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Laura
20 giugno 2001
«Settemila invasati della totalità, tutti insieme», disse una ragazza con un anello in ogni narice e dread viola raccolti in coni rovesciati sopra la testa. «Sarà dannatamente lurido». Aveva ragione; il sito, nella profondità della savana dello Zambia, sembrava aver scremato sia i festaioli casuali sia gli astronomi più seri, molti dei quali non gradivano l’inquinamento sonoro almeno tanto quanto quello luminoso. Io e Kit eravamo alla quinta ora delle sei di viaggio previste, partiti dall’aeroporto di Livingstone e diretti al festival, e ci trovavamo a bordo di un autobus privo di aerazione con pessime sospensioni e cinquanta hippy che usavano solo deodoranti naturali. Il bestiame passeggiava incurante in mezzo ai camion carichi che sfrecciavano lungo la strada. Al margine della carreggiata i fruttivendoli esponevano le proprie merci variopinte. Vecchi tabelloni pubblicitari dipinti e città fatte di lamiere ondulate si succedevano a ogni svolta nel percorso. Quando ci fermammo per pranzo in un caffè sponsorizzato dalla Fanta, dozzine di ragazzini sbucarono dal nulla e cercarono di toccarmi i capelli, gridando di piacere, me li tirarono e annodarono con le loro piccole dita.
Quando arrivammo in cima alla collina per vedere la cittadina improvvisata, la civiltà appariva ormai molto lontana. Il sito del festival aveva infrastrutture migliori di alcuni dei villaggi che avevamo oltrepassato, un piccolo supermercato, una fila di docce e bagni all’africana che erano più puliti di certi che si trovavano nei centri commerciali britannici. I caffè vendevano anche la droga al prezzo di una birra.
«Mi sembra giusto», dissi a Kit. Lui si limitò ad alzare il viso al cielo e sorridere. Non c’era bisogno di controllare le previsioni qui, non doveva preoccuparsi delle condizioni atmosferiche. L’inverno in Africa è prevedibile. Quel giorno il cielo era del genere di azzurro chiaro che ti fa dubitare che quel colore si possa mai associare al freddo ed era così limpido da mettere in dubbio l’esistenza stesse dalle nubi. Su un palco attrezzato alla perfezione, una band reggae snocciolava il proprio repertorio di cover di Bob Marley. Oltrepassammo una tenda dove veniva proiettata una grafica marmorizzata. Kit prese in mano una piccola maschera in guscio di cocco di un viso africano urlante e se la mise davanti agli occhi. «Somiglia come una goccia d’acqua a Mac quando è stato ricoverato». Era la prima volta che riusciva a scherzare sulla convalescenza del fratello.
Non ci fu penombra; un minuto prima il sole si era fatto del colore di una zucca e quello dopo era affondato senza preavviso dietro l’orizzonte. Trascorremmo la nuova notte sdraiati davanti all’ingresso della tenda, con le schiene appoggiate al terreno. A 1220 metri sul livello del mare, con un inquinamento luminoso minimo e il bagliore rosato della luna, le stelle nel cielo africano non ricordavano tanto dei puntini quanto più un fiume; l’effetto era meteorologico più che celestiale, la Via Lattea era una nube temporalesca che minacciava di far piovere brillantini. C’era una soddisfazione atavica nel restare a osservare il cielo.
«Dovremmo guardare in alto», dissi. Lui si appoggiò sulla mia spalla con la testa e poi mi rotolò sopra. La protuberanza appena accennata della sua pancia mi aderì al bassoventre, armonizzandosi con la salita e la discesa del mio diaframma. Quella notte anche i nostri respiri erano sincronizzati.
Forse era stato per lo sforzo necessario ad arrivare lì o per il mio bisogno di espiazione, ma lo Zambia mi sembrava più un pellegrinaggio che una vacanza. Rifuggimmo i bar e i palchi e preferimmo l’ombra degli alberi. Forse è per questo che le ci volle così tanto per individuarci.
Quando arrivò il momento dell’eclissi, gli organizzatori staccarono la spina all’impianto musicale. «Primo contatto», sussurrò Kit, mentre la luna dava il suo primo morsetto al sole, scatenando incitamenti generalizzati. Qui finalmente trovai il rispetto che avevo così tanto sperato ci fosse in Cornovaglia. La folla alzò all’unisono il capo verso il sole che andava sempre più rimpicciolendosi, simile a tanti girasoli. Passò un’ora in cui mi sembrò di non avere quasi sbattuto le palpebre.
«Non vuoi scattare una foto?», domandai, facendo un cenno in direzione della fotocamera che gli pendeva sul fianco. Lui la scansò.
«Nah», disse, sorprendendomi. «Non oggi. Per una volta lasciamela soltanto vivere».
Poi arrivarono i venti, quella brezza sovrannaturale che avevo già sperimentato in Cornovaglia, solo che qui era calda e trasportava polvere. Come rispondendo al segnale del vento, il tempo, che per l’ultima ora si era trascinato, accelerò e il crepuscolo si affacciò a Est.
«Questo è l’aspetto di 3200 chilometri orari», commentò Kit, mentre l’oscurità avanzava. Il paesaggio mutò nello stesso modo drammatico del cielo, le nostre ombre si rimpicciolirono all’improvviso, come se ci stessimo sciogliendo nel terreno. Iniziai a tremare e allungai la mano verso quella di Kit. Lui alzò il braccio e mi fece ruotare, come una ballerina, così potei vedere l’imbrunire in ogni orizzonte.
Un anello di luce dorata circondava il sole, un brillamento simile a un diamante grezzo che vacillava a un’estremità, e poi ci fu la totalità. La folla gridò: «Oh my God», «Dio mio», «Mein Gott», «Wow». La luna era un disco nero che copriva il sole e fiumi di plasma sparavano tutt’intorno, come un anello di gas che avesse preso fuoco. «Siamo al sicuro?», domandai a Kit. Siamo al sicuro a vivere su questa roccia vorticante? Siamo al sicuro a essere così minuscoli? Andrà tutto bene?
In risposta mi sfilò gli occhiali e osservai a occhio nudo la palla nera come il carbone in cielo. Conoscevo tutta la teoria, sapevo di stare guardando vasti promontori d’idrogeno, ma mentre me ne stavo lì non potevo fare a meno di pensare in termini di mistica e magia. La corona danzava, un brillamento dorato e vivo, due volte più grande del sole stesso. Una stella non è un angelo, ma un mostro. Era così grande da rendere tutto quello che ci era accaduto, che avevamo fatto, minuscolo al confronto. Rimorso, senso di colpa e paura furono spazzati via.
«Sono guarita», dissi e non mi parve banale in quel contesto. Si può dire qualunque cosa sotto l’ombra. La guancia di Kit sulla mia spalla era bagnata e piansi insieme a lui. Non eravamo gli unici in lacrime; accanto a noi si sentivano singhiozzi sommessi e, in lontananza, qualcuno ululò come un lupo. Restammo così per quattro minuti e mezzo. Come regolato da un orologio interno, Kit mi rimise gli occhiali e pochi secondi dopo ci fu un lampo di luce gialla e le ombre scivolarono via verso oriente. Era finita. Le lacrime che mi asciugai ora erano di felicità.
«Quand’è la prossima?», chiesi.
Il giorno seguente gli autobus che ci avevano portati qui tornarono a prenderci, anche se adesso c’erano settemila persone che cercavano di andarsene via tutte insieme, e ne derivò il caos; alcuni erano diretti verso l’aeroporto di Lusaka, mentre altri dovevano andare più a sud, a Livingstone. A qualche povera anima giapponese aspettavano due giorni su un autobus per Johannesburg. Io e Kit ci mettemmo in coda al margine della strada per i pullman diretti a Livingstone, mentre dal lato opposto la fila per la navetta diretta a Lusaka si snodava per più di mezzo chilometro. Dopo due ore di attesa finalmente arrivò il nostro turno di caricare gli zaini sul tettuccio e prendere posto sui sedili appiccicosi. Abbassai il finestrino per pulirlo, ma la polvere era appiccicata all’esterno.
«Non voglio tornare a casa», dissi a Kit. «Voglio rifare tutto da capo». Lo dissi sapendo perfettamente che la prossima eclissi sarebbe stata al circolo polare antartico.
«Non penso che molta di questa gente verrà al Polo Sud». Kit studiò i derelitti boccheggianti intorno a noi. Il motore del nostro autobus era ancora spento, anche se tutti i posti erano stati occupati. «Non possono permetterselo. Nessun essere umano ha mai assistito a un’eclissi dal Polo Sud finora. È una spedizione enorme, costerà migliaia di sterline. Non riesco a immaginare che ce la faremo nemmeno noi».
Non so cosa mi fece voltare. Forse uno spirito vendicatore della giustizia, che mi sfidava ad abbassare la guardia ed essere felice. Eppure mi girai, allungando il collo per guardare l’altro autobus. Lei era incorniciata da un finestrino sudicio e stava fissando me, dentro di me.
«Beth». Mi uscì in un grugnito. Ci fu un istante di assoluto e puro terrore e immobilità. Kit si pietrificò, poi lentamente seguì la direzione del mio sguardo. Restammo a fissarci tutti e tre in quel modo per il tempo di un battito di cuore e poi, come un ragno che puntasse una mosca, iniziò a muoversi.
«Può partire?», chiese Kit all’autista. Sull’altro autobus, Beth scavalcò il vicino di posto e iniziò a percorrere il corridoio, ostacolata da corpi e bagagli. L’autista era l’incarnazione della parola “laconico”; inarcò un sopracciglio in direzione di Kit e risucchiò l’aria tra i grossi denti gialli.
«Metta in moto, cazzo!», disse Kit. Non l’avevo mai visto tanto spaventato, nemmeno durante l’incendio.
«La prego», supplicai l’autista, riuscendo in qualche modo a rivolgergli un sorriso disteso. «Abbiamo molta fretta». Rovistai in tasca e ne tirai fuori una manciata di kwacha; Kit lanciò le monete sulle gambe dell’autista. Finalmente le ruote iniziarono a girare, addentando il terreno morbido, così quando Beth mise piede per strada, fu accolta da una nuvola di gas di scarico e mulinelli di polvere. Una motocicletta le sfrecciò accanto, così vicino che avrebbe potuto sbucciarle le ginocchia. Imperterrita, lei cercò di correre a un lato dell’autobus, ma le ciabatte che indossava le rallentavano la corsa. «Laura!», disse, ma non c’era minaccia nella sua voce. Sembrava disperata più che arrabbiata, addolorata più che spaventosa.
«Non rallenti, non si fermi!», gridò Kit al conducente. «Prema quel cazzo di acceleratore!». Era la prima volta che si mostrava così terrorizzato davanti a me. Solo una volta privato della sua forza compresi quanto gli fosse costato sostenermi. L’autobus schizzò via e io mi voltai, alzandomi in piedi; vidi Beth cadere in ginocchio per la strada, con la gonna che le si allargava intorno alle gambe, una sirena spiaggiata, agonizzante in una nube rossa vorticante. Svoltammo a un angolo e sparì alla nostra vista.
Sull’autobus ci fissavano tutti. Kit si accucciò sul proprio sedile, fosforescente per l’imbarazzo. Calò il silenzio finché il conducente non si mise ad armeggiare con la radio; stava passando Livin’ La Vida Loca e l’autista iniziò a canticchiare con voce stonata.
«Ha attraversato mezzo pianeta per trovarci», disse Kit a voce così bassa che feci fatica a sentirlo persino io. «Tutta questa fatica nel cambiare nome, nel rifarci una vita, per niente. E le abbiamo detto noi dove ci avrebbe potuti trovare».
L’autobus oltrepassò appezzamenti di terreno coltivato punteggiati da bestiame smunto. Presi la mano malandata di Kit e accarezzai la cicatrice con le dita. Lui si ritrasse. «Ha visto la mia mappa, saprà dove rintracciarci per il resto delle nostre vite».
Non lo disse, ma l’implicazione era chiara: perché tu l’hai invitata in casa nostra. Cercai di prenderlo di nuovo per mano, ma la teneva stretta in un pugno.