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Laura

9 maggio 2000

 

Una volta resa la mia testimonianza, potei accedere alla galleria riservata al pubblico. Durante la solitaria pausa pranzo di un’ora, però, in cui passeggiai per il cortile sotto una pioggia leggera, presi seriamente in considerazione l’idea di non ritornare affatto. Come avrei potuto spiegare la mia assenza a Kit, d’altro canto? Avrebbe saputo che qualcosa non andava, perciò alle due del pomeriggio mi accodai ai Balcombe e rientrai nell’Aula 1. Dal banco dei testimoni avrei detto che gli accompagnatori di Jamie riempivano la galleria, tuttavia riuscirono comunque a sistemarsi in modo tale che le sedie accanto e di fronte a me restassero vuote. La madre – che oggi indossava smeraldi – trasaliva letteralmente ogni volta che mi muovevo, ma questo atteggiamento non fece altro che farmi sedere più dritta, dandomi ulteriore determinazione. In questo modo, forse, avrei rafforzato la mia posizione nei confronti della giuria; era un bluff perfetto, chi avrebbe mai mentito alla corte per poi sedersi, esponendosi nuovamente al suo scrutinio?

Kit prestò giuramento con naturalezza. Nascose il nervosismo dietro un’aria da spaccone che a un estraneo doveva apparire piena di fiducia, pomposa persino. Come me, Kit fu presentato sulla base del grado di istruzione – un paio di giurati, compresi la massaia e il sikh, annuirono in segno di approvazione alla menzione del suo titolo di studio di Oxford – e poi raccontò gli eventi di quel mattino di agosto. Nathaniel Polglase non aveva altre domande, ma Fiona Price non vedeva l’ora di fare le proprie. «Potrebbe descrivere nuovamente i secondi che hanno preceduto la fuga di Mr Balcombe dalla scena?».

Kit annuì. «Laura stava sorreggendo la ragazza e lei, Laura intendo, era in una sorta di stallo con l’imputato. Lui cercava di accattivarsi la mia simpatia, ma non era molto convincente; sembrava più che altro una risata forzata. Ha cominciato a prenderla sul serio solo quando Laura ha annunciato di voler andare dalla polizia».

«Gli ha dato modo di giustificare il suo allontanamento dalla scena?». Il suo tono con Kit era diverso, privo delle inflessioni ritmiche e intimidatorie che aveva riservato a me.

«No, ma non ci ha neppure provato».

«Non ho ben capito il modo in cui l’imputato si è allontanato, nella sua dichiarazione originale. Camminava come un uomo che voleva sfuggire a una molestia?».

Kit ci rifletté su. «Non è che è corso via, ma decisamente ha aumentato il passo quando ha visto che lo seguivo e poi si è dileguato in mezzo alla folla. Gli sono andato dietro per un po’ e alla fine altre persone si sono unite al gruppo ed è stato impossibile proseguire». Apparve ancora affranto al ricordo.

L’avvocato incrociò le braccia sotto la toga. «Cosa avrebbe fatto se l’avesse raggiunto?»

«Onestamente? Non ne ho idea. Ero preso dal momento. Immagino di aver pensato che avrei effettuato una specie di arresto da cittadino, anche se non avevo la più pallida idea di come fare».

«Quindi, ha assistito al rapporto?»

«No». La voce di Kit era piatta, distaccata e perentoria.

«Ha visto appena la vittima?»

«Esatto». Era così composto da dare quasi l’impressione di rispondere a un sondaggio. In precedenza avevo criticato la sua capacità di scindere i fatti dalle emozioni, ma ora lo invidiavo e basta. Perché io non ci riesco?, avevo pensato all’epoca. Mi ero resa conto solo in seguito che c’era una differenza cruciale tra di noi: lui stava dicendo la verità.

«E non si è premurato di chiedere all’imputato perché stesse fuggendo?»

«No».

«Perciò essenzialmente la sua testimonianza è solo un’estensione di quella della sua ragazza, giusto? Ha agito sulla base di ciò che lei aveva deciso fosse avvenuto?»

«Mi fido del giudizio di Laura», disse Kit senza esitazione. Mi sentii invadere dal senso di colpa.

«Potrebbe affermare, sotto giuramento», incalzò Fiona Price, «che il sesso non era consensuale?»

«Naturalmente no», replicò Kit. «Non si può giurare su qualcosa cui non si è assistito». Il suo sorriso provocò un’espressione confusa sul viso di Price, la prima reazione genuina che le avevo visto in faccia dall’inizio di quella giornata. Forte del contrappeso della sua verità, aveva minato la domanda di lei alle fondamenta. Un mormorio infastidito percorse i ranghi dei Balcombe accanto a me. Pietre preziose e orologi costosi tintinnarono, mentre le braccia venivano conserte e le teste scrollate. Le faranno passare l’inferno, pensai.

 

Mi cambiai i vestiti non appena fummo rientrati in albergo. Kit sedeva a gambe incrociate sul letto, ancora con il completo addosso, la mappa della Cornovaglia davanti a lui, osservando il profilo costiero che si snodava come un serpente.

«Penso di non essermi reso conto di che razza di campo minato fosse finché non mi sono trovato al banco dei testimoni», disse. Non sapevo se si stesse riferendo ai parametri della sessualità, al sistema della giustizia penale o al fatto di discutere con me di una delle due cose. «Voglio dire, quando mi stavano chiedendo del modo in cui si era allontanato; lo sai, no, è colpevole o innocente? Sono felice di non doverci più tornare».

Mi bloccai con l’abito in mano. Avevamo ancora tre giorni da passare in Cornovaglia: mi ero aspettata che avremmo continuato a seguire l’andamento del processo.

«Domani potremmo fare un salto a vedere Goonhilly Downs», propose Kit. «Hai presente quel posto con i menhir e le antenne satellitari cui ti accennavo quest’estate?». Continuai a dargli la schiena mentre appendevo l’abito e ne lisciavo le pieghe nell’armadio. «Ok, non è abbastanza pittoresco per te. Che ne dici di un pranzo a St Ives, allora?». Continuai a restare in silenzio. Lui si lasciò cadere all’indietro e le molle del letto emisero un sospiro insieme a lui. «Vuoi restare qui e continuare a seguire il processo».

Mi voltai a fronteggiarlo. «Solo finché non salirà sul banco dei testimoni. Non sono riuscita a vedere Beth, ma voglio vedere Jamie. Voglio vedere con quale faccia negherà tutto e voglio esserci quando crollerà».

Kit non parve convinto. Cercai di fare appello alla sua natura metodica. «Domani è il turno della polizia e della dottoressa. Magari ti sentirai meglio se assisterai a tutta la parte scientifica».

«Ma tu stessa hai detto che probabilmente la scientifica non avrà molta presa». Kit si slacciò i gemelli dai polsini, gancetti argentei che, notai soltanto allora, portavano le iniziali del padre. Non riuscivo a immaginare il Lachlan McCall che avevo conosciuto con indosso un completo elegante. Li lanciò da un palmo all’altro come un giocoliere. «I segni fisici di una lotta possono provare che lui sapeva quel che stava facendo o lei doveva dire apertamente di no?».

La domanda successiva fu inevitabile: “Le hai sentito dire di no, Laura?”. Dovevo impedirgli di chiedermelo, non potevo mentirgli spudoratamente in faccia.

«Ci siamo già passati!», dissi. «Sesso senza consenso è stupro, Kit. Fine del discorso!».

Lui trasalì per la sorpresa. «Sì, lo so, ma…».

La domanda seguente mi sgorgò fuori nello stesso tono. «Le credi o no?».

Mi sono ripetuta nella testa questa conversazione infinite volte e suppongo di aver voluto dire: “Mi credi o no?”. Ma Kit non poteva saperlo e fece ciò che faceva sempre quando veniva messo alle strette: rifugiarsi nella pedanteria.

«Tu stessa hai detto di non averla sentita parlare. È stato solo all’arrivo della polizia che ha aperto bocca, non è così? Perciò tecnicamente non posso credere o non credere a qualcuno che non ha detto niente sull’argomento».

Aveva ragione, ovvio, cosa che forse rese il mio scoppio successivo ancora più sconcertante. «Non avevo idea che fossi un tale stronzo pomposo e cinico». Era una proiezione, certo; me la stavo prendendo con lui per placare il mio senso di colpa e la confusione per come mi ero comportata in precedenza. Ma all’epoca non l’avevo capito. Il suo viso si accartocciò sotto il peso della mia accusa, ma non arretrò di un passo.

«Non sono cinico», disse, controllandosi. «Sono… uno scienziato. Non puoi lasciarti trasportare dall’emozione nell’aula di un tribunale. Sto solo cercando di vedere le cose dal loro punto di vista. Ho pensato che parlare della meccanica del processo sarebbe potuto essere d’aiuto, è così che si analizzano le cose. Non tutte le discussioni devono per forza essere un attacco personale alla tua scala di valori. Sai qual è il tuo problema? Provi troppa compassione». Ora stava gridando. «Non puoi vivere immedesimandoti così tanto nelle faccende degli altri. Devi avere un filtro».

Iniziai a piangere a metà del suo discorso e pronunciai le parole successive quasi sputandole di bocca. «Se non altro io ho dei sentimenti cui mettere il filtro! Per lo meno io non sono un fottutissimo robot».

Ora Kit sembrava sul punto di ricacciare indietro le lacrime. Strinse i gemelli del padre nel pugno. «Non è corretto e lo sai».

Vacillammo sull’orlo della prima grossa frattura nel nostro rapporto finché Kit, abituato alla vita tranquilla, cedette.

«Ok», disse, «mi dispiace, non dovrei pensare a divertirmi. Mi rendo conto di quanto tu ci tenga, è solo che vediamo le cose in modo diverso, tutto qui». Mi diede un bacio sulla fronte. «Assisteremo al resto del processo, se è ciò che desideri. Due giorni, però. Non posso prendermi altro tempo dall’università».

«Grazie», dissi, notando con una punta d’irritazione che lui aveva ceduto troppo facilmente, anche se era quello che volevo. «Sento di doverlo a Beth, di andare a vedere cosa succede, per lei». Se lui aveva perso parte del mio rispetto, anche io avevo messo alla prova il suo.

Kit ripiegò la mappa, assecondando le pieghe della carta, quando invece la maggior parte della gente ci avrebbe litigato. «Penso che tu abbia già fatto abbastanza per lei», disse, infilando la cartina in valigia. Mi irrigidii, ma non c’era nessun sottinteso nella sua voce, e non mi rivolse alcuno sguardo eloquente. Era solo una frase neutra che avevo caricato della mia paranoia. «Comunque, non parliamone più», concluse chiudendo la cerniera. «Non è che Beth possa venire a saperlo. Ho sentito da Carol Kent che ha già lasciato la Cornovaglia. Non la rivedremo nemmeno più».

 

La verità sul caso Beth Taylor
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