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Laura

20 marzo 2015

 

Il primo contatto è previsto per le 08:20. La radio locale dice che la capitale «sprofonderà nell’oscurità all’ora di punta». Potrei guardare l’eclissi parziale, come la si vedrà da Londra, dallo studio, ma anche con le finestre aperte sul cielo bianco mi sembra ingiusto assistervi da dentro un edificio.

Mi raccolgo i capelli in una treccia sottile che mi arriva fino alla vita, poi l’attorciglio in uno chignon. Nascondermi i capelli è la mia seconda natura ogni volta che esco di casa. Sono come una donna la cui religione la obbliga a coprirsi il capo in pubblico; solo mio marito mi vede con i capelli sciolti. L’alternativa sarebbe tagliarli o smettere di decolorarli, ma lei si è già presa fin troppo della mia anima. Non le darò anche questo.

Decido di fare una passeggiata per il quartiere, per assorbire un po’ l’atmosfera, ma non ce n’è. Lungo tutta Green Lanes, le auto strombazzano e i camion scaricano come al solito. La sala da biliardo è chiusa a quest’ora del mattino. Ho smesso di andarci qualche mese fa, quando la mia pancia cominciava a diventare troppo grande per il tavolo. C’è solo un numero limitato di tiri a effetto che si possono realizzare con una stecca dietro la schiena.

L’unico indizio di un’eclissi imminente non si trova nelle stelle, ma nei canali di scolo. Una copia gettata via del «Metro» è aperta su un articolo dal titolo: «Farsi un selfie con il sole potrebbe accecarvi», mettono in guardia gli scienziati. Non vi è nulla di drammatico sopra le nostre teste se non una strana luce violetta che avrei potuto imputare a un temporale imminente, se l’avessi notata. È solo a Duckett’s Common, dove un manipolo di persone tiene in mano degli occhiali, che si intuisce che stia per accadere qualcosa di speciale. Resto lì, con i piedi ben piantati a terra e le mani sulla pancia. La capitale non sprofonderà nell’oscurità: c’è a malapena penombra. Anche i bambini condividono il mio senso di delusione e restano addormentati tutto il tempo.

Di nuovo a casa, trovo una busta di Bone/Bean sui gradini e un biglietto che mi informa che Juno e Piper sono passate con Mac per portarmi la mia dieta liquida mattutina. Avverto una fitta al cuore per essermi persa la loro visita. Il caffè è ancora abbastanza caldo, ma rovescio il brodo di midollo nel lavandino e riempio il frigo con i succhi. Il computer al piano di sopra mi sta chiamando – devo scrivere un rapporto – ma so che oggi non combinerò niente. Continuo a controllare il telefono, aspettando notizie da Kit, e mi costringo a restare calma quando non ne ricevo. Mi ha detto una mezza dozzina di volte che probabilmente non avrà segnale per tutto il mattino. Controllo i messaggi e osservo ancora una volta la sua foto da appena sbarbato; un gesto carino volto a tranquillizzarmi, ma che, in realtà, mi ricorda perché mi sono così arrabbiata con lui.

Accendo la TV. La donna alla BBC dice che le condizioni alle Svalbard erano perfette, ma che Tórshavn è stata un fallimento. Mi dispiace per Kit, ma provo anche rabbia; che peccato. Tutto questo stress, tutto questo rivangare il passato, tutto il denaro speso e una delle peggiori discussioni che abbiamo avuto per cosa? Senza un’eclissi pulita a giustificare il tutto, mi sento tradita. È stato tutto invano.

Il telefono squilla.

«Una delusione totale», esordisce papà.

«E pensare che a nord doveva essere bel tempo», dico.

«Si è appena appena scurito», ammette. «Com’è andata a Kit?».

Mi rendo conto che io e Kit non ci siamo più rivolti la parola dopo la nostra discussione. E se fosse stata la nostra ultima conversazione? All’improvviso mi sento dilatare dall’interno, come se qualcuno mi stesse gonfiando un palloncino in bocca. Voglio dirgli quanto sia stato sciocco Kit, come abbia praticamente detto a Beth dove trovarlo, ma non posso, perché è tutta colpa mia.

«Papà?», dico, sorprendendo entrambi.

«Tutto ok, tesoro?». La preoccupazione nella sua voce fa scoppiare il palloncino. Se la mia determinazione si incrina anche solo un po’, finirò per spiattellare ogni cosa.

«Tutto bene», rispondo. «Solo un po’ di acidità di stomaco. Non gli ho ancora parlato, ma non sembra promettere bene», riesco a dirgli.

«Che peccato», commenta distratto. «Senti… 1 orizzontale: la cosa sbagliata per le ragioni giuste (7,5,9)».

Non ne ho idea. La parte analitica del mio cervello è stata temporaneamente sostituita da quella responsabile della paranoia e dei presentimenti.

«Ci devo pensare», gli dico.

«Mi raccomando. Da questa definizione dipendono le prime lettere di altre cinque parole». Si schiarisce la voce. «Come stanno i miei nipotini?»

«Bene, immagino». Proprio in quel momento un piedino spinge contro le pareti del mio stomaco. Abbasso una mano come se volessi fargli il solletico. Ci accordiamo perché mi venga a trovare il prossimo fine settimana; all’angolo ha aperto un nuovo ristorante turco dove voglio portarlo. Dopo averlo ragguagliato sul mio pomeriggio e aver sentito gli ultimi sviluppi della sua campagna elettorale ormai segnata, arriva per me il momento di andare in ospedale. I miei appunti sulla maternità sono tutti belli ordinati in un raccoglitore accanto al computer.

Alle undici controllo il telefono, ma ancora nessun segno di Kit. Iniziano a prudermi le braccia, anche se mi ha detto di non aspettarmi chiamate prima di pranzo. Mi abbasso le maniche fino ai polsi e infilo gli appunti nella borsa.

La soluzione della 1 orizzontale mi arriva in quel momento. La cosa sbagliata per le ragioni giuste (7,5,9): piccola bugia innocente.

 

La verità sul caso Beth Taylor
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