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Laura

30 luglio 2000

 

A luglio ottenni il lavoro dei miei sogni, un anno prima del previsto, come raccoglitrice di fondi per un ente benefico a favore dei bambini. Fu il lavoro che fece da trampolino di lancio per la mia attuale carriera, anche se oggi mi domando dove abbia trovato l’energia per lavorare bene. Era un’estate afosa e io e Kit ne trascorremmo gran parte in metro; se non stavamo cambiando mezzo, stavamo andando a Turnpike Lane per badare a Juno (io) o a Mac (lui). Ci facevamo due docce al giorno, alcuni dei nostri abiti scuri erano rovinati dal sudore salato e, quando ci soffiavamo il naso, il fazzoletto si tingeva di nero.

Beth era una presenza regolare nel nostro appartamento. A casa dei suoi, nel Nottinghamshire, era doppiamente reclusa, per la vergogna di essere stata identificata come la ragazza di Jamie Balcombe unita alla disavventura con il coltello, ma alla sua quattordicesima visita circa a Londra non mostrò alcun segno di voler esplorare la città, preferendo restare in casa. Fatta eccezione per il nostro incontro a Capo Lizard, non l’avevo quasi mai vista alla luce del sole. Non discutevamo se dovesse fermarsi da noi; era una delle tante cose accettate in silenzio.

Jamie mi scriveva due volte la settimana; le lettere arrivavano puntualmente il martedì e il venerdì. Il concetto di base era sempre il medesimo – ritratta la tua testimonianza adesso, prima che le cose per te si mettano peggio – ma mi raccontava sempre anche di altri sviluppi. Aveva messo su una bella rete di supporto, a quanto pareva; altri uomini “ingiustamente accusati” gli scrivevano a frotte. C’era un movimento per i diritti degli uomini preoccupato per ciò che percepiva come una tendenza delle donne a “gridare allo stupro”. E – intuivo la delizia nel tratto della sua penna – gli scrivevano anche delle donne. Donne che lui definiva “vere” vittime di violenza sessuale: ragazze che erano state violentate dai patrigni, drogate nei night club, stuprate da un branco sotto la minaccia di un coltello. Jamie non si lasciava sfuggire l’occasione di paragonare queste “donne coraggiose” alla mia codardia. Io strappavo le lettere e le distribuivo in vari cestini per casa o alla metro di Clapham Common. Iniziai a sperare che l’uomo con il rasoio nascosto nello spazzolino facesse una visitina a Jamie.

Ling finalmente aveva ottenuto la prescrizione medica che la strappasse alla sua depressione e aveva deciso che era arrivato il momento di mandare Mac in un centro di recupero. Quest’espressione americana ormai è entrata a far parte del linguaggio comune, ma allora era la prima volta che ne sentivo parlare, mentre ci ragguagliava sulle fasi del processo. Noi tutti – io, Kit, i genitori di Ling, Adele e un manipolo di consulenti trovati da Ling – dovevamo presentarci a casa loro uno per uno e dirgli che le cose dovevano cambiare. L’idea era che, vedendo la massa di gente cui teneva preoccuparsi per lui, sarebbe andato direttamente a farsi ricoverare. Kit non credette nemmeno per un momento che avrebbe funzionato, ma si accodò lo stesso; ci stipammo tutti nel minuscolo appartamento seminterrato, dove le sedie erano così poche che fummo costretti a sederci a turno.

C’era una falla nel piano di Ling: perché il nostro intervento funzionasse, Mac doveva essere fisicamente presente. E, mentre il sintomo principale della sua dipendenza si incanalava in sbornie che lo portavano lontano da casa per varie notti consecutive, le probabilità erano contro di lei. Aspettare che avvenga qualcosa di terribile è quasi più sfibrante che vederlo verificarsi, e dopo otto ore in cui Mac non rispondeva al telefono, figuriamoci presentarsi a casa, decidemmo di chiuderla lì. La metro era un forno e restammo bloccati tra due stazioni per venti minuti, odiando tutto quanto, odiandoci a vicenda, fino a che non riemergemmo in superficie.

«Oh, per la miseria», disse Kit, quando svoltammo l’angolo di Clapham Common Southside. «È l’ultima cosa che mi serve in questo momento».

Seguii il suo sguardo: un paio di scarpe da ginnastica argentate e graffiate e di caviglie bianche e snelle spuntavano dalla porta di casa. «Sapevi che sarebbe venuta?».

Reagii alla sua ostilità. «Ovvio che no».

Non mi era rimasto nulla per nessuno se non per Kit, e anche per lui era rimasto poco. La nostra giornata doveva intuirsi dalle nostre espressioni, ma Beth sembrò non lasciarsi toccare dal nostro esaurimento.

«Non posso restare molto», disse, facendoci strada su per le scale. Il violetto nei suoi capelli era già sparito; tinte pastello spezzavano la monotonia dei riccioli neri. Accarezzò la carta da parati con la mano e a un certo punto si bloccò sul pianerottolo per esaminarne una zona, dove si staccava dalla parete. «Devo prendere l’ultimo treno per tornare a casa. Penso di potermela cavare senza problemi, adesso; vi aspettavo prima». Io e Kit ci scambiammo uno sguardo perplesso; Beth non tornava mai a casa. Quando veniva qui, davamo per scontato che si fermasse per la notte.

«A casa?», chiese Kit, alzando i pollici e nascondendoli poi nei pugni, quando Beth si voltò, dando l’impressione di essere un pugile che si allenava salendo le scale.

«Finiscila», gli bisbigliai, ma ridevo.

«Sì», confermò Beth. «Ma volevo darvi la buona notizia di persona».

Doveva trattarsi dell’appello, immaginai; dovevano aver deciso di non procedere oltre.

«Racconta», la esortai. Intanto eravamo arrivati in cima alle scale e Kit si stava frugando nelle tasche dei jeans alla ricerca delle chiavi.

«Mi trasferisco a Londra!», disse Beth raggiante.

Per poco non mancai uno scalino. Kit si bloccò con la chiave nella serratura e seppi che stava pensando la stessa cosa mia: crede di trasferirsi qui.

«Dimmi di più», dissi guardinga.

«Be’, vi ho raccontato dell’atmosfera che c’è a casa. Sono agli arresti domiciliari, così sono andata in giro a cercare casa e un lavoro», disse con orgoglio. «Mi hanno presa da Snappy Snaps, dovrò lavorare nella camera oscura. La paga è da fame, ma è un impiego e ha a che fare con le foto. Ho dato un’occhiata e non posso permettermi niente qui in zona, ma mi sono accaparrata un monolocale a Crystal Palace. Così ora potremo vederci di più».

«È fantastico», dissi, anche se la mia gioia derivava dal sapere che ci saremmo viste meno, ora; o meglio, che potevamo scalare il grado di amicizia a qualcosa di meno intenso e più normale. Ci saremmo potute incontrare per un’oretta per un caffè o una sera per cena, per poi tornare ognuno a casa propria.

«Ah, solo un’ultima cosa, voglio ringraziarvi per avermi ospitata. So che avete detto di non continuare a darvi cose, ma questa è l’ultima, promesso». Il suo sorriso era timido e simile a quello di una bambina. «Per favore, non ditemi che non avrei dovuto».

Il regalo che mi diede era stato attentamente avvolto in carta regalo William Morris e legato con un fiocco vero. Sembrava un libro, ma quando lo aprii trovai una sottile cornice in legno di pino con dentro…

«Gesù», sbottai.

Era una fotografia di me e Kit, chiaramente scattata dalla soglia della camera da letto. Quando? Un mattino presto, senza dubbio, mentre stavamo ancora dormendo. Un raggio di sole all’alba filtrava dai tasselli di bambù della persiana, disegnandoci un motivo tigrato sulla pelle. Le coperte erano a metà, come se fossero state tirate giù, ed eravamo esposti dalla vita in su. Io ero sdraiata sulla schiena, mentre Kit giaceva su un fianco, mezzo rannicchiato contro di me. Il suo braccio mi copriva i seni, mentre con il pugno mi stringeva i capelli come un bambino potrebbe fare con un peluche. Mi coprii d’istinto il corpo e Kit trattenne il fiato; sentivo la rabbia emanare da lui a ondate.

«Che ne pensate?». Il nostro silenzio si protrasse e gli occhi di Beth iniziarono a perdere il loro bagliore.

Non potevo usare la parola “violazione” considerato ciò che aveva dovuto passare, ma non c’era altro modo di descrivere come mi ero sentita a vedermi così.

«È molto… intima», dissi, alla fine.

«Lo so!», disse. «Scatti del genere non possono essere pianificati, ma la porta era aperta, così quando sono andata al bagno non ho potuto fare a meno di vedervi e la luce era così…». Fece il segno di ok con le dita della mano. «E c’era la tua macchina fotografica lì vicino, Kit». Lui strinse le labbra in una linea furente; era più irritato al pensiero che lei gli avesse toccato la sua preziosa fotocamera che alla vista della fotografia stessa. Beth proseguì incurante: «E ho pensato all’altra foto che vi ha scattato la vostra amica e a quello che hai detto del non essere consapevole e non ho saputo resistere. Oggi sono andata in quel negozio al parco che sviluppa e stampa le foto». La sua voce calava di volume alla fine di ogni frase. «Ho usato una velocità dell’otturatore molto bassa. L’obiettivo è…». Scrollò la testa, con la voce ridotta a un sussurro. «Non vi piace». Scrutò i nostri visi e vi lesse la cosa sbagliata. «Sostituirò la pellicola», disse, completamente nel torto. «Era solo di Boots. Mi dispiace, Kit, non avevo nemmeno pensato che potessi accorgerti che era sparita».

«Non c’è problema», dissi, ma il silenzio di Kit era più eloquente di mille parole.

Beth si diede una manata sulla fronte. «Credevo che l’avreste capita, che l’avreste adorata».

«Mi piace, davvero», dissi, afferrandole il polso nel caso volesse colpirsi di nuovo. Mi ero dimenticata quanto morbida fosse la sua pelle. «È solo inattesa, tutto qui».

Si divincolò dalla mia presa. «So essere un po’ irruente», ammise, rivolgendosi alla finestra. Sembrava che se lo fosse ripetuta in più di un’occasione. «Ho frainteso la situazione, mi dispiace».

Più tardi, dopo un saluto imbarazzato, io e Kit aspettammo in silenzio che la porta sulla strada si chiudesse alle sue spalle, incerti se ridere o gridare.

Kit tenne la fotografia incorniciata a distanza di braccio. «Come diavolo ha potuto pensare che fosse ok, a qualsiasi livello?»

«Be’, immagino che i suoi parametri di giudizio siano un po’ sballati, dopo ciò che ha passato». Per quanto ne sapessimo era sempre stata così diretta, aveva sempre avuto questi confini molto labili. O forse era solo una reazione alle sue traversie, era stata messa a nudo a tal punto da aver deciso di lasciare i nervi scoperti nella speranza che un giorno, finalmente, si desensibilizzassero. Era il trauma di Beth. Se era la sua maniera di gestirlo, chi eravamo noi per giudicare?

«E se il mio pene fosse stato esposto?», chiese Kit.

Mi misi accanto a lui e studiai con attenzione la foto; era più semplice senza il peso delle aspettative di Beth.

«Siamo usciti bene, però». Sorrisi. «Se non pensi al lato incredibilmente inquietante della cosa, è bella, in effetti. Non avevo idea che dormissi stringendomi i capelli in quel modo».

«Io nemmeno», disse lui, addolcendosi. Mi accarezzò la coda di cavallo.

«Potremmo guardarla quando saremo vecchi e rugosi», dissi. «Ricordarci come eravamo un tempo. So che non è il genere da esporre sul caminetto, ma mi piacerebbe conservarla».

La sistemammo a faccia in giù nella cassettiera in camera da letto. Fu una delle cose che perdemmo quando fuggimmo a nasconderci e ora non ho idea di dove sia finita.

Col senno di poi, Kit aveva ragione e io avrei dovuto essere ferma, ma giusta, alla prima occasione, quella volta in cui era venuta a trovarmi al lavoro. Non avrei dovuto lasciarla entrare nelle nostre vite. Avrei dovuto mantenere una relazione adeguata, per usare una parola antiquata.

Quella notte, a letto, non riuscii a prendere sonno. Ero troppo consapevole del modo in cui apparivo, consapevole di essere nuda. Solo quando scesi dal letto e mi misi addosso qualcosa riuscii finalmente a rilassarmi. Feci strani sogni – la sensazione di essere osservata, di una figura sulla soglia della porta – che attribuii alla fotografia di Beth. Non mi ero ancora resa conto che il mio malessere derivava da qualcosa che andava oltre la sua violazione. Era la prima avvisaglia di qualcosa di troppo grande, profondo e oscuro per essere nascosto in un cassetto o gettato in un cestino per la strada. Qualcosa che non ero ancora pronta a definire.

 

La verità sul caso Beth Taylor
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