forse si riferisce a quando mi sono allontanato per controllare la lista dei passeggeri alla ricerca del nome di Beth. «Hanno distribuito degli adesivi a chiunque rifiutava di farsi riprendere, perché c’erano così tante telecamere che era impossibile far compilare dei moduli di liberatoria a tutti. Pratica standard. Devi dirlo alla gente che i social media sono inclusi nel pacchetto».

«Che stronzata», commento.

«Crea un precedente equivoco», conviene. «Ma è così che funziona. Cultura dell’esclusione. Sul serio, avremmo dovuto aprirci su un dibattito, ma nessuno ha detto niente, perciò… Perché, sei preoccupato di cosa diranno al lavoro?».

Il lavoro! Non avevo nemmeno pensato al lavoro. «Sì», rispondo. «Per il lavoro».

Alla fine riesco a localizzare Darren il vlogger, un uomo irsuto con una maglietta psichedelica attaccato alle macchinette della piccola sala giochi. Sorride quando mi riconosce, ma mi fa cenno di aspettare finché non finisce di giocare. Pigia bottoni luminosi per quella che mi sembra un’eternità e riesco a fatica a trattenermi dallo staccare la spina.

«Cosa posso fare per te?», mi chiede. «Ti stai godendo la celebrità?».

Spero di non doverlo supplicare. «No, a dire il vero», rispondo. «Ho bisogno che lo cancelli subito. Potrebbero esserci serie ripercussioni sul mio posto di lavoro».

«Ma mi hai detto che era ok», controbatte Darren, ma non pare molto convinto.

«Ero ubriaco fradicio. Avrei detto di sì a qualsiasi cosa».

«Capito», mi dice. «Giocherò un’ultima partita, per vedere se riesco a rifarmi». Fa tintinnare le monetine nella tasca.

«Potresti farlo subito?». Non sono mai stato bravo a dare ordini ad altri uomini e sono pronto a sentirmi mandare a quel paese, ma Darren rimette in tasca le monetine.

«Aspetta qui», dice. «Vado a prendere il tablet. Lo faccio davanti a te».

Nella sala giochi, luci dei tre colori primari lampeggiano nel buio, rievocando il mio dopo-sbornia. Esco nell’atrio prima che mi venga un colpo apoplettico. Darren è di ritorno dopo tre minuti. Tiene gli occhi abbassati come se si vergognasse, ma trattiene a fatica un sorriso.

«Posso eliminarlo, non c’è problema, lo faccio ora». Con pochi gesti lo cancella dall’account. Dall’espressione che sta facendo, però, mi rendo conto che c’è un “ma” in arrivo.

«Che c’è?», gli chiedo.

«È un po’ strano. Sei diventato virale. Il professor Brian Cox ti ha ritwittato e nelle ultime due ore il video è stato visto da diciannovemila persone. È salito in cima alla barra laterale di YouTube». Darren cerca di suonare contrito, ma gli è impossibile nascondere la sua ilarità. Giro sui tacchi, con gli occhi rivolti al pavimento; i motivi del tappeto sembrano contorcersi sotto ai miei piedi. Chiunque stia cercando un cacciatore di eclissi l’avrà visto; tanto valeva divulgare direttamente le mie coordinate. Il polso mi accelera, mentre la realtà di rivedere Beth ancora una volta si fa più tangibile, e solo in parte dipende dalla paura. Forse ho bisogno di questo confronto. Forse la mia mente subconscia e ubriaca ha preso la decisione che il mio sé sobrio non ha avuto le palle di prendere per quindici anni.

 

La verità sul caso Beth Taylor
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