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Laura

20 marzo 2015

 

«Perché siete tutti così determinati a farmi mangiare?».

Ling è familiare con la mia cucina quanto io lo sono con la sua; senza guardare, prende un mestolo dal cassetto e rovescia la zuppa di pollo e granturco in un paio di scodelle.

«Seduta», ordina.

«Facile per te dirlo». Invece di un tavolo in cucina abbiamo un banchetto incuneato in un angolo, come qualcosa che troveresti in un fast food, con panche di pelle da entrambi i lati di una superficie di formica così vecchia che c’è un varco di un centimetro dove si è staccata dalla parete pieno di porcherie e briciole. Lo affronterò la settimana prima che nascano i bambini, quando secondo tutti mi verrà una voglia improvvisa di pulire le finestre e sprimacciare i cuscini. Da qui riesco a vedere l’intera cucina. «Non rimetterò piede qui dentro finché non saranno usciti i bambini», dico, sentendo la pressione.

Ling mi sistema la scodella davanti e mi guarda mentre non mangio, a braccia incrociate.

«Vorrei volerla».

Corruga la fronte, preoccupata. «La perdita di appetito non è uno dei primi segnali d’allarme?»

«Oddio, ah, sì? E di cosa?»

«Dell’ansia. Perché, cosa credevi?»

«E se la ragione per cui non ho fame è che i bambini non stanno crescendo nel modo corretto? O peggio?». Ling non aveva bisogno che dicessi ad alta voce cosa potesse implicare quel “peggio”. C’era stata tutte le volte in cui non aveva funzionato.

«Tesoro, sei un fascio di nervi», mi dice. Ed è vero; ma non conosce metà della storia. «Stavo come te in entrambe le mie gravidanze. È normale, te lo giuro. Senti, stiamo uscendo per andare a fare l’ecografia. Se ci fosse un’emergenza non potrebbero visitarti prima di così. Vedrai che ti metterai l’anima in pace, te lo prometto – mi stai ascoltando?».

Sollevo lo sguardo dal telefono.

«Scusami, sì. Grazie», le rispondo, ma so che non mi rilasserò finché non sentirò la voce di Kit. Sono passate due ore dall’eclissi ormai, un tempo più che sufficiente per trovare un posto dove c’è segnale. Lui crede che una volta che arriveranno i bambini, li porteremo a inseguire le eclissi con noi; ha già in programma una gita di famiglia negli Stati Uniti per il 2017, ma se io sono così ansiosa al pensiero di lui in giro da solo, come farò a scendere a patti con il fatto di dover badare a due bambini piccoli in mezzo alla folla? Sarò troppo paranoica per alzare gli occhi al cielo, anche solo per un secondo. Non voglio essere una di quelle madri chiocce e asfissianti che si vedono per la strada, per quanto le mie paure siano giustificate.

Allontano la zuppa senza averla toccata. Mentre sto per uscire, il tizio delle consegne mi intercetta con un pacco della Mothercare per Ronni, la vicina.

«E se fosse un presagio?», dico a Ling. Me lo toglie di mano e lo stringe.

«A me sembra più un paio di stivali di gomma. Coraggio, andiamo a fare quest’ecografia».

Le ultime rate della fecondazione in vitro sono state pagate privatamente, ma ora che sono incinta mi sono rivolta di nuovo al servizio sanitario pubblico e al North Middlesex Hospital sulla North Circular Road. Come ci si aspetti che qualcuno possa riprendersi da qualsiasi cosa abbia avuto accanto a una delle strade più inquinate di Londra non è dato sapere. Come al solito sa di pollo andato a male e disinfettante per le mani. Quando arriviamo, i bambini stanno facendo la lotta dentro la mia pancia. Non ho ancora avuto notizie di Kit e con riluttanza obbedisco al cartello che invita a spegnere il cellulare.

Il mio medico, Mr Kendall, è uno specialista di gravidanze multiple. Mi segue fin dal principio e sarà lui a far venire alla luce i miei figli. (Tutti, persino Ling, presumono che mi senta defraudata di un parto naturale, ma in verità è una cosa in meno che sfugge al mio controllo e sono felice che qualcuno abbia preso la decisione al posto mio). Le mani impeccabili di Mr Kendall – deve rivolgersi a un professionista della manicure – mi ispirano fiducia.

«Niente Christopher, oggi?», mi domanda, le sue unghie brillano mentre digita alcune cifre sulla tastiera.

«È andato a guardare l’eclissi alle Fær Øer», gli spiego. «L’ultimo grande viaggio prima dell’arrivo dei bambini».

«Oh, sì», dice. «Ho sempre voluto vederne una. Nel 1999 portammo i bambini a quella della Cornovaglia, probabilmente prima dei vostri tempi. Fu un fiasco totale, comunque».

Sorrido e mi sdraio, preparandomi al contatto con il gel fresco. Ormai sono un’esperta.

«E cosa mi dici di te?», mi chiede Mr Kendall. «Quando hai intenzione di rallentare?».

In verità lavorerò proprio fino al termine. Abbiamo bisogno di soldi.

«Presto», gli rispondo.

Mr Kendall tiene lo schermo lontano da me, mentre fa scivolare la sonda sopra l’ombelico sporgente e analizza la misurazione. A Kit piacerebbe; è il genere di progresso quantificabile con cui riesce a entrare in sintonia. Devo farmi dare una stampa dei calcoli, oltre che della fotografia.

«Stanno crescendo entrambi bene», dice Mr Kendall. «Le placente sono al posto giusto, così come gli ombelichi. Sei sicura di non voler sapere il sesso?».

Giro la faccia. Ho deciso di volere la sorpresa fin dall’inizio, per dimostrare a Kit che, in effetti, sono in grado di vivere tranquilla. Anche se Kit non mi ha mai definito una maniaca del controllo, mi ha pregata di lasciarmi andare, di prenderla con calma, di rilassarmi e, una volta, con orrore di entrambi, di stare scialla, più volte di quante riesca a ricordare.

«Oh, be’, questo è decisamente u…».

«No!».

Sia Mr Kendall sia Ling sembrano essere colti di sorpresa dalla veemenza della mia reazione. Io la butto sul ridere.

«A dire il vero vogliamo crescerli senza stereotipi di genere. Vestitini arancioni. È un esperimento». L’ho scampata, ma per un soffio. È un sollievo uscire di lì.

Ling mi dà un passaggio fino a casa.

«Sei sicura che te la caverai da sola?», mi chiede, anche se so che lavorerà fino a tardi per recuperare il tempo perso ad accompagnarmi.

«Starò bene», le dico, chiudendo la portiera.

«MANGIA QUALCOSA!», mi grida dietro, prima di partire.

Di nuovo a casa, dalla comodità soffice del divano mando una foto dell’ecografia a Kit; mi risponde su FaceTime. Si trova in un bar o un posto simile, con ombre scure sullo sfondo, il bordo di un boccale di birra nell’inquadratura sul tavolo davanti a lui. Il segnale è intermittente; il suo viso appena rasato continua a trasformarsi in quadretti e il motivo bianco e nero del suo maglione faroese somiglia a un codice a barre. Persino così spezzettato in pixel scorgo il rimorso sui suoi lineamenti. La mia rabbia comincia ad affievolirsi. Non voglio che litighiamo ancora. Per una volta, sono io la prima a sotterrare l’ascia di guerra.

«Non sono bellissimi?». Il calore nella mia voce è autentico.

«Tutto come dev’essere?», mi chiede. «Stanno crescendo bene? Niente corna o coda?»

«Sono perfetti». Mi rivolge un timido sorriso. Solo adesso mi torna in mente perché stiamo avendo questa conversazione al telefono e non di persona. «Scusami, tesoro, dimmi dell’eclissi. C’erano molte nuvole?»

«La peggiore mai vista finora», risponde mestamente. «Che mi dici di Londra?»

«Uno schifo».

«Peccato», dice. La voce di Kit è priva di emozione e il mio sistema d’allarme si attiva. Cerco indizi sul suo viso, ma è buio e la qualità dell’immagine è pessima.

«Qualcosa non va», dico. «È successo qualcosa per colpa di quel maledetto video».

«Non è stato il video», dice.

Quindi qualcosa non va davvero. Sento le prime avvisaglie di prurito sulla pelle. «Cosa non è stato il video? Che sta succedendo?».

Il segnale salta di nuovo; le sue parole gracchiano e stridono come il canto di un delfino.

«Senti, non preoccuparti. Presto sarò di nuovo a bordo e potremo rilassarci entrambi».

Mi gratto il braccio con cui reggo il telefono. «Perché non puoi rilassarti sulla terraferma? Kit?». Sento la mia voce farsi più acuta e assumere un tono da interrogatorio. So che è come pungolare l’antenna di una lumaca; non farà che chiudersi nel suo guscio, ma non posso farne a meno. «L’hai vista?»

«No».

«Non rispondermi a monosillabi».

«Smetti di analizzare troppo le cose», ribatte lui. «Mi conosci, tendo sempre a deprimermi ogni volta che il cielo è coperto dalle nuvole».

«Giura sui nostri figli che non è successo niente».

La connessione salta per un secondo, perciò non so se la pausa prima di «giuro» sia a causa dell’esitazione, se me la sono immaginata, oppure se è colpa del ritardo satellitare, e poi sparisce.

La gravità di quello che ho fatto mi colpisce in pieno. L’ho fatto giurare sui nostri figli non ancora nati. Kit non è superstizioso e direbbe qualsiasi cosa per impedirmi di avere un attacco di panico. Ho sfidato la sorte. Mi tocco la pancia con la mano e aspetto di sentire un calcio, ma non succede niente.

La verità sul caso Beth Taylor
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