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Kit
19 marzo 2015
Dopo la disfatta del video virale, mi serve un gesto qualsiasi per placare Laura; l’equivalente del tornare a casa con fiori e una bottiglia di champagne, l’attitudine romantica che così spesso mi è stato rinfacciato di non possedere. Il filmato girato da Darren ha immortalato due delle mie peculiarità: la prima è la maglietta del Cile ’91, ora arrotolata in una tasca laterale del mio zaino, dove resterà finché non tornerò a Londra, e l’altra la barba rossa, che mi rende immediatamente riconoscibile persino in questo Paese vichingo. Sbarazzarmene è il modo migliore cui riesca a pensare per riguadagnarmi l’anonimato. È così che mi trovo da Me Time, il salone di bellezza della Princess Celeste. È una stanza terrificante priva di oblò che sa di capelli da donna e prodotti chimici alieni. C’è un unico lavandino con doccino e l’avvallamento per il collo che ricorda un patibolo. Una signora di una certa età con un diamante al dito e scarpe ortopediche ai piedi sfoglia «Hello!» al di sotto di un casco da parrucchiera vecchio stile.
C’è il listino prezzi al bancone e scorro con gli occhi l’elenco dei “servizi”. Non mi servono né taglio né piega e non ho bisogno di sapere cosa sia la ceretta hollywoodiana per essere sicuro di non volerne una. Non riesco a trovare ciò che cerco. Detesto non attenermi al menu in qualsiasi contesto, ma necessità disperate richiedono misure estreme.
«Posso aiutarla?». Una donna dell’età di mia madre sbuca impettita da una porta a griglia. Ha i capelli corti, fruscianti, con strisce color prugna e bordeaux.
«Immagino che non facciate una bella rasatura tradizionale, vero?»
«Non del genere classico». Mi sorride gentilmente. «Rasoi vicini alla gola e mare mosso non sono una grande combinazione. Se vuole tagliarsi la barba posso provvedere con un paio di forbici e un rasoio di sicurezza, in caso».
«Quanto viene?».
Mi scruta con attenzione, percependo evidentemente la mia disperazione.
«Trenta sterline». Sul suo sorriso ora sembra aleggiare un’ombra di derisione e invece di “trenta cazzo di sterline?”, che minaccia di uscirmi dalla bocca, rispondo: «Ok, grazie».
Mi fa indossare un’enorme pettorina e lega un asciugamano dietro il mio collo; in altre circostanze potrei quasi essere comodo. Al tocco delle forbici, ruvidi peli rossi cadono sul pavimento. Mi aspetto che mi spalmi la crema da barba, ma mi insapona con un pennello e del sapone, così identico a quello usato da mio padre che improvvisamente mi ritrovo in Cile per l’eclissi del 1991. Io e Mac avevamo circa tredici anni, e probabilmente tre peli in croce, ma eravamo determinati a iniziare a raderci, e quando papà era svenuto sulla spiaggia avevamo frugato nel suo necessaire e ci eravamo serviti. Stavamo piangendo dal ridere mentre ci insaponavamo, poi usando il suo vecchio e malandato rasoio, ancora pieno dei suoi peli che andavano ingrigendosi, ci eravamo tagliati le facce imberbi.
Quel ricordo mi trascina verso un altro; durante i nostri viaggi con papà abbiamo avuto molte delle nostre prime esperienze, di solito mentre lui era in giro a bere o smaltiva la sbornia dormendo nella stanza di un albergo o in una cabina sulla spiaggia, oppure in un camper da qualche parte. L’estate successiva fumammo la nostra prima sigaretta, rubata dal pacchetto di American Spirit che fumava all’epoca; il tabacco era organico, perciò secondo papà equivaleva in pratica a una pastiglia di vitamina. Non ridemmo in quell’occasione; era una cosa mortalmente seria, un goffo rituale che divenne poi divertente quando capimmo che se si voleva accendere la sigaretta bisognava anche inspirare una boccata allo stesso tempo. Superato quel passo, mi feci il primo tiro e per poco non svenni. Mac disse che scivolava in gola meglio dell’ossigeno.
L’anno successivo fu quello del Brasile ’94. Avevamo sedici anni e papà organizzò un viaggio on the road; guidammo dall’aeroporto del New Mexico fino in Brasile, dove si trovavano i suoi vecchi amici. Per strada ci ubriacammo per la prima volta, rubando una bottiglia da un litro di rum Whyte & Mackay che pensavo ci sarebbe durato una settimana. Ce ne scolammo metà nel giro di mezz’ora. Vomitammo entrambi, e solo Mac ne volle ancora. Da allora io non l’ho più toccato.
In quel viaggio avrei dovuto dare anche il mio primo bacio, ma Mac aveva altri programmi.
Il rum era sparito, ma c’era una bottiglia di gin, che ci portammo in spiaggia, dove la notte tutti i cacciatori di eclissi avevano acceso i falò e si erano messi a bere. Si trattava per lo più di americani e il nostro accento londinese era un afrodisiaco. Mentre Mac diceva a una punk diciassettenne piuttosto sexy: «Lo vedo che sei un tipo molto spirituale», io parlai tranquillamente con una ragazza di nome Ashley, che aveva quel genere di bellezza dimessa che a una prima occhiata era facile lasciarsi sfuggire. Era acuta, divertente e quando mi chiese se volessi «pomiciare» io dissi di sì senza esitare e il minuto successivo corsi a pisciare ai piedi della scogliera. Quando tornai al falò, Ashley era sdraiata sulla sabbia, mentre il mio gemello si dimenava sopra di lei con le mani sul suo reggiseno. Persino allora la sua vita sessuale era già una serie di accoppiamenti che si accavallavano. La sua giustificazione per l’infedeltà seriale era che il tempo era perfetto per assolvere i peccati; più remoto era un fatto, più facile era vivere fino ad arrivare a convincersi di non averlo commesso. Sapere che il senso di colpa prima o poi svanirà, sostiene, lo fa sparire ancora più in fretta.
È sempre stato un gran cazzone.
Più tardi, dopo che Ashley si era ripulita dalla sabbia ed era rientrata a casa dai suoi, Mac non capì perché ero così arrabbiato; disse addirittura di averla “preparata” per me. Come se una qualsiasi ragazza mi avesse voluto, dopo essere stata con lui. È un ricordo amaro che provoca ancora una smorfia e la parrucchiera mi pizzica la pelle. Spalanco gli occhi; allo specchio, un rivolo rosso scorre tra crepacci bianchi.
«Oh, sciocchino», commenta la donna. Resto immobile mentre lei finisce di asportarmi dalla faccia quello che è rimasto della barba. Christopher Smith è sparito e Kit McCall prende il suo posto. Beth si aspetterà un uomo barbuto, e spero che se dovessimo incontrarci questo mi permetterà di guadagnare qualche secondo per interpretare i suoi segnali.
Il taglio sul mio viso sanguina ogni volta che sorrido e quando spedisco a Laura le mie scuse sotto forma di selfie, le mostro solo il lato buono.
Di nuovo sul ponte, il sole sta tramontando su Tórshavn. Decido di fermarmi qui invece di rischiare la sorte al bar di sotto. La nave luccica; i riflessi sono ovunque, sulle porte a vetri, sull’ottone lucidato e sulle cromature incurvate. Ogni volta che colgo il mio profilo in uno di questi surrogati di specchi sono sempre nella stessa posizione: mi accarezzo il mento, la parodia di un filosofo o del professore che non sono mai diventato.