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Kit
11 agosto 1999
L’eclissi mi diede un po’ di tregua da Beth. Ero convinto, poco prima di essere brutalmente smentito, ovvio, che durante l’ombra tutta l’attività e le motivazioni umane esterne finissero in una specie di sospensione animata. Anche se era nuvoloso, eravamo immersi in una cangiante luce violetta che saliva dall’orizzonte e con il cielo in quelle condizioni mi sembrava che gli altri miei sensi si fossero acuiti in un modo mai sperimentato prima. E Laura era accanto a me, cosa che faceva tutta la differenza del mondo.
Dopo il quarto contatto, scendemmo dal tettuccio e attraversammo il parcheggio desolato, disseminato delle componenti vitali dell’attrezzatura del luna park. Di nuovo in guardia, ero troppo impegnato a guardarmi alle spalle per notare il borsellino a terra, ma Laura lo vide e non poté ignorarlo più di quanto chiunque altro potesse ignorare un gattino abbandonato. Colsi l’opportunità per scandagliare gli alberi intorno a me alla ricerca di un paio di occhi indagatori, ma non ne trovai.
Laura si era assentata più a lungo del normale e ricordo di aver avvertito una certa frustrazione. Quando la chiamai non ottenni risposta e la frustrazione si tramutò in terrore, o forse ci ho pensato solo in seguito? Tornai sui miei passi fino al parcheggio dei camper, oltrepassai una vecchia macchinina degli autoscontri e una giostra sinistra.
L’uomo che più avanti avrei conosciuto come Jamie Balcombe camminava all’indietro verso di me e mi calpestò con forza un piede. Persino in quel breve incontro mi accorsi di quanto fosse più robusto di me. Al mio grido di protesta, saltò come se avesse ricevuto una scarica elettrica. Laura se ne stava in piedi, con il viso di un pallore cinereo, nel corridoio buio tra due camper. Cosa le aveva fatto?
«C’è una ragazza». Laura interruppe il mio crescente orrore con voce tremante. «Credo che sia stata…». Deglutì. «Credo che sia stata aggredita».
«È ferita?», le chiesi. Laura mi rivolse uno sguardo raggelante. «Nel senso, credi che abbia bisogno di soccorso immediato?».
Non so perché lo chiesi. Nessuno di noi due aveva nozioni di primo soccorso.
Della vittima, il cui corpo era raggomitolato dietro la porta di un camper, non vedevo altro che un ginocchio bianco piegato e insanguinato. Povera, povera ragazza. Era orribile che una donna potesse venire aggredita in qualsiasi circostanza, ma sconcertante che accadesse durante un’eclissi totale. Era come tornare al Medioevo, quando la gente farneticava e inorridiva alla presenza dell’ombra. Che pessimo tempismo, che spreco.
Penso – e credo che sia di nuovo una questione di retrospettiva, perché da quel punto in poi le cose sono accadute così in fretta che ho avuto il tempo di reagire solo ripensandoci in un secondo momento – che Jamie non mi piacque subito. Quando disse a Laura di darsi una calmata, lei mi guardò in cerca di protezione; non l’aveva mai fatto prima.
«Se non ha fatto niente di male, non ha nulla di cui preoccuparsi», gli dissi. Doveva essere un modo per allentare la tensione, ma Jamie dovette interpretarlo come una minaccia. «Per favore, vuoi dire qualcosa, cazzo, così possiamo andare tutti avanti con le nostre vite?», sibilò in direzione della spalla di Laura. Mi guardò alla ricerca di solidarietà e io non riuscii a fare altro che fissarlo. Avevo una fotocamera a tracolla, ma non mi venne in mente di usarla; invece, mi scoprii a cercare di memorizzarlo per un identikit, ma aveva un aspetto del tutto sbagliato. Le foto segnaletiche che si vedevano alla televisione erano sempre di ceffi con la mascella squadrata e il naso rotto. Mi pareva inconcepibile che gli schedari potessero contenere il profilo di uno con il viso da ragazzino e le sopracciglia curate, che si abbassarono quando si rese conto che non si era fatto un alleato. «’Fanculo», disse e fece per andarsene, a passo controllato ma falcate tutt’altro che casuali. Anche se il suo volto era giovanile, la costituzione non lo era. Le spalle erano grosse il doppio delle mie. Vi riconobbi il fisico falsamente snello del vogatore; Oxford ne era piena: corpi leggermente sovrasviluppati a discapito dei cervelli. Già fuori dal mio elemento, mi sentii annaspare ancora di più.
«Kit, non lasciarlo scappare!», disse Laura, agitando le mani in aria. «Corrigli dietro!».
Mi venne quasi da ridere. Che cosa avrei dovuto fare? Prenderlo da dietro? Lottare con lui? Mentre lo seguivo nel labirinto di caravan e camper, cercai di non pensare alle conseguenze di uno come me che affrontava uno squilibrato che straripava di testosterone. Mi avrebbe polverizzato. Poi mi immaginai Laura, mi ricordai il ginocchio insanguinato e tremante e le due immagini parvero sovrapporsi. Scoprii che immaginare Laura come la vittima faceva scaturire un fuoco nero dentro di me e che dopo tutto avrei potuto attingere alle forze necessarie a quell’inseguimento.
Quando lo persi di vista nella zona del campeggio mi sentii quasi sollevato, ma poi la mia visione periferica catturò la sagoma di una figura solitaria che si aggirava tra le tende e scavalcava i tiranti in modo buffo. Lo seguii con il cuore pesante. Naturalmente al primo tentativo volai lungo e disteso, inciampando in una fune come in una scena di un film comico. Quando mi rialzai, Jamie era ormai arrivato al lato più lontano del campo e si avvicinava al recinto di alberi. C’era una piccola ma fitta folla intorno al boschetto e vi scomparve all’istante.
Il fallimento fece sì che il tempo si cristallizzasse in quell’istante. Sullo sfondo c’era il perenne brusio del basso e della calca vociante; la ruota panoramica girava cigolando e lì vicino gli uccellini cantavano il loro secondo coro della giornata, gentilmente zittiti dallo stormire delle foglie. Tutto questo era sovrastato dal rombo del sangue che mi scorreva nelle vene. Questa volta non avvertii alcun sollievo; solo un opprimente senso di fallimento per la ragazza che avevo deluso. Se avessi avuto una coda, l’avrei infilata tra le gambe mentre tornavo da Laura.
Servendomi dell’autoscontro abbandonato come punto di riferimento alla fine trovai Laura, che mi dava le spalle, accigliandosi sul cellulare. La ragazza era ancora rannicchiata dietro la porta, con la stessa gamba pallida distesa, questa volta a mostrare una scarpa da ginnastica argentea e la curva di un polpaccio che alcune sere prima mi stringeva la coscia.
Il mio primo pensiero fu che fosse una terribile coincidenza, ma gli scienziati sanno che non esistono cose simili. In base alle prove a mia disposizione, giunsi all’unica ipotesi possibile. Beth mi – ci – aveva seguito e qualcun altro aveva seguito lei o l’aveva vista da sola e… era troppo orribile pensarci. Quel fuoco nero mi divampò dentro ancora una volta, bruciando al di sopra del mio senso di colpa. Mi venne l’impulso suicida di abbracciarla, ma passò. Per alcuni secondi totalmente altruisti pensai prima a confortare Beth che a sopravvivere. Alla fine potrà anche non aver trionfato, ma per un po’ contemplai quel pensiero. Resto aggrappato a quella consapevolezza.
Di fronte a me, Laura imprecò contro il telefono e poi fece qualche passo avanti.
La imitai, urtando un mucchio di pali da tendone che qualcuno aveva abbandonato a terra, e Beth si voltò per vedere l’origine del rumore. I nostri occhi si incrociarono in una mutua, terribile comprensione. Aveva il viso imbrattato di muco, anche se i suoi occhi erano asciutti. Era venuta qui per me, pensai. Laura sarebbe stata abbastanza furiosa per il tradimento, ma il fatto che avesse portato a questo: qualsiasi possibilità di confessarglielo svanì, un lumicino fagocitato dalle tenebre. Caddi in ginocchio e sussurrai: «Oh, Beth». Lei mi guardò attraverso. «Oh, povera ragazza, cosa ti ha fatto?»
«Come se ti importasse». Le si spezzò la voce.
«Certo che mi importa, solo che…». Feci un cenno in direzione della schiena di Laura.
Finalmente trovò campo e la sua voce alta, trasportata dal vento a favore, mi rese chiaro che le cose erano precipitate mentre ero via. «È traumatizzata, non riesce a parlare bene. Credo le serva un’ambulanza. Meglio che vengano un’agente e un’infermiera».
Il decoro che mi ero sentito sorgere dentro si spense altrettanto in fretta. Era chiaro che sarebbero dovuti accadere due fatti inconciliabili: dovevamo fare tutto ciò che era in nostro potere per aiutare Beth e dovevamo farlo senza rivelare cosa avessi fatto.
«Beth, mi dispiace tanto», sussurrai, e solo allora mi resi conto che non stavo esprimendo compassione per quello che le era capitato, ma mi stavo scusando per ciò che ero sul punto di fare. «Quando arriverà la polizia non dovrai raccontargli dell’altra notte». Non si vive con una donna come Laura senza imparare quel genere di cose: come il sistema sia prevenuto nei confronti delle vittime di stupro; i trucchetti che usano gli uomini astuti. Beth continuò a fissarmi con i suoi occhi verde scuro. Non ero in grado di dire se mi avesse capito. «Sai cosa intendo, giungerebbero alle conclusioni sbagliate su di te». Stavo correndo un rischio, ero immerso fino al collo. C’era qualcos’altro da scoprire, adesso; sapevo che Laura sarebbe rimasta più disgustata dal mio cinismo che dall’atto in sé. «Sto cercando di aiutarti», dissi a Beth. Solo un involontario guizzo delle sue labbra segnalò che mi stava capendo. «Vorrei poter fare qualcosa».
A una decina di metri di distanza, Laura stava descrivendo l’aggressore. Scattai e mi presentai davanti a lei mentre stava terminando la telefonata. Strinse gli occhi al vedermi tornare da solo. Non le offrii alcuna scusa; non ero nemmeno sicuro di riuscire a parlare.
«Vado a sedermi accanto a lei finché non arrivano i soccorsi, vedo se riesco a farla parlare». I secondi successivi furono densi di una versione concentrata del terrore che ha pervaso tutti i giorni successivi da allora. Non potevo impedirglielo senza tradirmi, perciò restai a guardarla scomparire dietro i camper e inginocchiarsi accanto a Beth. M’immaginai l’espressione di Laura quando l’avesse scoperto. Non l’avevo mai vista scioccata o addolorata, ma riuscii facilmente a figurarmi nella mente i suoi occhi spalancarsi e la sua bocca allargarsi, e sapevo che non l’avrei sopportato. La soluzione mi arrivò in tutta la sua gloriosa semplicità: Se Laura dovesse scoprire ciò che ho fatto, mi ucciderei, pensai. Non potrei convivere con la sua reazione più di quanto non potrei vivere senza di lei. E comunque non vorrebbe più avere niente a che fare con me. Era come se avessi evocato un vetro da rompere in caso di emergenza, ma non presi in considerazione il metodo. Se contemplare la logistica è un passo verso l’azione stessa, allora vuol dire che non avrei avuto il coraggio di andare fino in fondo. Persino mentre ponderavo l’idea di suicidarmi, l’autoconservazione la pensava diversamente.
Alle mie spalle, le due donne bisbigliavano. Il mio compito era aspettare l’arrivo della polizia. Rimasi accanto alla giostra rotta, con le sue foglie dorate che si sfaldavano e gli occhi scheggiati dei cavalli, a piedi divaricati e braccia incrociate come il buttafuori di un night club, pronto a sentire il grido furioso di Laura.
Grazie a Dio la polizia arrivò nel giro di pochi minuti, ronzandoci incontro come api nella loro tenuta a righe gialle e nere. Laura prese subito il comando. «Avrebbero potuto mandare due donne», disse sottovoce, passandomi accanto. Sapevo che qualsiasi cosa le avesse detto Beth, io non ne facevo parte. Avvertii sollievo e poi un intenso senso di colpa, seguito da un rimorso amaro, uno schema che da allora è andato ripetendosi costantemente nella mia mente. Il continuo silenzio di Beth, per quanto essenziale per entrambi, è una ghigliottina che mi pende sul collo. Anche se è lei a tenere la corda, non può lasciarla andare senza bruciarsi le mani.