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Kit

10 agosto 1999

 

Mi svegliai all’alba dopo un paio d’ore di sonno, ancora nudo, con i muscoli intorpiditi per il freddo. Il senso di colpa mi invase subito, escludendo tutto il resto. Mi immaginai il viso di Laura se l’avesse scoperto; pensai a come mi sarei sentito se l’avesse fatto a me e mi sentii torcere le budella. Come riusciva Mac a farlo una volta dopo l’altra? Perché non mi aveva avvertito delle conseguenze, immediate e viscerali? Perché non mi aveva messo in guardia dalla paura? Forse perché non aveva mai avuto da perdere quello che avevo io.

Beth era addormentata, sotto i miei vestiti e i suoi, con i seni premuti tra braccia lattee, l’ombra di uno sfogo da barba sul collo e ciò che restava della vernice che le brillava sulla pelle. Le piume tatuate le solleticavano le spalle. Rividi con gli occhi della mente dei fermo-immagine del suo viso contorto dal piacere; oltre il senso di colpa avvertii anche un accenno di affermazione: strinsi i pugni per cacciarla via. Senza il mio calore, Beth iniziò a rabbrividire e la vidi aprire piano gli occhi. Una lacrima assonnata minacciò di spuntarle dall’occhio sinistro. Frenai l’impulso di asciugargliela.

«Ehi», disse, alzandosi su un gomito. «Sono nel posto giusto per una tazza di tè».

Mi sentii irrigidire. Ancora una volta, disse il diavolo. Ancora una volta prima che sorga il sole. È l’ultima notte. Ma lo ignorai e mi misi i jeans, con quella che speravo fosse un’aria di chiusura.

«Beth», dissi. Lei comprese la sfumatura che avevo dato al suo nome, si strinse nel sacco a pelo e socchiuse gli occhi.

«Non suona bene».

«Non c’è un modo giusto di dirlo: ho una ragazza».

Ci fu un secondo di ritardo, poi, quando mi aspettavo il contraccolpo, si chinò verso di me e disse: «Vai. A. ’Fanculo». Cercò di rivestirsi, ma in modo impacciato; i suoi abiti avevano perso la fluidità della notte precedente e fece fatica a rimettersi il reggiseno che le tagliava a metà le ali; poi costrinse le braccia coperte dalla pelle d’oca a entrare nelle maniche della camicetta.

«Questa», disse voltandosi a fronteggiarmi e sventolando una mano in direzione del sacco a pelo, «non è una cosa che faccio abitualmente. Mi hai fatta diventare una donna che va a letto con il ragazzo di un’altra. Sei una merda». Mi diede la spinta in pieno petto che mi meritavo. «In realtà no, c’è di più. C’è stato qualcosa, un legame. Non l’ho sentito solo io, vero?».

Sembrava sul punto di piangere.

Ero basito. Mi ero immaginato che, siccome tutti gli altri erano in grado di saltare da un letto all’altro senza conseguenze da quando erano ragazzini, il bisogno di una connessione più profonda fosse una mia debolezza. Non mi ero immaginato che Beth potesse averla presa sul serio.

«Mi dispiace», dissi pateticamente. Avrei voluto dirle che non si sbagliava, che era stato bellissimo, ma sapevo che ero già entrato in modalità “limitazione dei danni”.

«Dispiace anche a me». Si chinò ad afferrare con rabbia una scarpa argentata. «Non mi piace essere presa per una… non lo so, per chi mi hai presa? No, lascia stare, preferisco non saperlo. Grazie per avermi rovinato il festival».

Si era già vestita e aprì la tenda, mentre io ero ancora scalzo e indossavo solo i jeans. La seguii in mezzo a un campo d’argento. L’erba ghiacciata mi pungeva i piedi. La pregai di perdonarmi, anche se non lo meritavo. «Beth!», gridai. «Per favore, non andartene così!».

Ma se n’era andata. I boschi che aveva trovato così sinistri la inghiottirono. In cielo, le nubi sparpagliavano le ceneri dell’alba, ricordandomi perché fossi lì. L’eclissi imminente impallidì di fronte a ciò che avevo fatto.

Il lembo aperto della tenda sventolò piano contro il fianco come in un applauso sarcastico. Di nuovo all’interno mi rimisi gli stivali ed esaminai i miei abiti con pazienza certosina, togliendo ogni singolo capello riccio nero dalle fibre della mia felpa. Il sacco a pelo rosso mostrava una traccia leggermente umida e argentea nel punto in cui ero stato sdraiato, la febbre della notte prima ridotta a una ignobile macchiolina. Non potevo lasciarlo lì. Lo arrotolai di nuovo, pronto a gettarlo in fondo al furgoncino. Mi sembrava di ripulire le tracce di qualcun altro, di qualcuno che non volevo conoscere. Mi sentivo come se stessi inquinando la scena di un crimine. Mi infilai il sacco a pelo infetto sotto il braccio e mi incamminai in direzione del nostro piccolo accampamento. Qua e là ardevano le braci di alcuni falò e pensai di bruciarlo, ma sapevo che si sarebbe infiammato vistosamente, attirando un’attenzione che non desideravo. Invece, lo gettai nel retro del furgoncino, dove non potevo né vederlo né annusarlo.

Dalla tenda rossa non proveniva nessun suono. Aprii quella verde. I nostri sacchi a pelo erano lì, allacciati insieme. Il cuscino che avevo portato per Laura sapeva dei suoi capelli, come se ci avesse dormito sopra e sembrò evocare il suo viso, ma invece di vederla sorridere vi lessi dell’odio perverso. Con un sussulto mi resi conto che sarebbe andata così se le cose che tutti ammiravano in Laura – la sua intelligenza, i suoi princìpi – fossero stati rivolti contro di me. Avrebbe capito da un unico sguardo che cos’ero. Mi avrebbe lasciato senza batter ciglio.

Non era solo il suo dolore che temevo, ma anche la sua furia.

Mi sdraiai sul mio sacco a pelo, con la luce nauseante del mattino che filtrava da sotto la tela. Le pareti della tenda si contraevano ed espandevano a ritmo con la brezza come un polmone gigante. Sapevo con certezza assoluta che non avrei mai più ripreso sonno.

Mac mi svegliò quelli che sembravano dieci secondi dopo, infilando la testa nella tenda. Aveva gli occhi sporgenti come un cartone animato e la lingua verde. Controllai l’orologio: erano le dieci del mattino.

«Kit», gracchiò. Vent’anni di provocazioni mi si gonfiarono dentro; la voglia di vantarmi si agitava sulla lingua. In quegli attimi tra il sonno e la veglia mi parve che ne valesse la pena, poi, quando ritrovai la concentrazione, capii che minacciava di essere la seconda peggiore idea che avessi mai avuto. Mi fermai appena in tempo.

«Non mi aspettavo di vederti in piedi così presto», dissi. Con lui il sarcasmo andava sprecato.

«Col cazzo. Sto andando a dormire adesso». Il suo alito sapeva di vecchio tabacco. «Siamo andati alla scogliera e abbiamo visto della roba pazzesca. Laser nel cielo. Senti. Puoi aprire tu per noi, badare alla folla dell’ora di pranzo?»

«Stai scherzando?», dissi. «Ieri ho fatto il doppio turno».

«Per favore, Kit», mi blandì. «Stanotte stiamo noi fino a tardi. Se non dormo un po’ penso che schiatterò». Lo guardai di traverso. «Lavoriamo noi domani con l’eclissi», disse.

«Vai».

Non andai subito al chiosco. Mi sentivo pieno di Beth e avrei pagato anche cinquanta sterline, figuriamoci cinque, pur di restare sotto l’acqua calda e pulirmi. Nel piccolo bagno incrostato della fattoria, aprii l’acqua così forte che la pelle mi diventò scarlatta. Mi strofinai fino a togliermi l’ultima macchia dorata di dosso. Al ritorno, comprai un’indefinita felpa cachi con il cappuccio che mi copriva metà faccia e solo a quel punto mi aggirai in mezzo alla folla con tranquillità.

Finalmente il sito cominciava ad affollarsi. Burrito Jon stava passando ad alto volume la musica di una band di mariachi per richiamare i clienti e aveva attirato avventori nella nostra zona del festival. Al chiosco del tè incassai settanta sterline solo al mattino e me ne intascai dieci per fare un dispetto a Mac. Dal momento in cui accesi il generatore rimasi in allerta totale, aspettandomi di veder apparire Beth, ma non la vidi fino all’ora di pranzo. Si era cambiata e aveva indossato un paio di assurdi pantaloni violetto a zampa d’elefante, i capelli raccolti in un asciugamano marrone malconcio. Quasi non ci avevo fatto caso, ma la sua totale immobilità risaltava in mezzo alla folla in movimento. Quando i nostri sguardi si incontrarono, si voltò. Fu solo più tardi che mi resi conto che non cercava affatto me. Voleva vedere com’era Laura.

 

Laura attraversò il campo e per poco non lasciai cadere il sacco dell’immondizia che tenevo in mano. A causa del colloquio di lavoro, si era pettinata in modo diverso: invece delle onde guizzanti cui ero abituato, si era lisciata i capelli, che apparivano morbidi e setosi. Mi proiettai avanti nel futuro, con Laura che metteva le chiavi sul tavolo e si toglieva le scarpe da lavoro con un calcio, mentre io chiudevo il portatile per andare a dormire. Quella semplice fantasia domestica allora mi sembrava tutto ciò che avevo sempre desiderato nella vita, quindi perché avevo l’impulso di gettarmi ai suoi piedi e confessare il misfatto? La baciai e le misi i capelli dietro le orecchie, perché era quello che facevo sempre.

«Com’è andato il colloquio?»

«Ok, penso. Vedremo». Compresi da come mi scrutava il viso che aveva intuito che qualcosa non andasse. Cercò di estorcermelo, depositandomi baci leggeri sulle orecchie, con le mani intorno ai miei fianchi, ma mi ritrassi. Per la prima volta comprendevo l’impulso della gente, sull’orlo di un burrone, a gettarsi di sotto. Riuscii in qualche modo a improvvisare una chiacchierata sulle docce della fattoria e sulle previsioni del tempo, ogni parola che mi usciva era un piccolo inferno.

«Non si sa mai», disse. «Quelli del meteo si sbagliano in continuazione». Il suo commento per un istante mi fece sentire contento delle nuvole.

Ho sempre detestato l’idea di percezioni extrasensoriali, ma giuro che in quel momento avvertii la presenza di Beth alle mie spalle, infatti voltandomi piano la vidi appoggiata contro un albero; per tutto il resto del mondo non era che l’ennesima hippy che si godeva l’atmosfera. Scrollai la testa e in risposta lei mi rivolse un piccolo cenno del capo che interpretai come una convocazione.

Attingendo alla mia recente vena creativa, mi girai e osservai il bollitore perfettamente funzionante. «Oh, cosa succede?». Ruotai la manopola della temperatura mentre Beth scivolava dietro la tenda. «Si è di nuovo inceppato, c’è un punto in cui fa contatto sul retro. Resta qui e bevi qualcosa mentre io vado a sistemarlo». La baciai di nuovo sulla testa.

Dai rami degli alberi dietro al tendone pendevano cascate di campane eoliche, che tintinnavano come nervi scoperti. Sentii l’impulso improvviso di raccogliere tutte le campane mai prodotte e appiattirle con un martello. I capelli di Beth si erano asciugati in lunghi serpenti neri e venuzze rosse risaltavano contro il verde e il bianco dei suoi occhi. C’era intimità tra noi, ma era anche un’estranea e non mi sembrava giusto che le due caratteristiche potessero coesistere.

«È lei?». Teneva le braccia incrociate, ma col piede scavava una trincea nel terriccio del bosco.

Ero indignato. «Certo che è lei, non è che vado in giro a…». Ma non terminai la frase. Perché avrebbe dovuto credermi, date le prove? «Non le sono mai stato infedele, tranne che con te».

Esplose in una risata amara e derisoria. «Stai dicendo che sono speciale? Stai dicendo che dovrei sentirmi lusingata?». In effetti intendevo esattamente quello, ma nella mia testa suonava meglio. «No… non lo so… sto solo dicendo, per favore non dire niente a Laura. Mi dispiace di non essere stato onesto con te, ma non è colpa sua, e le si spezzerebbe il cuore». Le gambe mi tremavano per il bisogno primitivo di mettermi in ginocchio.

Un soffio improvviso di vento scosse le cime degli alberi intorno a noi; le foglie ondeggiarono come il mare e le campane trillarono fuori tempo.

Beth si lasciò cadere le braccia sui fianchi. «La ami?».

Per ventun anni le donne mi avevano ignorato. Ora che a quanto pareva sembravo interessante, desiderai non esserlo. «Sì», dissi, avvertendo il suo bisogno di onestà. «È tutto per me».

Beth dondolò da un fianco all’altro, come se stesse fisicamente vagliando le sue opzioni. «Devo dire che suona convincente, dall’esterno, a prima vista. È difficile a dirsi senza chiederlo direttamente a lei».

Mi lasciai andare. «Ti prego, non dirle niente. Ti scongiuro».

«Non ne ho bisogno». Le sue parole rimasero sospese nell’aria, controllate, cariche delle lacrime non versate. «Se è così come dici, non le rovinerò la vita solo perché non sei riuscito a tenerlo nei pantaloni. E se sei il coglione che credo che tu sia, presto o tardi lo scoprirà da sola».

Tenne fede alla sua parola, ovvero quel temuto confronto non si materializzò. Quel giorno vidi Beth due volte, mentre ci fissava dall’altro lato del campo, in mezzo alla folla, come se esaminandoci a distanza potesse misurare ciò che avevamo. Ma come avrebbe potuto, dal fuori? Anch’io non mi ero reso conto di quello che avevo finché non ero andato tanto vicino a incasinare tutto.

 

La verità sul caso Beth Taylor
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