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Laura

30 maggio 2000

 

«Cosa stai facendo?», bisbigliò Beth, mentre salivo le scale in punta di piedi e cercavo di passarle accanto senza fare rumore. Era un sabato ed eravamo rimasti tutti addormentati. Dal cuscino mi era sembrato di aver sentito il rumore della buca delle lettere; da quando Jamie aveva iniziato a scrivermi, mi ero abituata a essere la prima a scendere la mattina. Non potevo rischiare che Kit intercettasse una lettera dalla prigione. Mi sedetti sul bordo del futon, con in mano l’estratto conto della banca e il volantino pubblicitario di una pizzeria.

«Mi piace essere la prima ad andare a prendere la posta», dissi. «È una cosa che faccio, un’abitudine, mi dà conforto». Stavo spiegando troppo, senza spiegare niente.

«Oh», commentò Beth. «È bello».

«’Giorno». Kit si fermò titubante sulla soglia della nostra camera da letto. Avevo cercato di chiudermela alle spalle, ma era rimbalzata sui cardini come al solito. «Dio, è tardi».

«Oggi andrò a Londra», disse Beth con decisione. «Ho delle cose da sbrigare».

«Pensavo che non conoscessi nessuno in città», disse Kit.

«Infatti è così». Sorrise. «Qui sta il divertimento. Posso fare cose normali senza dovermi preoccupare che qualcuno parli di me. Posso camminare per Oxford Street senza incrociare un’anima che sappia chi sia».

Dopo colazione, ci sporgemmo dal balcone e la osservammo andare via. Indossava un prendisole con stampate sopra delle giunchiglie e le stesse vecchie scarpe argentate che aveva anche in Cornovaglia.

«Quanto tempo ha intenzione di fermarsi qui, di preciso?», disse Kit, sorridendo a denti stretti, mentre lei si girava a salutare.

«Non ne ho idea», dissi. «Ma lo vedi quanto ha bisogno di noi e non posso sbatterla fuori dopo quello che ha passato». Kit si stropicciò gli occhi con le nocche delle dita. «Non ti sto chiedendo quello, è solo che non è il momento ideale per fare complimenti in casa mia».

«È qui da appena quattro giorni. Gesù, Kit, ti comporti come se preferisca lei a te. Non è una situazione del genere».

La rabbia montò sul suo viso. «Ah, no?».

Esplosi. «Sai che c’è? Se non impari a manifestare un po’ di empatia potrebbe diventarlo».

Le mezzelune violacee sotto i suoi occhi iniettati di sangue parvero scurirsi e desiderai rimangiarmi ciò che avevo detto. Mi resi conto per la prima volta che aveva un aspetto malandato, trascurato. Indossava da giorni la stessa maglietta e i capelli stavano iniziando ad arricciarsi intorno al collo. Si voltò a guardare il parco.

Stavo per chiedergli scusa quando sbottò: «Se fossimo identici, pensi forse che sarei come Mac? Come papà?».

L’apparente mancanza di collegamento logico mi provò che i nostri pensieri correvano in parallelo e mi costrinsi a interpretarli. Il momento per parlare di quella stupidaggine di “io o Beth”era passato per sempre. «Oddio, Kit, non lo so. Non ne so abbastanza».

«Certe volte vorrei quasi esserlo. No, non è quello che intendo. Vorrei entrargli dentro e capire come funziona il suo cervello. Se è come quello di papà…».

«Ehi». Presi la mano di Kit. Il suo palmo era caldo, asciutto e liscio. «Mac è anni e anni più giovane di quanto non fosse tuo padre e poi ha noi. Lo prenderemo in tempo». Restammo in silenzio per un po’, mentre Kit fissava nel vuoto e io osservavo la strada dal balcone: era invasa dagli autobus rossi.

«Per quanto riguarda Beth», buttai lì, quando pensavo che fosse passato abbastanza tempo. Lui non disse niente, ma avvertii la sua irritazione dal modo in cui mi strinse la mano. «No, stammi a sentire. Volevo solo dire, per oggi passiamoci sopra, ok? Coraggio, tu hai la tua causa persa e io la mia».

Voleva essere una battuta, ma finii per offenderlo.

«Come puoi paragonare le due cose? Mac è il mio gemello».

Sapevo che non c’era verso di far capire a Kit il legame che sentivo con Beth. Non si può competere con il sangue.

 

«Ciao, tesoro, sono tornata!», disse Beth ridendo per le scale. Kit limitò il suo moto di stizza al sollevare gli occhi al soffitto. La sporcizia cittadina le incrostava leggermente la pelle ed era carica di buste del 7-Eleven colme di cipolle, barattoli e vino. Dalla cima spuntava un mazzolino di citronella fresca.

«Cucinerò per voi», disse. «Non potete dire di aver vissuto finché non avete provato il mio curry verde thai».

«Adoro la cucina thai», dissi abbastanza forte da coprire l’irritato commento di Kit: «Non c’è bisogno, davvero».

Se Beth l’aveva sentito, scelse di ignorarlo. «Abbiamo qualcosa da festeggiare. Mi ha chiamato l’avvocato: le foto sono state tolte dal sito».

«È un’ottima notizia», dissi.

«C’è la possibilità di fare causa, ma non so se mi va. Preferirei lasciarmelo alle spalle, sapete. Ne ho abbastanza di avvocati e tribunali». Sistemò gli ingredienti – riso thai, latte di cocco, radice di zenzero, tre grossi petti di pollo – sul bancone della cucina e poi frugò dentro la sua enorme borsa. «Vi ho preso una cosa», disse, improvvisamente timida. «Per ringraziarvi di avermi lasciato restare e…», mi lanciò uno sguardo complice, «in generale per esservi prodigati per me. Prima a te». Tirò fuori un pacchettino grande quanto un mattone e mi guardò trepidante in attesa che lo aprissi. Capii ancora prima di avere finito di scartarlo che si trattava di una candela Blood Roses. Nel 2000 le candele profumate non erano ancora così diffuse come oggi, e non era facile trovare Blood Roses in giro se non in un negozietto imboscato a Marylebone. Beth doveva aver memorizzato l’etichetta e fatto i compiti. Mi aveva comprato un set regalo, con lo stoppino non rifilato. Il profumo dolce e inebriante riempì la stanza ancora prima che l’accendessi. Dovevano esserle costate almeno cento sterline.

«Wow», dissi. «Grazie».

«Be’, è colpa mia in realtà. La prima notte mi sono addormentata con la candela accesa e l’ho fatta bruciare fino alla fine». Fece un gesto contrito in direzione del bicchiere di vetro vuoto sulla mensola. «Adoro le fiamme e il profumo era così rilassante».

Kit socchiuse gli occhi: era il suo compito fornirmi le Blood Roses. Gli restituii lo stesso sguardo imbronciato; Beth non poteva sapere di avergli usurpato un diritto.

«E questo è per te, Kit. È solo di seconda mano, ma in condizioni perfette». Era l’obiettivo di cui gli aveva parlato. «È fantastico in condizioni di scarsa visibilità». L’aveva lasciato senza parole. «Ne hai già uno». La sua voce parve restare sospesa nell’aria.

«No, non ce l’ho», disse lui piatto. «Grazie».

«Penso che Kit si senta in imbarazzo, perché…». Lo guardai, ma mi fu impossibile decifrarlo. «Penso che si senta in imbarazzo perché non c’è bisogno che continui a ringraziarci».

«Esatto», disse lui. «In tribunale non abbiamo fatto altro che dire cos’abbiamo visto». Il suo tono era distaccato, il che significava che era in grande imbarazzo.

«No», disse Beth. «Mi avete salvata, in molti modi. Mi avete salvata». Cadde un silenzio imbarazzato dopo quelle parole, spezzato solo quando Beth si scrollò come un cane bagnato che cercasse di asciugarsi il pelo. «Be’!», disse allegra. «La cena non si preparerà da sola».

Mentre triturava e sminuzzava, misi su un po’ di musica e sistemai le tre candele sulla mensola. Dopo un paio di bicchieri di vino, Kit tirò fuori il teleobiettivo e lo montò sulla camera, incapace di nascondere il piacere per il suo nuovo giocattolo.

 

Eravamo sdraiati sul letto in camera nostra, che non diventava mai del tutto buia, nella speranza che lo spiraglio della porta non lasciasse scappare i nostri sussurri.

«Quanto le sarà costato l’obiettivo?», domandai. «Tipo un centinaio di sterline?»

«Fai anche un migliaio. Sale fino a tre, se è nuovo di zecca».

«Cosa?»

«Lo so», disse. «È come se stesse cercando di comprare il nostro sostegno».

Cercai di guardarlo negli occhi, ma erano solo due lustrini nella penombra. «Come potrebbe comprarci? Abbiamo già testimoniato».

«Allora sta cercando di tenerci dalla sua parte. Sono preoccupato che spunti qualcosa in questo appello e che si finisca per fare un altro processo. E avendola qui invalideremo il tutto».

«Solo se diciamo a qualcuno che è stata qui. A meno che non abbiano ingaggiato un detective privato per seguirla, chi potrebbe venirlo a sapere?».

Kit s’irrigidì e capii che era un tentativo per non alzare troppo la voce. «È di questo che avevo paura, essere trascinati in una serie di bugie. Una bugia finisce sempre per richiederne un’altra e un’altra ancora. È già iniziato. Se non sei completamente onesto fin dal principio, sei fregato». Agghiacciata, mi ricordai che non stava parlando del mio viaggetto segreto in tribunale. Gli misi una mano sul petto per calmarlo.

«Le serve solo un amico».

«Laura». Mi prese la mano. «Come puoi aspettarti di creare un legame di amicizia genuino con una persona che hai incontrato in quel modo? Penderà sempre su di te. Hai già fatto più che abbastanza».

«Cosa vuoi?». La mia voce minacciò di uscire più forte di un sussurro. «Vuoi che vada a dirle di andarsene?».

Kit mi azzittì e poi disse: «Onestamente? Sì. Non ho spazio per questo nella mia testa, figuriamoci nel mio appartamento. Mi costa già molto badare a mio fratello. Non sono come te, non voglio soccorrere ogni orfanello e ogni randagio che trovo».

«Hai detto…», dissi faticando a controllare la voce, «tu hai detto che era la cosa che amavi di me, quando ci siamo messi insieme. Che mi importava delle cose, dei problemi, delle persone».

Si riaccasciò sul cuscino. «Sì», disse. «L’ho detto, ed è ancora così. Ma certe volte vorrei che riservassi la stessa attenzione che riservi alle tue cause alle cose un po’ più vicine a casa».

Mi voltò le spalle. Nella stanza a fianco, Beth si girò nel letto e il futon cigolò, ricordandoci, come se ce ne fosse bisogno, che non eravamo soli.

 

La verità sul caso Beth Taylor
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