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Laura

11 agosto 1999

 

Kit andò per la sua strada, mentre io seguii la scia di monetine fino a un gruppo di roulotte. Un vecchio cavallo da giostra era appoggiato alla più vicina, come se avesse galoppato via dalla sua prigione rotante e si fosse fermato lì, esausto. Il nome Eloise era dipinto a mano su una spira ornamentale sul fianco. Più in là sentii un fruscio e scorsi un movimento.

«Salve, è suo questo?», dissi, lasciando poi cadere il portafoglio.

La donna giaceva a faccia in giù, i suoi abiti – una gonna lunga, a prima vista – erano scostati. L’uomo le stava sopra. Niente d’insolito in quella posizione, io e Kit lo facevamo spesso, ma l’espressione raggelata sui loro volti era lontana anni luce da qualsiasi cosa con cui potessi identificarmi. La schiena dell’uomo ricordava un cobra; i suoi occhi appannati erano ridotti a fessure e la saliva gli colava dalle labbra arricciate in un ghigno mostruoso, più oscuro di qualunque cosa paragonabile al desiderio. Il contrasto con il viso della ragazza fu improvviso e ripugnante. Lei mi guardava dritto in faccia; gli occhi dilatati fissi sui miei. Il trucco sbavato le macchiava le guance, le dita artigliavano la terra. Quel genere di terrore animalesco è qualcosa che si riconosce non appena lo si vede, non c’è bisogno di averne fatto esperienza. Le colava del muco da una narice, misto a fango e pezzi di foglie e ramoscelli, come se la faccia non avesse solo sfregato contro il terriccio, ma vi fosse stata spinta a fondo. Sapevo a cosa stavo assistendo. La parola risuonò forte e chiara e terribile nella mia mente. Sei lettere maiuscole dipinte di rosso su una parete, troppo grandi per essere lette, troppo spaventose per essere pronunciate.

«Oh, Gesù», dissi. La gente parla di sangue che si gela nelle vene, ma il mio ribollì in quell’istante, bruciandomi dall’interno. «Sta bene?». Che domanda patetica.

A quella richiesta la testa dell’uomo schizzò verso l’alto e per un attimo la sua espressione terrificante fu diretta a me. Arretrai di un passo e annaspai al sentire il profilo sporgente d’acciaio della parete del camper, freddo contro la mia schiena. Non so quanto a lungo restammo bloccati lì. Potevano essere passati trenta secondi, così come tre. So, però, che il divario tra ciò cui stavo assistendo e la mia capacità di gestirlo sembrò dilatarsi, come per effetto di una detonazione.

«Oddio, scusi», disse lui. «Che imbarazzo! Sta bene. Stai bene, vero?».

La ragazza sbatté le palpebre, ma non accennò a rispondere o a pulirsi la faccia. Lui si tirò su in ginocchio, staccandosi da lei. Un filo lattiginoso ed elastico collegava la punta del suo pene al sedere di lei, e poi si ruppe, mentre lui si rinfilava l’erezione morente dentro la patta, trasalendo. Si alzò in piedi. Ogni cosa di lui, dalla giacca a vento ai jeans, pareva appena acquistata, forzatamente casual; nomi di marchi gli correvano a grosse lettere sul petto e lungo le braccia. I capelli castano chiaro erano cotonati in piccole punte ordinate. Solo le chiazze di fango alle ginocchia e i palmi delle mani lo tradivano.

«Questo sì che è imbarazzante», disse con una risatina nervosa. Quando sorrise, mi resi conto con orrore che era un bell’uomo.

La ragazza giaceva immobile a terra. La sua gamba sinistra e il fondoschiena erano esposti. Dapprima pensai che le avesse strappato la gonna, ma il tessuto non era sfilacciato; poi mi accorsi che indossava un paio di pantaloni da pescatore tailandese, pantaloni lunghi a portafoglio che all’epoca portavamo tutti. Aperti somigliavano a un tesseratto con attaccati dei fiocchetti; erano la parola d’ordine della moda alternativa, un puzzle imperscrutabile ai non iniziati che faceva sembrare il sari facile da indossare come una maglietta, ma una volta che imparavi a metterteli era fatta. Non contenevano lycra; dovevano essere stati strattonati da un lato con forza, per rivelare tutta quella carne.

Mi guardai dietro, ma Kit non c’era.

«È ferita?», domandai alla donna. «Le ha fatto del male?». Lei sbatté le palpebre e mi domandai se fosse sotto l’effetto di qualcosa. «Che cosa le ha fatto?», chiesi all’uomo.

«Si è fatta l’idea sbagliata», mi rispose lui, anche se non mi offrì una spiegazione alternativa. Si rivolse alla ragazza e le disse in tono dolce e persuasivo: «Su, dolcezza».

Mi avvicinai guardinga a lei e le porsi la mano per aiutarla a rialzarsi, ma lei non si mosse. «Come si chiama?». Si ritrasse, appoggiandosi alla ruota di uno dei camper. Pensai di coprirla con il mio cardigan, ma era probabilmente pieno dei miei capelli e di quelli di Kit e avrei potuto contaminare la scena del crimine; anche senza bisogno di dire di quale crimine si trattasse, stavo già ragionando in termini forensi. «È tutto ok», dissi, sentendomi molto a disagio.

«Laura?». La voce di Kit suonava chiara e vicina. «Non sono riuscito a trovare niente». Le fiancate dei caravan creavano un corridoio stretto; l’uomo camminò all’indietro, allontanandosi da me e dalla sua vittima e finendo dritto contro Kit.

«Ehi!», disse Kit. «Farebbe meglio a guardare dove mette i…».

Il grido dell’uomo, combinato senza dubbio all’espressione sulla mia faccia, permise a Kit di capire quanto fosse seria la situazione. «Che è successo? Stai bene?».

Feci un passo in avanti e mi misi tra l’uomo e la giovane. «C’è una ragazza, credo che sia stata…». Non riuscii a pronunciare la parola, si sfaldò sulle mie labbra come le tessere di un domino che stava crollando. «Credo che sia stata aggredita».

L’uomo alzò gli occhi al cielo nella mia direzione. «È tutto ok». Rivolse a Kit un sorriso cospiratorio da “solo un uomo può capire”. «È solo che non ci aspettavamo compagnia, giusto?». La ragazza si pulì il naso con il dorso della mano e guardò con espressione vacua la traccia di muco sulla sua manica. «È solo imbarazzata per essere stata colta con le mutande abbassate, non è così?». Parlava in tono leggero, ma le mascelle si irrigidivano tra una frase e l’altra. «Nemmeno io sono particolarmente entusiasta della cosa, ma tutto qui. La sua signora è saltata alla conclusione sbagliata».

«Oh», disse Kit incerto.

«So quello che ho visto», dissi.

L’uomo cominciò a ritrarsi. Con la ragazza che non parlava e Kit confuso, capii che spettava a me.

«Credo che faremmo meglio a chiamare la polizia». Lo dissi in tono fermo, la mia voce non tradiva il terrore che mi urlava dentro.

«Forse lei farebbe meglio a calmarsi», disse l’uomo, ma stava perdendo la compostezza.

Io non cedetti. «Se non ha fatto niente di male, non ha nulla di cui preoccuparsi».

Lui se la prese con la ragazza. «Per favore, vuoi dire qualcosa, cazzo, così possiamo andare tutti avanti con le nostre vite?». Aveva un tono aggressivo. Per me equivaleva a una confessione e finalmente anche il viso di Kit diede a intendere che aveva compreso la gravità della situazione. L’uomo si rese conto di avere perso il suo alleato.

«’Fanculo». Iniziò ad allontanarsi in fretta, oltrepassando il luna park decadente e addentrandosi tra gli alberi.

«Kit, non lasciarlo scappare!», dissi. «Corrigli dietro!».

«Che?». Anche se con un’espressione terrorizzata, fece come gli avevo detto. Il mio gentile e timido Kit rincorse un uomo violento solo perché gliel’avevo chiesto io e perché credeva alla mia versione dei fatti.

Mi accucciai accanto alla ragazza. «Oh, poverina», dissi. «Non temere, sistemeremo tutto». Le sfiorai un braccio con il mio; pelle delicata contro pelle delicata. La guardai meglio; le iridi verdi erano quasi oscurate dalle pupille dilatate. Una nube di capelli neri le incorniciava un viso a forma di cuore, pallido ma bello. Somigliava un po’ a Biancaneve, senza caschetto e corsetto.

«Lui chi è?», le domandai. «Lo conosci?».

Aprì la bocca per parlare, ma ne uscì solo un rantolo strozzato. Lunghi capelli corvini le ricadevano sui vestiti. Afferrò una ciocca, si portò la mano alla tempia e poi staccò le dita come se aspettasse di trovarci sopra del sangue.

«Ti ha strappato i capelli?». Lei non rispose, e li lasciò ricadere a terra. «Oddio, ok, dobbiamo trovare la polizia», dissi. «C’è una piccola guardiola all’ingresso. Ce la fai ad arrivarci?».

Questa volta riuscì a scuotere la testa.

«Puoi dirmi come ti chiami?»

«Beth». Annuì, come se fosse grata di esserselo ricordata.

«Molto bene, Beth, la chiamerò io per te». Il telefono era nella mia borsa, ma l’avevo spento una volta arrivata. Premetti il pulsante e attesi che lo schermo prendesse vita e si illuminasse di verde. Ci volle così tanto che mi rassegnai ad aspettare il ritorno di Kit per mandarlo a cercare aiuto, nella speranza magari che portasse direttamente lui l’uomo dagli agenti, ma non riuscii a immaginarmelo. Per la prima volta provai un brivido di paura per Kit. L’avrebbe colpito? Finalmente il telefono si accese e premetti tre volte il tasto 9, ma non successe nulla. Controllai lo schermo: nessuna tacca. Lo agitai nell’aria per attirare un segnale.

«Devo allontanarmi un po’, per vedere se la ricezione è migliore», le spiegai. «Non andrò molto lontano». Dovetti fare solo una ventina di passi, fino alla macchinina rotta dell’autoscontro, prima di trovare campo; tutto ciò che vedevo di Beth era una scarpa da ginnastica argentata che spuntava da dietro la porta del camper.

«999, qual è la sua emergenza?». La voce era femminile: West Country, giovane. Sullo sfondo si sentiva il consueto brusio da ufficio e fu strano immaginare che all’altro capo della linea si stava svolgendo un’ordinaria giornata di lavoro per un’altra donna; magari stava sorseggiando il tè mentre parlavo.

«Mi trovo al festival di Capo Lizard, vicino Helston, e devo denunciare…». La parola mi rimase intrappolata in gola, poi mi ricomposi. «Devo denunciare uno stupro. No, non io, ho trovato una ragazza e lui le stava… Ci serve la polizia».

Raccolsi l’imbottitura che usciva dal sedile strappato della macchina dell’autoscontro.

«La vittima è cosciente?»

«Oddio, sì. Riesce a camminare, non ha tagli né altro, ma credo che sia… sotto shock. Credo le serva un’ambulanza. Meglio che vengano un’agente e un paramedico femmina».

Allungai il collo per sbirciare tra gli alberi, per farmi un’idea di cosa potesse succedere al di là. Mi sembrava di udire il mormorio della folla in movimento, ma nessuna voce individuale.

«Invieremo i primi agenti disponibili», disse l’operatrice. «Non la lasci sola».

«L’uomo che l’ha fatto, l’ho visto, ma è scappato». L’imbottitura nella mia mano somigliava a zucchero filato. La lasciai volare via.

«Sarebbe in grado di fornire una descrizione?»

«Si chiama Beth, ha i capelli scuri e…».

«Dell’aggressore».

«Oh, sì». Riuscivo a ricordarne il viso con precisione fotografica. «Ha i capelli castani e corti, dritti, una giacca di jeans blu navy, un paio di Levi’s e un paio di Adidas bianche». Era surreale, ridicolo, come se stessi leggendo ad alta voce da una rivista di moda. Una mano sudata sul mio braccio mi fece quasi cadere il telefono. Era Kit, con il fiato corto.

«Un momento», dissi all’operatrice e coprii il ricevitore mentre Kit mi parlava.

«È sparito in mezzo alla folla», disse.

Ripetei e confermai la nostra posizione, servendomi di un’alta bandiera della Water Aid come punto di riferimento, poi terminai la chiamata.

«Era già a metà del campo prima ancora che mi mettessi a correre», disse Kit. «Mi dispiace tanto».

«Ehi», gli dissi, «hai fatto del tuo meglio».

«Merda». Fece un cenno verso il camper. «Lei sta bene? Ha detto niente?».

Scrollai la testa. «Pensi che lo prenderanno?»

«Non lo so. Non so…». Allargò le braccia e si guardò i palmi delle mani vuoti come se potesse trovarci la risposta, poi si strinse sconsolato nelle spalle. «Non ne ho idea».

«Farò meglio a dirle che stanno arrivando».

Beth annuì alla notizia e mormorò: «Grazie». Mi sedetti accanto a lei sui gradini freddi d’acciaio del camper e attesi dieci minuti che sembrarono durare un’eternità.

«È mio», disse lei all’improvviso.

«Come scusa?»

«Quel portafoglio, è mio. Dev’essermi caduto dalla tasca».

Abbassai lo sguardo, leggermente sorpresa di trovarmelo ancora in mano.

«Tieni». Dovetti chiuderle io la mano.

Finalmente Kit ci informò che la polizia stava arrivando. Erano in due, un uomo robusto con la testa rasata e una donna esile con i capelli castano chiaro e la permanente.

«È qui», dissi, anche se era superfluo.

«Bene, cara», disse la poliziotta, abbassandosi alla nostra altezza. «Ti chiami Beth, giusto?». Lei annuì. «Ok, non preoccuparti, Beth. Ti porteremo al sicuro, in una stanza alla centrale dove un dottore ti visiterà».

«Sarà una dottoressa?», domandai.

«Ne abbiamo richiesta una», disse la poliziotta con cipiglio. «Beth, vuoi che qualcuno ti accompagni?». Mi guardò, ma Beth stava già scrollando la testa.

«Non ci conosciamo», dissi. «Sono solo capitata qui per caso».

Il poliziotto si schiarì la voce. «Da qui in poi ci pensiamo noi», mi disse. «Sta arrivando un collega a raccogliere la vostra dichiarazione».

Io e Kit sedemmo sul cofano della macchina dell’autoscontro in attesa di essere interrogati. Mi accanii con più foga sui sedili strappati, mentre lui si rigirava un filo d’erba tra le dita.

«Perché mai ha fatto una cosa del genere, appena dopo l’eclissi?».

Lo guardai costernata. «O in qualsiasi altro momento. Dio, Kit. Non riesco a credere che tu l’abbia detto».

Certe volte le cose non toccavano Kit nel modo in cui toccavano me, anche se una volta spiegatogli perché eri triste o arrabbiata lui capiva sempre il tuo punto di vista. A suo credito c’è da dire che apparve mortificato. «Sì, perdonami, non intendevo dire che… è solo che non capisco perché…».

«Lo so», dissi, gonfiando le guance. «Siamo entrambi sotto shock, immagino». Cercai di tenere in equilibrio una nuvoletta d’imbottitura sul palmo della mano, ma tremava troppo. «Sarei dovuta arrivare prima».

«Magari l’hai fermato prima che le facesse di peggio», disse Kit.

Soppesai quelle parole.

«Siete i miei testimoni?». In piedi davanti a noi c’era una donna che sembrava appena uscita da una strada londinese degli anni Ottanta. Indossava un completo nero lucido e portava i capelli biondi raccolti in un’acconciatura che trasudava serietà e professionalità; il viso era truccato con colori accesi che andavano di moda quando aveva vent’anni e che fosse dannata se aveva il tempo di sistemarsi il trucco.

«Sergente Carol Kent, polizia di Devon e Cornovaglia», disse con una voce che fece scattare entrambi sull’attenti. «Se foste così gentili da accompagnarmi alla stazione del festival, potrò raccogliere le vostre dichiarazioni».

Vicino al palco principale c’erano due strutture prefabbricate dall’aria vissuta. Nella mia c’era un cane poliziotto, un bell’alsaziano, seduto accanto al padrone. Si alzò eccitato, annusando l’aria intorno a me e tirando il guinzaglio, e le mie guance s’imporporarono al rendermi conto che probabilmente aveva colto qualche traccia del fumo di ieri. Qualcuno mi porse una tazza di tè e riferii al sergente Kent ciò che avevo visto, a cominciare dal portafoglio e includendo quanti più dettagli possibile, anche se quando si trattò di descrivere l’espressione sul volto dell’uomo divenni goffa e inarticolata. Mi chiesero le stesse domande all’infinito, come se volessero mettere alla prova la mia buona fede. Continuai a ripetere varianti della stessa frase. «Se solo l’aveste visto… se foste stati presenti, allora capireste».

Nei momenti di silenzio in cui le mie parole venivano trascritte, udii frammenti della conversazione di Kit, lì accanto. Lo sentii dire che non aveva visto l’aggressione, solo la sua conseguenza, e capii che era entrato in modalità scienziato: osserva, registra, senza pregiudizi. In quel momento desiderai con tutto il cuore che avesse visto quello che avevo visto io dietro i camper, anche se più tardi, quando la pazzia ebbe la meglio su di me, fui grata che lui non avesse assistito.

Le nostre dichiarazioni furono trascritte e rilette; dopo avergli comunicato il nostro indirizzo di casa, ci lasciarono liberi di andare.

«Dov’è Beth?», domandai. «Cosa ne sarà di lei?»

«È stata portata in un luogo sicuro», disse Kent con un’aria di chiusura.

Era pomeriggio inoltrato quando finalmente firmammo le nostre dichiarazioni. Anche se c’era un’altra notte di festival ancora, la gente stava già smontando le tende e caricando i portabagagli. Le voci si erano sparse tra la folla. «Qualcuno è andato in overdose nel campo là dietro». «No, a quanto pare è stata una rapina». «Io ho sentito che c’è stata una colluttazione». Nessuno si era avvicinato alla verità.

«Mi farebbe comodo un goccio», disse Kit. Il bar principale non aveva la licenza per i superalcolici, così ci accontentammo della cosa più forte che passava in convento, un sidro torcibudella del posto che vendevano solo per mezza pinta. Ne bevemmo due a testa, troppo in fretta, seduti a gambe incrociate sull’erba. Nessuno di noi lo disse, ma stavamo entrambi scrutando la folla alla ricerca dell’aggressore di Beth.

Anche dopo due giorni di musica dance ininterrotta, il suono lacerante della sirena della polizia fece trasalire tutti. La folla si aprì per lasciar passare una pattuglia, proveniente dalla direzione dei prefabbricati, che si fece largo rombando a passo d’uomo. Tutti fissavano imbambolati il finestrino posteriore, ma solo io e Kit potevamo sapere il significato – se non l’identità – del passeggero. Si ritraeva dal finestrino, ma riuscivo comunque a vederne il profilo, che avevo memorizzato: capelli castani dritti e una giacca blu navy. Se non fossi già stata seduta, mi sarei accasciata per il sollievo.

«L’hanno preso», dissi.

 

La verità sul caso Beth Taylor
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