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Laura

21 marzo 2015

 

La luce dello schermo mi fa male agli occhi, mentre controllo il telefono con la stanchezza di chi si è appena ripreso da una sbronza. È così che mi è sembrata la notte scorsa: surreale, onirica, al di là del mio controllo. Kit non ha risposto al mio messaggio furente e penso a lui, profondamente addormentato nella sua cuccetta, ignaro della tempesta che lo attende al ritorno a casa. Non so se ho più voglia di picchiarlo o di abbracciarlo.

Alle sette mi squilla il telefono e sullo schermo appare il suo viso; dovrebbe trovarsi a Newcastle in questo momento. Rifiuto la chiamata; questa è una conversazione che dobbiamo avere faccia a faccia. Un minuto dopo iniziano i messaggi.

 

Ti prego, rispondi.

 

Senti, lo so che può sembrarti la fine del mondo, ma possiamo superarlo.

 

Ti prego, piccola, parlami.

 

Vorrei che non lo avessi scoperto in quel modo, ma ti prometto che posso spiegarti, possiamo superare tutto quanto.

 

Mi dispiace così tanto.

 

Per lo meno è gratificante che comprenda la gravità di ciò che ha fatto e le potenziali conseguenze. Ma gli rispondo, tanto per farlo smettere.

 

Non mi va di parlarne per telefono. Ci vediamo a casa.

 

Mentre Ling si aggira alla ricerca dei suoi appunti sul caso e trova un paio di scarpe abbinate, io sfoglio il libro che Piper avrebbe dovuto leggere la sera scorsa, falsificando con cura la pagina apposita sul suo diario di lettura. Juno contratta con la madre per avere un altro litro di caffè sulla strada di casa. Madre e figlia sono l’incarnazione del paradosso della forza inarrestabile che incontra un oggetto inamovibile. È quello che devo aspettarmi anch’io. Mi domando ancora una volta se stia aspettando dei maschi o delle femmine, oppure entrambi.

Intercetto Juno mentre sta uscendo e le infilo cinque sterline nella tasca della giacca. Mi ricompensa con l’occhiolino e un raro bacio, prima di scomparire, lasciandosi dietro la scia prepotente di un profumo di marca. Dopo che Ling è andata in stazione, complimentandosi per la novità del riuscire ad andare al lavoro in orario, accompagno Piper a scuola, che dista una cinquantina di metri, la tengo per mano per attraversare la strada e mi godo la vecchia sensazione di piacere e orgoglio al pensare che gli estranei potrebbero scambiarla per mia figlia. Questa sarà la scuola dei gemelli e mi accorgo con una certa preoccupazione che l’ingresso dell’asilo è stato colonizzato da bionde in magliette a righe; la diversità etnica che si vede negli altri anni sta gradualmente scomparendo. Non approvo la pulizia sociale del mio quartiere, l’afflusso di giovani mamme ricche, anche se riconosco che per un estraneo io potrei essere una di loro.

Torno a casa di Ling. Asciugamani bagnati tappezzano il pavimento del bagno e mi ritrovo a riordinare il casino lasciato da Juno proprio come facevo quand’era bambina. Ho bisogno di una doccia e di vestiti puliti, ma casa mia non rappresenta più un rifugio impenetrabile. Mi trattengo ancora un po’, raddrizzando le foto alla parete e scaricando la lavastoviglie finché non mi sovviene, mentre mi chino con poca eleganza a recuperare i piatti, che ho un sistema a prova d’idiota per controllare dove si trovi Beth: il suo numero fisso e quello di Antonia che ho salvato sul cellulare. Chiamo Beth dal telefono di casa di Ling, nascondendo il numero. Squilla tre volte e poi sento un bip non appena alza la cornetta. Riattacco ancora prima che lei riesca ad articolare un “pronto”, libera di tornarmene a casa. Persino con un treno diretto o l’autostrada completamente vuota non potrebbe arrivare a casa mia prima di Kit.

 

La verità sul caso Beth Taylor
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