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Laura
10 agosto 1999
L’autobus arrivò a destinazione da qualche parte a sud di Helston. I poliziotti del posto, con indosso giacche fluorescenti, ci tenevano d’occhio. Al margine della strada, Ling era appoggiata al camper con la testa piegata all’indietro, cercando di prendere il sole che brillava fioco da dietro una cortina diafana di nubi. L’insegna di cartone dipinta a mano accanto a lei diceva: TENDA PESANTE? UN PASSAGGIO A CAPO LIZARD PER £ 2.
Quando sentì la mia voce, mi guardò e sorrise.
«Non mi aspettavo un servizio taxi», dissi.
«Gli autobus non si spingono più in là di così e il sito si trova a chilometri di distanza. E poi è un modo per racimolare qualche soldo».
Allungò la mano per ricevere il pagamento della gente in coda, aprì lo sportello del camper e il variopinto gruppetto si accomodò a bordo. Alla fine del secolo, le tribù giovanili stavano perdendo contorni definiti: insieme a punk e dark giravano festaiole con ali da fatina e fighetti dell’Essex con jeans alla moda. Un sacco a pelo rosso, pieno di polvere, era arrotolato in un angolo ed era impossibile non sentire l’odore di erba. Chi non riuscì a trovare un posto a sedere, si sistemò a gambe incrociate sul pavimento sporco, deliziato di potersi spaparanzare e fumare un po’ dopo nove ore passate su un autobus della National Express, non solo senza essere punito, ma venendo pure incoraggiato.
Io viaggiai sul sedile del passeggero con Ling e appoggiai i piedi sul cruscotto.
«Kit è molto risentito per il tempo?», le domandai. Lei alzò gli occhi al cielo.
«Non ho mai visto nessuno mettere un broncio simile. Io e Mac continuiamo a dirgli che l’eclissi ci sarà comunque, che il festival ci sarà comunque, spetta solo a lui decidere se goderselo o meno».
«Vuole che sia tutto perfetto», le spiegai.
«Non credo che nulla lo sarà. Per via del meteo anche l’affluenza è ridotta», disse. «Si prevedevano ventimila persone. Rory – il contadino che possiede la terra – diceva che gliene servono quindicimila solo per raggiungere il pareggio del bilancio e non ce ne saranno più di cinquemila, qui. Persino contando gli arrivi dell’ultimo momento, fa abbastanza schifo».
Sospirai. «Ci sono buone notizie, almeno?».
Ling arricciò il naso, sovrappensiero. «Be’, il freddo implica che la gente abbia voglia di bevande calde. Siamo ancora in perdita, però. Potremmo quasi chiudere tutto con un giorno di anticipo e goderci la musica invece – oh, cazzo, sono andata troppo avanti».
Inchiodò e io feci forza sulle gambe, ma gli altri dietro furono catapultati in avanti. «Scusate!», gridò Ling da sopra la spalla. Fece retromarcia girando piano intorno a un angolo ricoperto di cespugli e poi tornò indietro fino a una strada sterrata. «C’è un altro motivo per cui nessuno si è palesato», disse, mentre ballavamo sui sassi. «La gente del posto non sprizza esattamente gioia da tutti i pori all’idea del festival e hanno iniziato a nascondere la segnaletica. Non solo quella speciale per il festival di Capo Lizard, ma proprio i manifesti ufficiali che indicano dove si trovano tutti i villaggi eccetera. È difficile distinguere una stradina dall’altra».
«È questo il problema delle campagne», commentai, mentre sparivamo dentro un tunnel di alberi; ombre frondose nuotavano come pesci sul parabrezza. «Non ci sono sufficienti punti di riferimento per orientarsi, ci servirebbe un bel McDonald’s in mezzo a una rotonda o qualcosa del genere».
Uscimmo dal tunnel e sbucammo davanti a un imponente muro perimetrale di pannelli d’alluminio. All’ingresso c’era altra polizia, compresi agenti a cavallo. Il camper fu perquisito da cima a fondo alla ricerca di clandestini e, informalmente, droghe da due uomini massicci con i gilet fosforescenti; i biglietti di carta furono consegnati in cambio di braccialetti. Io e Ling proseguimmo da sole: l’adesivo del catering sul finestrino ci consentiva l’accesso ai campi. Il camper saltellò sul terreno accidentato, oltrepassammo un luna park e un enorme tendone azzurro addobbato con luminosi festoni dorati. Ospitava tutto l’occorrente per il festival: bandiere, tamburi, una bancarella di falafel, attrazioni della manifestazione e un uomo a petto nudo su trampoli ricoperti di tintura di guado, ma senza folla sembrava solo la scena apocalittica di un disastro umanitario. C’erano letteralmente balle di fieno che rotolavano in mezzo al campo ingiallito.
Ling parcheggiò il camper accanto alle nostre tende: una piccola, rossa e a igloo per loro, un’altra più grande, verde e canadese per me e Kit. Aprii la zip, accolta dal suono familiare delle vacanze in campeggio e dei festival passati, e notai due sacchi a pelo puliti chiusi insieme e srotolati sopra un materasso gonfiabile matrimoniale. Da un telo steso ad asciugare proveniva un debole profumo di sapone.
La nostra bancarella era stata allestita sotto una quercia, e consisteva in un ampio tendone aperto davanti. Mac stava in piedi accanto a una teiera ribollente. Uno strobo gli girava sopra la testa gettando scaglie di luce simili a diamanti sul suo viso e sentivo nell’aria il delicato odore di cannella del chai, il tè speziato che all’epoca bevevamo tutti. Le campane eoliche pendevano dai rami e tintinnavano al vento, ma erano talmente tante che il suono provocato non era particolarmente rilassante.
«C’è ancora tempo per far girare la voce», disse dentro la sua tazza, ma mancavano meno di venti ore all’ombra.
Kit sbucò dal misterioso interno, portando con sé un sacchetto della spazzatura. Non si era rasato dall’ultima volta che l’avevo visto e i peli della barba risaltavano come scintille contro la sua pelle.
«Ehi», dissi piano. Era così depresso che gli ci volle qualche secondo per riconoscermi, ma poi un sorriso lo trasformò e provai la consueta sensazione di orgoglio per essere capace di strapparlo al suo cattivo umore. Lasciò cadere a terra il sacchetto, ci baciammo e sentii la tensione che mi abbandonava.
«Hai un odore migliore di quanto mi aspettassi», gli dissi.
«Rory ci ha messo a disposizione la fattoria e si può pagare per farsi una doccia calda», spiegò.
«Già», sbuffò Mac. «Due giorni e gli hippy del week-end stanno scoprendo i limiti della propria igiene». Lo disse come se sguazzare nella sporcizia fosse qualcosa di cui andare fieri.
«Ignoralo», disse Kit. «Le cinque sterline meglio spese della mia vita». Si voltò verso Mac. «E non è colpa di Rory, non siamo gli unici che stanno perdendo soldi questo fine settimana». Mi sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Com’è andato il colloquio?»
«Ok, penso. Vedremo».
«Scommetto che sei stata brillante», disse con distacco, mentre alzava lo sguardo su un grosso nuvolone grigio che veleggiava in cielo.
«Le nubi potrebbe passare», gli dissi. «Non si sa mai, quelli del meteo si sbagliano in continuazione». Il mio tentativo di rinfrancarlo gli rimbalzò addosso; borbottò qualcosa sulle nuvole e le docce finché qualcos’altro non catturò la sua attenzione. «Oh, cosa succede?». Pigiò un pulsante sulla teiera. «Si è di nuovo inceppato, c’è un punto in cui fa contatto sul retro. Resta qui e bevi qualcosa mentre io vado a sistemarlo». Mi diede un bacio in cima alla testa e sparì sul retro del tendone.
Mac accese un lungo spinello sottile. Ne ispirai un grosso tiro per scrollarmi di dosso Londra e resettare la mente, poi lo passai a Ling. All’epoca ero in grado di prendere e mollare le droghe, e ne andavo fiera. La dipendenza aveva già ghermito profondamente Lachlan e la vedevo acquattarsi in attesa in Mac, quindi mi ritenevo fortunata di non avere quella malattia. Non mi rendevo conto, naturalmente, che il mio veleno l’avevo già dentro, sostanze chimiche che il mio cervello era in grado di produrre al solo sentire una porta sbattere o un fiammifero che si accendeva. Gli ormoni dello stress, adrenalina e cortisolo, se pompati in quantità sufficiente, rivaleggiavano con qualsiasi cosa si potesse fumare o inghiottire. Un anno dopo il Lizard avrei invidiato chi si disintossicava in riabilitazione. Quando soffri di attacchi d’ansia, ti porti dietro un rifornimento inesauribile.
Comunque ero piacevolmente ebbra quando Kit fu di ritorno, dopo aver vinto la battaglia con il problematico aggeggio. Mac gli sventolò lo spinello sotto al naso.
«Coraggio, Kit. Fatti passare il broncio».
«Voglio restare lucido per l’eclissi», disse Kit con sdegno.
«Ma c’è tempo fino a domani», puntualizzò Ling.
«Non temere», disse Mac, che prendeva sempre sul personale qualsiasi rifiuto di una cortesia. «Se attaccherà con le droghe con la stessa rapidità con cui si è dato al sesso e al rock and roll, si farà la sua prima pasticca al quarantesimo compleanno».
Mi aspettavo che Kit sarebbe scoppiato a ridere – avevamo avuto la nostra dose di serate folli – ma al contrario si rabbuiò. Solo Mac era capace di irritarlo tanto. A un certo punto del loro rapporto, probabilmente nei dieci minuti tra la nascita di Mac e quella di Kit, forse quando erano insieme nell’utero, sembrava fosse stato deciso che era Mac ad avere il potere. Si era persino appropriato del loro cognome facendone il proprio soprannome, qualcosa che nessuno a parte me trovava strano. Non è che dovesse sempre avere ragione lui, anche se più di una volta avevo visto Kit banalizzare una discussione per affrettarne la conclusione; semplicemente la sua opinione era più importante di quella di Kit.
«Vado a disfare i bagagli», sentenziai e attraversai il campo, certa che Kit mi sarebbe venuto dietro. Non disfacemmo niente, andammo a letto, o meglio nel sacco a pelo. Il sesso all’epoca era una zavorra da gettare fuoribordo prima di poter procedere con qualsiasi altra cosa. Dopo, restammo sdraiati alla luce verdognola della tenda, con le mie mutandine intorno a una caviglia.
«Quanto siamo lontani dal mare?», gli domandai.
«Una ventina di minuti, ma se hai voglia di farti una passeggiata, potremmo andare a Goonhilly Downs. È da lì che fu trasmesso il primissimo segnale satellitare. Hanno queste enormi antenne, alte come grattacieli».
«Non è esattamente la passeggiata romantica che avevo in mente».
«Lo è, in un certo senso», disse lui. «Proprio in mezzo a tutta questa tecnologia c’è una miriade di menhir e megaliti sparsi in giro. E ci hanno costruito una dannatissima stazione satellitare! Anche se ora è stata smantellata».
«Ti amo», gli dissi. «Ma non al punto di venire a vedere un’antenna satellitare quando laggiù c’è la costa della Cornovaglia».
Sventolammo i braccialetti per fuggire dal festival e imboccammo la litoranea che portava a Capo Lizard. La cittadina, che con ogni evidenza si era adagiata sugli allori della propria posizione più a sud dell’Inghilterra, non aveva molto da offrire. Era piena di case mobili e station-wagon; i turisti facevano la fila per tè e biscotti davanti a un caffè malconcio. Una stradina di campagna si restringeva in un sentiero scosceso. Da lontano il mare sembrava piombo fuso, poi all’improvviso ci trovammo sull’orlo della scogliera a guardare gorghi color acquamarina tra i massi.
«Ecco perché tutte quelle navi di contrabbandieri facevano naufragio», dissi quando una grossa onda si ritirò a rivelare rocce nere e appuntite, come i denti di un dinosauro.
«Sarei un bravo contrabbandiere, ricercato per i sette mari», disse Kit e scoppiammo a ridere perché era così difficile immaginare un uomo meno piratesco di lui. «Ti sarei venuto incontro in braghe sporche di salsedine e con una sciabola da abbordaggio in bocca».
«E io avrei nascosto i miei rubini nella sottogonna».
«Arr!», disse e lo tirai indietro. Mi affondò le dita tra i capelli e mi attirò a sé.
«Voglio solo che domani sia perfetto», disse.
«La perfezione non esiste».
«Guarda noi due».
«Non fare l’idiota».
Sorrise e mi lasciò andare i capelli.
Kit crede ancora che le cose siano andate storte quel fine settimana per via di quanto è accaduto, che se avessi svoltato a sinistra invece che a destra negli istanti successivi all’eclissi avremmo continuato a veleggiare lungo quel perfetto ruscello dorato, ma si sbaglia. Eravamo giovani ed eravamo stati fortunati, ma non eravamo immuni alla merda che investe tutti gli altri. Persino – soprattutto – fare del buon sesso poi è insostenibile: il tempo e le banalità della vita quotidiana alla fine avrebbero consumato la patina brillante. Piuttosto, se adesso siamo così forti è a causa del trauma che ci ha temprati, ma Kit non si lascerà persuadere. Al di là di quella teoria delle vite parallele di cui blatera sempre, con infiniti universi dove tutte le azioni possibili hanno luogo, non si può vivere la stessa esistenza due volte, non si può tornare indietro e rifare le cose diversamente. Non sapremo mai cosa ne sarebbe stato della nostra relazione senza quella prova. Non abbiamo che questa, di relazione.