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Laura

9 maggio 2000

 

Nella stanza dei testimoni aleggiava un odore stantio e dolciastro di tè e biscotti rimasti nella scatola per più di un processo. Io sarei dovuta entrare per prima; il turno di Kit, che aveva assistito solo alle conseguenze, sarebbe venuto dopo. Anche se avevamo passato ogni notte insieme, dall’agosto precedente, ci era stato proibito di parlare del caso. Carol Kent ci aveva avvisato di non rivolgerci la parola durante la pausa tra la mia testimonianza e la sua, così ci eravamo tenuti per mano in silenzio, mentre l’incaricata del servizio di assistenza ai testimoni, una vivace matrona di nome Zinnia, ci informava dell’importanza delle parrucche quali indicatori nella giustizia criminale inglese.

«Sono in grado di capire chi vincerà solo guardando le parrucche», disse. «Scommetto che pensate che un avvocato di successo abbia una parrucca linda e ordinata, vero?». Fece una pausa significativa, aspettando che annuissimo entrambi prima di proseguire. «Sbagliato!», disse con aria trionfante. «Le parrucche degli avvocati di punta versano in uno stato pietoso, alcune sono vecchie di secoli. È un simbolo di qualità. Non vorrei mai uno con la parrucca nuova di zecca a lottare per me».

Alle dieci e mezza, Zinnia mi condusse lungo un corridoio con un tappeto che portava all’Aula 1. La moquette morbida assorbì il rumore dei miei passi. Il tribunale somigliava più alla saletta di un cinema, con i tappeti blu reale e i sedili pieghevoli, che alle classiche sale con i pannelli di legno che ero abituata a vedere in televisione. Un orologio digitale sulla scrivania del segretario scandiva l’ora, i minuti e i secondi. Lo shock maggiore fu la galleria riservata al pubblico; pensavo che fosse una balconata, ma invece era , semplicemente dietro un lungo tavolo, nell’angolo più lontano; senza cordoni, barriere, niente. Chiunque fosse stato abbastanza folle avrebbe potuto balzare da un lato all’altro della stanza nel giro di pochi secondi. Jamie, al di là di un vetro sul banco degli imputati, era abbastanza vicino da permettermi di distinguere le strisce sulla sua cravatta vecchia scuola.

Se l’aula mi lasciò alquanto delusa, non altrettanto si poteva dire del giudice; era il classico giudice della TV, il viso rubicondo e rugoso da Rumpole sotto un parruccone impomatato. I giurati mi squadrarono dall’alto in basso: fatta eccezione per un sikh, tutti gli altri erano bianchi. In prima fila notai un uomo severo con l’aria del professore, una donna con l’aspetto della massaia, con un paio di occhiali da lettura e una catenina di perle al collo e un uomo molto giovane con una maglietta di una squadra di calcio inglese, e i tatuaggi che gli sbucavano dal colletto.

Per quanto anonimi apparissero, avevano un grosso vantaggio su di me: avevano assistito alla testimonianza di Beth. Se solo mi avesse confidato qualche dettaglio rivelatore da poter usare per armonizzare il mio resoconto dello stupro con il suo, per rendere le nostre verità a prova di bomba.

Mi incamminai verso il mio posto, le gambe mi tremavano, e anche se mi offrirono di sedermi rimasi in piedi. L’aria era densa e immobile, una solennità che doveva fungere da siero della verità sulle persone più colpevoli. Di certo Balcombe non avrebbe potuto continuare a negare in un posto come quello. Sbatté le palpebre in direzione del giudice e della giuria, con le ciglia lunghe che scacciavano le imputazioni.

L’avvocato dell’accusa, Nathaniel Polglase, aveva circa trentacinque anni e la sua parrucca di crine di cavallo sembrava nuova di zecca, ogni ricciolo accuratamente impomatato. Alle sue spalle l’incaricato della procura indossava i vestiti del giorno prima. Sapevo che, tecnicamente, non si trattava degli avvocati di Beth, ma erano la sua unica speranza e avvertii una punta di delusione preventiva. Alla sinistra del giudice, l’avvocato della difesa, Fiona Price, aveva lo sguardo furbo di una faina. La sua parrucca era malandata, ma la portava con grazia e aveva un’aria così convincente nella sua toga che non riuscivo a immaginarla con indosso nient’altro. Mi arrischiai a guardare la galleria riservata al pubblico: la famiglia di Jamie sedeva due file più in là. Sulla panchina della stampa si trovava la giornalista bionda, Ali, insieme a un’altra collega, una ragazza sui sedici anni con una cravatta con la clip, e a un uomo di mezza età, sul chiaro punto di addormentarsi.

Prestai giuramento – secondo Kit, chiunque giurasse sul libro sacro decretava la propria testimonianza inammissibile per via dell’estrema stupidità – e ripetei a pappagallo la mia promessa con gli occhi puntati sull’enorme stemma appeso alla parete alle spalle del giudice; in un rilievo d’oro spento, il leone e l’unicorno lottavano per la corona. Tiro alla fune, braccio di ferro? Si poteva leggere in entrambi i modi.

«Grazie per essere venuta, Miss Langrishe», esordì Nathaniel Polglase. Aveva un accento del posto e pronunciò il mio nome facendolo suonare più come “langrig”. «Sarebbe così gentile da parlarci un po’ di lei, prima di cominciare? Lavoro, titolo di studio, questo genere di cose».

«Ho frequentato la scuola media pubblica a Croydon, nel Surrey; 10 GCSE, tre livelli avanzati», dissi, sentendomi come la ragazzina che ero stata l’ultima volta che avevo elencato le mie qualifiche. «E lo scorso anno ho conseguito una laurea in Sociologia nell’ambito degli studi di genere presso il King’s College di Londra. Al momento lavoro nella City, in ambito pubblicitario». Questo curriculum condensato era evidentemente tutto ciò che gli serviva sapere, perché con una serie di domande mi portò a ripetere una versione degli eventi che ricalcava quanto avevo detto alla polizia quel giorno di agosto. Suonava piatto, strano, meccanico; cosa che naturalmente era. Continuai a guardare i giurati per soppesare le loro reazioni. L’uomo tatuato non mi stava nemmeno guardando. In qualche modo le mie parole suonavano meno convincenti nella sterilità dell’aula di quanto lo fossero state nella guardiola della polizia. I giurati non sembravano interessarsi a me. Sto fallendo, Beth, pensai, mentre ci avvicinavamo alla parte in cui avevo raccolto il portafoglio. Sto perdendo i giurati e non c’è niente che possa fare. Quando ebbi finito, per poco non mi ritrovai a chiedere: “Tutto qui quello che volevate da me?”.

Mi ero aspettata una sorta di pausa tra l’accusa e la difesa, ma l’avvocato di Jamie era già scattata in piedi prima ancora che Polglase raggiungesse il suo posto. Si guadagnò immediatamente il rispetto della giuria; e anche il mio.

«Miss Lang-reesh», disse, pronunciandolo nel modo corretto e sottolineando l’errore di Polglase. «Quando la querelante le ha confidato di essere stata violentata?».

Dapprima non capii dove stesse andando a parare. «Non l’ha fatto, non con molte parole, ma…».

«Con nessuna parola. Chi è stata la prima persona a suggerire che si trattasse di stupro?».

Sentii il sangue ribollirmi nelle vene, non appena realizzai.

«Io, immagino, ma non era un suggerimento, stavo semplicemente descrivendo ciò che avevo visto».

«Perciò la querelante Miss Taylor non ha parlato di stupro, né ha affermato di essere stata costretta o niente, prima che chiamasse la polizia?»

«Be’, non parlava ancora».

«Quindi ha parlato di stupro all’arrivo della polizia?».

Capii che si stava aggirando intorno a me con un riflettore quando me lo ritrovai puntato dritto negli occhi. Come era potuto andare tutto così storto, così in fretta? «No, ma…».

«In nessun momento la querelante l’ha informata di essere stata aggredita sessualmente. In effetti, lei è giunta da sola a questa conclusione».

Misi i palmi delle mani sul banco. «A dire il vero il primo a dirlo è stato lui». Guardai di traverso il banco degli imputati. «Lui ha detto: “Non è come sembra”, mentre lo stava tirando fuori. Non avevo nemmeno aperto bocca a quel punto. Perciò se c’era qualcuno sulla difensiva, quello era lui».

Fiona Price infilò i pollici sotto il bavero della toga e guardò la giuria inarcando il sopracciglio sottile. «Perciò lui ha detto che non era violenza, che non era ciò che sembrava?»

«Perché sapeva che lo era».

Mi infervorai, come se qualcuno stesse girando la manopola del riscaldamento dentro il mio corpo; era un segnale d’allarme, un ago che oscillava verso la zona rossa.

«Non ha risposto alla mia domanda. Ha proclamato la sua innocenza, sì o no? “Non è come sembra”. Sono state queste le sue parole, secondo lei, giusto?»

«Be’, sì, ma…». Certo che sì, stavo per dire. Era questo che la gente diceva quando veniva colta sul fatto. È questo che fanno i bambini, negano di aver infilato la mano nella scatola dei biscotti anche se hanno le dita appiccicose e la bocca cosparsa di briciole. Ma prima che formulassi il pensiero, Price era già passata alla domanda successiva.

«In effetti, il mio cliente diceva la verità, proclamava una genuina innocenza, avendo notato l’ovvio fraintendimento della situazione e ha messo le mani avanti prima che la cosa degenerasse, non è così?»

«No». Mi sudavano le ascelle e fui contenta di aver indossato un abito scuro.

«Aveva già deciso, non è così?»

«Non è questione di avere deciso o meno. È una cosa che sai, quando la vedi».

«Ciò che lei ha interrotto è stato sesso consensuale, non è così? Vigoroso e intenso, certo, ma è una cosa che accade tra due adulti consenzienti, che lei ha interrotto».

«So cosa ho visto».

«Lei ha assistito agli ultimi istanti di un rapporto sessuale, Miss Langrishe. Era presente al momento della penetrazione, al punto in cui il consenso è presumibilmente venuto meno?».

Avevo i capelli bagnati. Alzati una mano ad asciugarmi la fronte, ma ci ripensai e mi domandai se i giurati avessero notato il rivolo che mi scendeva su un lato del viso. A Fiona Price di certo non sfuggì; lo seguì con un ghigno.

«Sa che non c’ero».

«Perciò concorda con me che le uniche due persone che possono sapere se ci fosse stato o meno consenso sono i due interessati; non può non saperlo, giusto?».

Potevo non avere il vantaggio di una preparazione legale, ma ero dalla parte della ragione. «No, non lo accetto. Lei non li ha visti. Lui era furente e lei era tutta… Aveva la bocca sporca di fango, appiccicato alle lacrime e alla saliva e muco su tutta la faccia».

«Devo ricordarmi, per i casi futuri, che il naso che cola è indizio di stupro».

Cominciai ad avvertire il morso delle lacrime, non per il mio imbarazzo, ma per Beth. Se stava trattando così me, cosa doveva aver passato lei?

«Sul serio, Miss Price?». Lo sguardo ammonitore del giudice non raggiunse il suo obiettivo. La massaia in giuria fece un sorrisetto.

«Vostro Onore». Fiona Price abbassò la testa in segno di scuse per tre secondi. Quando la rialzò, i suoi occhi erano penetranti come un laser.

«Miss Langrishe, la querelante ha dato segno di averla notata quando li ha sorpresi?».

Ripensai allo sguardo spento di Beth. Quanto era passato prima che si accorgesse di me? Era impossibile dirlo. Il tempo si era dilatato mentre prendevo coscienza di ciò cui stavo assistendo, come si dice accada durante un incidente d’auto.

«Ci ha messo qualche secondo».

Capii dall’espressione di Price di aver detto la cosa sbagliata.

«Era presa dal momento, no?», incalzò l’avvocato. L’espressione “presa dal momento” era ben lungi da ciò che mi ero trovata davanti. Si era distanziata dalla situazione, stava cercando di non essere lì. E come si era azzardata quella donna a farlo passare per lo spasimo del piacere? Chi le dava quel diritto?

«Era paralizzata dalla paura, lui le stava facendo del male!». La mia voce era stridente.

«Miss Langrishe», mi interruppe Price, ma continuai a parlare senza volerlo; mi sembrava quasi di vedere le parole riversarsi fuori dalla mia bocca, come un copione che si srotolava sotto ai miei occhi e dovevo leggere anche se non avevo idea di cosa sarebbe venuto dopo.

«Teneva strette nei pugni grosse ciocche dei suoi capelli e lei diceva: “No, ti prego, non farlo”».

La testa di Nathaniel Polglase si alzò così di scatto da fargli oscillare la parrucca. Il copione nella mia testa improvvisamente si interruppe e si cristallizzò, mentre le mie parole restavano in sospeso nell’aria, visibili a tutti. Fiona Price parve planare verso di me.

«Mi scusi, non ho capito bene l’ultima frase. Potrebbe ripeterla, a mio beneficio?».

Ebbi l’impressione che qualcosa di enorme mi scivolava alle spalle. «Diceva: “No, ti prego”». Lo dissi con tutta l’autorità di cui fui capace, ma il mio corpo tradì la verità. Il mio viso era madido di sudore, non ho idea di come apparisse dall’esterno, ma mi sentivo come se qualcuno mi avesse strizzato una spugna d’acqua tiepida sulla testa.

«Concedetemi un istante, Vostro Onore», disse Fiona Price. «Vorrei leggere brevemente la deposizione originale della testimone alla polizia».

Inforcò gli occhiali da lettura e diede l’impressione di rivolgere tutta la sua attenzione al documento, quasi lo stesse leggendo per la prima volta, anche se ero certa che ne avesse memorizzato ogni parola e che questa pausa fosse pura arte scenica. «Ricorda di aver fatto parola con il mio illustre collega dell’accusa che la querelante abbia detto “no”?»

«Non l’ho fatto». Mi stava umiliando, pensai, rendendomi conto solo mentre allungava la mano per passarmi il foglio della testimonianza che era troppo furba per farlo; stava lasciando che mi schiacciassi da sola.

«Vorrei che leggesse la sua testimonianza e dicesse ai giurati se ha menzionato che la querelante abbia detto di no».

Diedi un’occhiata alla pagina senza vederla realmente, anche se sapevo che quella parola non c’era.

«È la sua testimonianza?»

«Sì». Provai una sorta di sollievo nel trovarmi finalmente d’accordo con lei.

«Quando è stata raccolta?»

«Immediatamente dopo il fatto, nella guardiola della polizia». Dopo averla stuprata, volevo dire, ma sapevo che avrei soltanto dato prova di essere prevenuta e avevo già fatto abbastanza danni.

«Immediatamente dopo il presunto stupro», confermò Price. «Per favore, legga ad alta voce la frase all’inizio del terzo paragrafo. Pagina 110, Vostro Onore, terzo paragrafo».

Sembravo una bambina con problemi di sviluppo che leggeva di fronte all’intera classe. «“Lei non ha parlato, era più un lamento”».

«“Lei non ha parlato, era più un lamento”. È questo che ha detto alla polizia immediatamente dopo il fatto?»

«Sì». Il groppo che avevo in gola si doveva vedere fin dalla galleria del pubblico.

«Be’, c’è un mondo di differenza tra un lamento e una parola, non crede?», disse Fiona Price.

«Sì». Lo sussurrai e i miei occhi furono inondati dalle lacrime; se non fossi stata forte, mi sarebbero sgorgate al prossimo battito di palpebre.

«Non ha forse male interpretato un gemito di piacere?»

«No».

«E se avesse detto una parola, l’avrebbe riferito alla polizia, perché le parole non si possono facilmente male interpretare, o dimenticare, giusto?».

Non scrollai la testa con quanta fermezza avrei voluto, nel caso mi scendesse una lacrima senza volerlo.

«Eppure ha appena riferito alla corte di averla chiaramente udita dire: “No, per favore”. Concorda con me che solo una delle due affermazioni può essere valida, Miss Langrishe?».

La mia chance di rimettere a posto le cose era flebile – era come sperare che un singolo filo fosse in grado di reggere il mio peso – ma non avevo altro cui aggrapparmi.

«Intendevo dire che ho sentito il suo lamento, “per favore, no”», dissi a mia volta in quello che pareva un gemito.

Le sopracciglia di Fiona Price sparirono sotto la parrucca. «Una ragazza intelligente come lei deve pur capire quanto siano importanti queste parole in un caso del genere, eppure al momento di fornire la sua testimonianza non ne ha fatto accenno, appena poche ore dopo la presunta aggressione?».

Non potei fare altro che stringermi nelle spalle. Osservandomi i piedi, compresi perché la gente diceva di volere che una voragine si spalancasse sotto di lei per farla sparire. Coraggio, pensai, fissando il tappeto blu. Apriti, mostrami l’abisso, poni fine alla mia miseria.

«E non se ne è ricordata pochi minuti fa, proprio sul banco dei testimoni? Tuttavia, durante il controinterrogatorio il ricordo le si riaffaccia prepotente alla mente?»

«L’ha detto, ha detto: “No, per favore”». Poteva anche averlo fatto, mi dissi. Poteva anche averlo detto, avrei voluto che l’avesse fatto.

Price lasciò che le mie parole aleggiassero nell’aria per qualche istante, poi cambiò approccio.

«Come descriverebbe l’atmosfera che ha portato alla presunta aggressione?».

Mi tranquillizzai in parte, felice che avesse dirottato l’attenzione su un altro terreno, pur sapendo che sarebbe stato un sollievo temporaneo. Deglutii il groppo in gola.

«Licenziosa?», domandò Price. «Edonistica?»

«No, è stato un festival abbastanza tranquillo», dissi. «Ma era allegra, piacevole». Non mi fregherà questa volta, pensai.

«Tutto era permesso? Avevate appena visto un’eclissi, c’era la musica, erano tutti su di giri, non è così?»

«Non è una scusa per ciò che ha fatto». Mi rimangiai un sorrisetto di trionfo. Alla fine le avevo assestato un colpo. O così avevo creduto, finché lei non proseguì e non rivelò che puntava al mio stato mentale, non a quello di Jamie.

«In effetti l’eclissi era stata oscurata dalle nuvole, è così che si dice, vero? Non l’ha vista?»

«Sì». Non me ne rendevo conto, ma stavo lastricando la strada verso una mia ulteriore umiliazione.

«C’era scarsa visibilità quel giorno, si respirava una sorta di anticlimax, dopo tutta l’anticipazione per l’eclissi?»

«Sì». Con sicurezza, stupidamente, posai un’altra pietra.

Fiona Price si strofinò il mento. «Ha la tendenza al melodramma, Laura?»

«Come?»

«A inventarsi le cose, fatica a distinguere tra realtà e immaginazione».

Mi conficcai le unghie nel palmo della mano, furiosa con me stessa.

«No», dissi. «Sto solo dicendo quello che ho sentito».

«Ciò che lei ha sentito sembra variare di minuto in minuto». Sorrise, quasi contrita, come se in fondo le dispiacesse che non fossi credibile. «Ciò che ha visto erano due adulti che facevano l’amore, non è così?».

Scrollai forte la testa. «Se lei avesse visto ciò che ho visto io, si vergognerebbe di usare questa frase in questo contesto. Non si è trattato di “fare l’amore”. Ho assistito a uno stupro. L’ho visto sulle loro facce».

Price mi guardò con un’aria di compatimento. «Ha mai sentito parlare di confabulazione, Miss Langrishe?».

La goccia di sudore che mi scendeva lungo la guancia cadde sul legno sotto di me. «Sì, certo».

«Mi perdoni, lei è una donna istruita, con una laurea di secondo livello in Sociologia e studi di genere, tanto più». Inclinò il corpo in avanti verso la giuria. «Giurati, per chi di voi non ha familiarità con il termine, e per rinfrescare la memoria di chi invece ce l’ha, con “confabulazione” non si intende altro che il saltare a conclusioni affrettate; quando qualcuno giunge genuinamente a credere in qualcosa che si adatta a una propria teoria personale. Lei è una femminista?».

Replicai con la frase più difficile da controbattere. «Credo che uomini e donne siano uguali».

«Nei suoi studi, ha letto teorie secondo cui tutti gli uomini sono stupratori?»

«Con tutto il rispetto, è un cliché». La giuria manifestò reazioni di ostilità. Non fare la saputella, Laura, mi dissi. Price apparve imperturbabile.

«Ma le ha lette?»

«Certamente». Mi sforzai di suonare cortese.

«E ha immaginato che fosse questo il caso, non è così?»

«No. Ho visto quell’uomo stuprare la querelante». L’immagine di ciò a cui avevo assistito era marchiata a fuoco nella mia mente. L’impulso a piangere tornò con prepotenza, più forte che mai, mentre Price si voltava verso di me.

«È frutto della sua confabulazione l’aver visto uno stupro, non crede? Il lavoro di un’immaginazione solerte e così incontrollata che non è nemmeno in grado di ripetere la stessa storia due volte di seguito?»

«Ho visto le loro facce», dissi, ma dovevo scegliere se parlare o piangere e finii per sussurrare. In ogni caso, le mie parole sarebbero state inghiottite dal tono aspro e tagliente di Fiona Price che diceva di non avere altre domande per me.

«Nessuna domanda da parte mia, Vostro Onore», disse Polglase a denti stretti. Non avevo il cuore di guardare nella sua direzione. Ero passata da testimone chiave a sabotatrice nel giro di… guardai l’orologio e fui sorpresa nel constatare che erano passati solo venticinque minuti.

Mentre venivo allontanata dal banco dei testimoni, sentii il giudice dire che ci sarebbe stata una pausa per il pranzo, ma le sue parole mi raggiunsero come se fossi sott’acqua. Probabilmente dovevo aspettare Carol Kent all’esterno, ma fuggii dall’aula prima che l’atrio si riempisse di nuovo. Quasi credevo che gli agenti mi arrestassero per spergiuro. Una volta fuori, inspirai a fondo, mentre il profilo di Truro si offuscava per le lacrime. Avevo voglia di rotolare giù lungo il fianco della collina e finire nel fiume. Fiona Price mi aveva letto nel pensiero, aveva visto cosa stavo facendo prima di me. Avevo rovinato tutto. L’unica cosa buona – o meglio, non disastrosa – era che Kit non aveva assistito personalmente al mio spergiuro. Non ero la persona che lui credeva; non ero chi io credevo di essere.

 

La verità sul caso Beth Taylor
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