61
Kit
21 marzo 2015
La pinta e il tempo extra non mi aiutano in alcun modo a rilassarmi. Il panico è un antidoto all’alcol. A metà boccale cado preda di un nuovo terrore: forse Laura non è arrabbiata, forse è in ospedale; forse qualcosa non va con la gravidanza; forse per colpa di quello che ha scoperto da Beth c’è qualcosa che non va con i bambini – devo allungare la mano per ritrovare l’equilibrio. L’idea di un travaglio spontaneo e anticipato dovuto allo shock sembra uscire direttamente da un romanzo vittoriano, ma sono cose che capitano. Qualunque cosa può capitare, dovrei saperlo. Forse è stata portata via di corsa prima di riuscire a prendere il telefono. Gesù, forse è priva di sensi. Perché non ci ho pensato prima? All’improvviso tornare a casa mi sembra urgente quanto prima lo era starne lontano.
Abbandono ciò che avanza della birra, m’infilo lo zaino in spalla e m’incammino verso Wilbraham Road. Adesso che voglio andare veloce, l’aria stessa sembra remarmi contro, aggrappandosi alle mie caviglie. Qualcuno ha malamente parcheggiato una Fiat bianca davanti a casa e c’è un biglietto del parcheggio sotto uno dei tergicristalli. Sui gradini d’ingresso mi tolgo lo zaino e mi sento come se potessi volare via da un momento all’altro. Una betoniera rumina nel giardino accanto, ma non c’è traccia dei muratori.
Quando infilo la chiave, scopro che c’è la catena. Questo vuol dire che mi vuole tenere fuori o che l’ha tenuta tutta la mattina ed è sdraiata da qualche parte, impossibilitata a muoversi, o peggio. Mi abbasso verso la buca delle lettere; scorgo un movimento in cucina, un’ombra che copre la luce. Il sollievo nel saperla in piedi viene rimpiazzato dalla vecchia paura: è infuriata con me.
«Laura?». La mia voce riecheggia nel corridoio silenzioso. Vedo solo una sagoma ondeggiare. Scivolo lungo la porta e parlo attraverso la fessura. «Tesoro, ti prego, apri e parliamone».
Sento un singhiozzo soffocato provenire dalla cucina e avverto una morsa alle viscere: preferirei la rabbia alle lacrime. Estraggo di tasca il coltellino svizzero e apro svariate lame prima di decidermi per il gancetto che funziona da apribottiglie.
«Non hai idea di quanto mi dispiaccia», dico, lottando ciecamente con la catena alla porta. «È stata un’eccezione, te lo giuro. Ho amato sempre e solo te, lo sai». Il mio gancio artiglia la catena e il peso inizia a scivolare. «Ci penso tutti i giorni», le dico. «Vorrei tornare indietro nel tempo e non passare la notte con lei, è servito solo a farmi capire quanto ti ami. Per favore, non lasciare che questo rovini le cose, non per un errore che risale a secoli fa. Abbiamo così tanto da…».
La catena si sgancia così di colpo che per poco non cado in avanti, mentre la porta si spalanca. Appoggio lo zaino a terra e raddrizzo il mappamondo illuminato che è caduto. Mi faccio forza prima di entrare in cucina, piegando le braccia come un lottatore che mostri i muscoli, come se mi aspettasse un confronto fisico. Mi preparo per piccoli pugni e dita affusolate che mi artigliano la faccia.
Quello che trovo è molto peggio e così inatteso che mi ci vuole qualche secondo perché il mio cervello processi l’immagine, per non parlare del suo significato.
Laura è seduta al tavolo. I miei occhi continuano a rimbalzare dalla sua pancia al suo viso; una piccola macchia di sangue ovale sotto un taglio nella maglietta e la sua guancia sinistra gonfia e violacea. Con lei c’è Beth e – riconosco in un istante terrificante – Jamie Balcombe. Con una bella camicia e un paio di pantaloni beige, e un pugno carnoso che stringe un coltello dalla lama insanguinata.
«Kit, no», dice Beth, scrollando la testa.
Cosa, cosa? Come diavolo è possibile che si sia passati da Beth che ha trovato Laura a questo? Beth ha una sorta di livido intorno al collo e la guancia di Laura sta tendendo verso il nero. Mi ero sempre immaginato il viso di mia moglie, una volta scoperto di Beth, contorto dalla rabbia, invece è schiacciato, ripiegato su se stesso. Ha gli occhi asciutti.
Davanti a Beth c’è un foglio di carta. Lettere blu aguzze corrono in linee sbilenche. Il mio passato e il mio sconcertante presente non si riconnettono, ma si allontanano come due calamite che si respingono.
«Che diavolo sta succedendo qui?». Mi rivolgo solo a Jamie, perché è chiaro che è lui a comandare. Nessuno risponde. «Che diavolo sta succedendo qui?».
Laura guarda prima me e poi Beth, poi di nuovo me e distoglie piano lo sguardo. È peggio di qualsiasi scoppio d’ira.
Jamie riprende il controllo.
«Kit!», dice allegro, come se fosse casa sua e io fossi un ospite inatteso. Il suo atteggiamento rispecchia esattamente quello che aveva in Cornovaglia, negli istanti successivi all’interruzione di Laura. Per un secondo lo rivedo com’era allora: mi ricordo i jeans che indossava, le scarpe, i capelli appuntiti. Il ricordo è così vivido che minaccia di sovrascriversi alla scena davanti ai miei occhi.
Il mio cellulare è nello zaino davanti alla porta d’ingresso. Mi giro per andarlo a prendere. «Devo chiamare la polizia».
«No, invece». Il tono di Jamie è sprezzante persino mentre avvicina la lama del coltello alla pancia di Laura. Le ha solo scalfito la pelle, tutto qui; la macchia non si sta allargando. Mi servirebbero i riflessi di un ragno e la forza di un orso per riuscire a strapparglielo di mano prima che possa fare danni, ma sono troppo lontano e troppo debole. «Quello che intendo», continua Jamie, «è che non c’è fretta. La polizia verrà coinvolta presto o tardi, non temere per quello. Non appena i miei avvocati se ne saranno occupati. Siamo già a buon punto, comunque».
Le ragazze non mi guardano e non si guardano tra loro. Di tanto in tanto Laura alza gli occhi verso Beth e poi li riabbassa, come se le palpebre fossero fatte di piombo. Inconsapevole capendo solo ora cosa sia davvero la paura, non mi resta altra scelta che assecondarlo. «Cosa stai facendo, Jamie?». Spero che il mio tono di voce suoni amichevole quanto il suo.
«Sto solo convincendo le ragazze a rettificare la loro versione dei fatti, a dire quello che avrebbero dovuto dire in Cornovaglia. Ad ammettere che erano d’accordo, che tutto questo cazzo di casino è una storiella inventata da loro, una strana idea femminile di uno scherzo».
Quindici anni, il pensiero l’ha ossessionato per quindici anni. Al di là della campagna, dei discorsi e del sito Internet questo era rimasto il suo piano A. Persino in mezzo al terrore, c’è spazio per lasciarmi colpire dalla sua pazienza certosina. Fa un cenno con la testa in direzione di Beth. «Questa qui è mesi che fa il lavaggio del cervello a mia moglie. Erano un po’ riluttanti, non volevano assumersi la responsabilità di ciò che hanno fatto per paura delle conseguenze. Spergiuro in un processo per stupro è una cosa grave e non è un qualsiasi vecchio processo. Faranno un esempio di te, Laura». Lei trasale dinanzi a quell’accusa insensata, ma anche parole assurde colpiscono nel vivo sotto la minaccia di una lama appuntita.
Il coltello nella mano di Jamie inizia a tremare, come la sua voce. La maschera gli cala al rallentatore. «Perciò capirai perché sono preoccupate, ma andrà tutto bene per te. Non finirai accusato di un reato di aggressione sessuale come il sottoscritto».
Laura ha un tremito così violento che lo sento riverberare sulla mia pelle.
«Ma, Jamie, non sarà mai ammissibile in nessun tribunale. Queste…», sono costretto a trattenermi dal fare il gesto delle virgolette con le dita, «dichiarazioni valgono meno della carta su cui sono state scritte, dovrai saperlo».
«Questo è solo il primo passo», dice. «Resteresti sbalordito da cosa non è in grado di fare un buon avvocato». I suoi avvocati gli sono stati di scarso aiuto già in passato, ricordo. Potrei non riuscire a capire del tutto la situazione, ma so che non è il caso di contraddirlo. «Senti», continua, «non voglio fare loro del male, non ho mai aggredito una donna, ma ho bisogno che finiscano di scrivere le loro dichiarazioni e che ritrattino quanto detto in tribunale. È della mia vita che si sta parlando qui, della mia reputazione!».
È sul punto di perdere il controllo. «Ok». Non so cosa fare a parte guadagnare tempo per Laura e i miei bambini. «Perché non posi il coltello e non le lasci andare? Sono sicuro che possiamo sistemare le cose anche senza di loro».
«In realtà no, ho aspettato per quindici cazzo di anni di riabilitare il mio nome». Alla parolaccia la sua voce si alza di un’ottava, facendolo suonare allo stesso tempo terrificante e ridicolo. Fa un istante di pausa per respirare e ricomporsi. «Perciò mi perdonerai se andrò fino in fondo. Avanti, Beth, continua. Prima finisci, prima possiamo tutti tornare alle nostre vite. O meglio, io potrò». Beth prende di nuovo in mano la penna e poi si blocca a mezz’aria, mentre Jamie alza la mano e rinizia a parlare. «In effetti, Kit, mi domando se anche tu non debba riscrivere la tua dichiarazione. Anche se, a essere onesti, la loro getterà la tua sotto la nuova luce di cui abbiamo bisogno. Non eri realmente al corrente delle cose, no? Non hai fatto altro che confermare quanto ha detto la tua signora. Non ci hai mai visti farlo». Al tavolo, Laura trasale. «Anche se vorrei che l’avessi fatto, sono sicuro che avresti capito cosa stava succedendo nell’arco di un secondo». Alla fine, Laura mi guarda. Mi fissa, ma ora sta piangendo e quello sguardo può significare “ti prego salvami”, così come “ce la caveremo”, oppure “ti odio”. Tutto il potere nella stanza è concentrato in una lama d’acciaio affilata. Con Jamie così tanto più vicino a Laura di quanto lo sia io, potrebbe persino esserci del filo spinato a trattenermi.
«Beth, possiamo finire, per favore?», dice. È la mia immaginazione o la sua voce sta perdendo la convinzione precedente? «Mi rileggeresti l’ultima frase che hai scritto, così riprendiamo da lì?».
La penna le trema tra le dita, ma non dice niente. Non alza nemmeno gli occhi dalla pagina.
«Bene, continuerò a dettare io allora». Si schiarisce la voce. «Sono profondamente dispiaciuta di aver travisato qualcosa di perfettamente naturale e piacevole. Chiedo scusa a Jamie e Antonia Balcombe e alle loro famiglie per il disagio causato dalle mie false accuse. Sono disposta a rilasciare una dichiarazione in tribunale e…», la punta del coltello disegna motivi leggeri, come se Jamie stesse intagliando quelle parole nell’aria, «ad accettare qualsiasi azione civile o penale nei miei confronti come conseguenza della ritrattazione della mia deposizione originaria». Volta la testa verso di me. «A essere onesti, potremmo concludere la dichiarazione di Laura nello stesso modo».
La mano di Beth ha smesso di muoversi.
«Scrivi», ordina Jamie. Il coltello nella sua mano trema pericolosamente. Le lacrime di Laura brillano alla base del collo, mentre Beth abbassa la penna.
«Per favore, fa’ come dice», la sprona Laura.
«Laura ha ragione». È la prima volta che parlo a Beth dal giorno del vetro rotto. «Non ha alcun valore legale, non avrai problemi in tribunale». Sono sul punto di dirle “fallo per salvare le nostre vite”, ma l’istinto mi suggerisce che verbalizzare una cosa così ovvia sarebbe un errore; farebbe esplodere la fragile bolla che separa la realtà dalla negazione.
«Non posso», dice Beth. «Non posso mentire». Qualcosa si è sciolto in lei, da quando sono arrivato. «Mi hai violentata», dice e quella semplice frase di tre parole fa fermare tutto quanto. Cresce fino a riempire la nostra piccola cucina. L’unico suono che si sente è quello della betoniera nel giardino dei vicini. «Mi hai seguita in un posto appartato, mi hai bloccata a terra e mi hai stuprata. L’hai rifatto in tribunale e l’hai rifatto su Internet, e hai continuato a violentarmi da allora. L’hai fatto a tua moglie, l’hai fatto a quella ragazza e l’hai fatto a Dio solo sa quante altre persone».
«Beth, ti prego, fa’ solo ciò che vuole», dice Laura. Una piccola parte di me non concentrata sulla sopravvivenza s’interroga sulla ragazza e sulla moglie, ma Beth guarda solo Jamie. Improvvisamente intuisco cosa stia facendo. Sta tentando il tutto per tutto, sta bruciando tutto il carburante come un razzo in fase di rientro; non ne avrà bisogno dove sta andando.
«Mi hai stuprata». Le parole le escono di bocca simili ad aghi appuntiti.
Sembro l’unico ad accorgersi che il coltello di Jamie si sta allontanando dal pancione di Laura, in modo incerto ma costante, come l’ago di una bussola, e si sta avvicinando a Beth.
«Non potrei scrivere ciò che mi chiedi nemmeno se sapessi che poi daresti fuoco al foglio».
Ragiono in fretta; se afferrassi il suo avambraccio, invece della mano, riuscirei a gettare via il coltello. Noi siamo in tre, lui è da solo, ma sono sempre stato più bravo a pensare che ad agire e sono ancora troppo distante quando Jamie tira indietro il braccio e affonda la lama nel fianco di Beth. Rimbalza in un modo che suggerisce che ha colpito una costola, ma riaffonda di nuovo e questa volta i primi due centimetri della lama spariscono.
Non so chi gridi per primo.
Lui ritira il coltello e il sangue macchia l’acciaio. Beth cade a peso morto sul pavimento.
Io reagisco subito, ma mia moglie arriva prima di me e con un colpo toglie il mio Sabatier di mano a Jamie; il coltello fa una capriola in aria, prima con il manico in su e la lama lucida in giù, poi con il manico in giù e la lama in su, e per un terribile istante ho l’impressione che il bordo tagliente si conficcherà nel palmo della mano di Laura; ma riesce solo a sfiorare il manico con la punta delle dita.
«Stronza!». Jamie è già a metà strada verso il ceppo portacoltelli e il viso di Laura è sbiancato per il panico, mentre il coltello le scivola di mano e atterra sul tavolo, dove solo io posso afferrarlo.
Quell’arma è al contempo familiare ed estranea nella mia mano, mentre scatto in avanti e affondo la lama affilata nella sua gola. Per un secondo avverto una resistenza, probabilmente il pomo d’Adamo, poi la lama scivola di lato, mancando la colonna vertebrale; il resto mi fa pensare a un coltello che affonda nel gelato e, dopo pochi secondi, la punta appare dal suo collo simile a una pinna di squalo. Mi ritiro con una fretta futile: è fatta. Il coltello mi cade di mano, rimbalzando a terra nello stesso istante in cui Jamie si accascia sulle piastrelle con un tonfo. Il suo corpo giace accanto a quello di Beth. Non si capisce più di chi sia il sangue. È tutto rosso, il pavimento della cucina è un mare patinato. Jamie gorgoglia e poi erutta un geyser color cremisi che inonda tutto – me, Laura, le pareti, i mobili – di un leggero spruzzo rosato. Resto a guardare, folgorato, mentre i suoi occhi azzurri si appannano.
Poi resto pietrificato.
Laura calpesta il corpo di Jamie e si inginocchia nella pozza di sangue.
«Beth?»
«Laura, io…».
«Chiama una cazzo di ambulanza!», mi grida contro. E solo a quel punto torno in me, raggiungo il telefono più vicino, un BlackBerry, e digito ferocemente i numeri, spiegando che ci serve un’ambulanza perché c’è stato un doppio accoltellamento e due vittime. Comunico l’indirizzo e mi ricordo persino l’alfabeto fonetico, poi stupidamente domando se abbiano bisogno di un permesso di parcheggio e mi rassicurano di no.
Mentre parlo, Laura è a quattro zampe e culla Beth. Con calma e lungimiranza ha preso i panni da cucina di scorta dal cassetto e li ha piegati a mo’ di compresse per cercare di arginare l’emorragia. Il primo è già impregnato.
«Sono per strada», le dico. «Come va?»
«Non lo so, non so un cazzo», dice, e poi rivolgendosi a Beth: «Tieni gli occhi aperti, chiaro? Resta sveglia». Con le dita insanguinate scosta una ciocca di capelli umidi dal viso di Beth. Il suo respiro ora si è fatto più rapido e affaticato. Sta cercando di dire qualcosa e mi sta guardando. «Non ho…», dice.
«Non parlare», dice Laura. «È tutto ok, i paramedici sono per strada. Va tutto bene, te la caverai». Non riesco a capire cosa provi per Beth, ma non c’è alcun dubbio su cosa dica l’espressione che Laura mi sta rivolgendo ora: “Ti odio, ti odio, ti odio”. «Sta rallentando, dobbiamo solo tenerla al caldo. Togliti il cappotto».
Per farlo, devo prima mettere giù il coltello: prova A.
Mi sfilo il cappotto e lo appoggio sopra Beth il più delicatamente possibile. Non saprei dire quanto sangue stia perdendo, i suoi vestiti sono zuppi. Il mio cappotto è sporco del fango della montagna di Tórshavn. Lo sistemo meglio su di lei e le invio delle scuse silenziose per tutto ciò che le è accaduto, mentre le sue labbra diventano esangui.
Un colpo alla porta fa trasalire me e Laura, ma Beth è immobile. Quando apro alla polizia e ai paramedici, le mani lasciano un’impronta insanguinata sul pomello di ottone. Fuori, i servizi di soccorso hanno già bloccato la strada. Una pattuglia è di traverso all’inizio di Wilbraham Road. Ci sono due ambulanze ai lati, con i lampeggianti blu che ruotano silenziosi. Una delle due ormai servirà da carro funebre. Faccio strada ai paramedici fino in cucina, dove potrebbero trovare ancora una vita da salvare.
Laura alla fine si stacca da Beth, torreggiandole sopra mentre un esperto prende il comando. Sembra che abbia indossato un paio di guanti da sera rossi lunghi fino al gomito.
«È entrata in shock!», dice uno di loro. Laura si porta una mano alla bocca e inizia a farfugliare qualcosa.
Un terzo paramedico entra in cucina e osserva con allarme il viso gonfio di Laura.
«Lei è Christopher Smith?», mi domanda l’agente. Corporatura massiccia, spalle da giocatore di rugby, sembra il classico bullo che avrebbe potuto tormentarmi a scuola.
«Non c’è bisogno che mi arrestiate», dico. «Verrò con voi».
Dà un’occhiata al lago di sangue davanti a lui.
«Oh, penso che lo farò», dice. «Christopher Smith, la dichiaro in arresto per sospetto omicidio. Ha il diritto di rimanere in silenzio, ha diritto a un avvocato…». Mi lascio scivolare addosso le sue parole mentre gli porgo i polsi. Tutta la mia attenzione è concentrata su Laura, in piedi in fondo alle scale. L’impronta rossa della sua mano sulla bocca, le braccia che cingono il pancione. Lo sguardo nei suoi occhi mi svuota dall’interno.
«Quando?», mi chiede.
Quando cosa? Ci metto un po’ a capire cosa intenda. Il singhiozzo che avevo sentito dalla buca delle lettere; era Beth che mi supplicava di tacere.
Beth non aveva raccontato a Laura cos’era successo al Lizard. Ero stato io.
«In Cornovaglia», dico infine. «La notte prima che arrivassi tu».
Laura annuisce una volta, poi chiude gli occhi come se il solo vedermi fosse più di quanto riuscisse a tollerare. Lo scatto delle manette riecheggia in tutta la cucina arrossata e io crollo in ginocchio. Le mani legate sono pesi morti sulle mie gambe, la fede nuziale è insanguinata. Laura mi volta le spalle. Mentre il mio cuore sprofonda, da qualche parte in mezzo alla perdita e all’orrore, finalmente provo un agognato senso di liberazione e sollievo.