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Laura
16 maggio 2000
Il nostro appartamento a sud di Clapham Common si trovava al quarto piano, con un piccolo balcone affacciato sul verde. In inverno i rami nudi consentivano la visuale dei palazzi sul lato settentrionale, ma in estate il mondo si fermava alle fronde più vicine. Per arrivare in casa dovevamo salire ottantacinque scalini che zigzagavano tra pianerottoli privi di finestre. Gli altri tre appartamenti erano accessibili dal vicolo sul retro, perciò una volta chiuso il portone che dava sulla strada, eravamo a casa. Non c’erano vicini per cui pulire le scale; niente che ci impedisse di spogliarci e andare a ritirare la posta completamente nudi. Eravamo soliti scherzare sull’eventualità di mettere un palo da pompieri per risparmiare qualche minuto al mattino, un rituale di cui parlavamo ancora con il tono altezzoso e solenne di chi era molto giovane e inesperto. La carta da parati sulla tromba delle scale era antica e veniva via dal muro, accartocciandosi qua e là e lasciando intravedere uno strato di vernice verde brillante che secondo Kit era di epoca vittoriana, contaminata con l’arsenico. Pensavo che scherzasse finché una volta non minacciai di leccarla e me ne staccò in preda al panico.
C’erano solo due stanze: la nostra camera da letto in fondo e una lunga sala-barra-cucina sbilenca. Gli elettrodomestici erano più vecchi di noi, la porta della camera non si chiudeva bene e la ventola del bagno era così rumorosa che non si poteva ascoltare la radio quando c’era qualcuno dentro. Non c’erano abbastanza prese per allacciare tutta l’apparecchiatura di Kit e i cavi neri si aggrovigliavano in nidi attorno a ogni spina e ai piedi del telefono.
Era piccolo – metà della nostra roba era rimasta dentro scatoloni nel loft di Adele – ma era nostro. Eravamo noi.
La mappa delle eclissi di Kit aveva il suo posto d’onore sopra a un vecchio futon che un tempo era appartenuto a Adele. Una o due volte la settimana lo trasformavamo da divano a letto, quando Mac sbucava da qualche topaia di club a sud del fiume o – con frequenza sempre maggiore – quando Ling lo sbatteva fuori di casa. Mi ero abituata a trovarmelo svenuto in soggiorno, con un secchio per il vomito accanto. Gli mancava già un molare e la sua faccia stava iniziando a raggrinzirsi, presagio dell’aspetto che avrebbe avuto Kit a cinquant’anni. Peccato che lui ne avesse solo ventidue.
Kit aveva convinto l’edicolante locale a ordinare i quotidiani del West Country, ma non ce ne sarebbe stato bisogno: il verdetto del processo Balcombe ebbe risonanza nazionale. Tornò a casa dall’edicola con una copia del «Cornishman» sottobraccio e mezza dozzina di tabloid e altri giornali sotto l’altro. Li leggemmo sul balcone, con una tazza di tè e una pila di toast tra noi, in un silenzio che era nervoso solo da parte mia. Kit iniziò dai quotidiani nazionali. Il «Cornish Times» aveva pubblicato un’intervista con il contadino Rory Polzeath, che non era solo sul lastrico, ma anche emotivamente devastato da ciò che era accaduto sulla sua terra.
Mi sporcai le dita di nero seguendo maniacalmente i titoli, domandandomi quale, se mai vi fosse, avrebbe esposto la mia bugia. Colpevole lo stupratore dell’eclissi, intitolava il «Sun». Lo scolaretto professa la propria innocenza, diceva il «Daily Mail» in un articolo che si concentrava sul costo della casa di famiglia di Jamie Balcombe, sul costo della sua educazione e sulla labile connessione del padre con il principe del Galles. Non vi era alcun accenno alla mia testimonianza, perciò anche se il mio primo istinto fu di lanciare il giornale dall’altra parte della stanza in preda al disgusto lo passai a Kit per guadagnarmi qualche minuto in più.
Una giornalista del «Times» scrisse che lo stupro era d’esempio per tutto ciò che vi è di sbagliato sulla “scena alternativa”; era a tutti gli effetti un ammonimento per quei genitori i cui figli andavano ai festival musicali. Mi irrigidii. Il «Telegraph» si spinse addirittura oltre. Il titolo Giudice fa un esempio di uno stupratore a un festival campeggiava sopra un articolo di cordoglio per la carriera rovinata di Jamie.
«Ma da che cazzo di parte stanno?», chiesi a Kit, dimenticandomi per un istante il mio stesso interesse personale nella faccenda. «Pretendono forse che ci dispiaccia per lui?»
«Oh, Dio», disse, aggiungendo il «Telegraph» alla sua pila di giornali da leggere.
Sul «Daily Mirror» adocchiai una frase che mi fece ghiacciare il sangue nelle vene.
Vi sono stati alcuni momenti di tensione al processo, compresa a un certo punto una testimone oculare cruciale che ha avuto dei tentennamenti durante la sua dichiarazione.
Non osai proseguire, non con Kit così vicino da potermi guardare da sopra la spalla. Infilai il «Mirror» tra le pagine di una sezione sportiva che sapevo nessuno di noi due avrebbe mai letto e poi buttai entrambi nel cestino dei rifiuti.
La giornalista con il caschetto, che avevo immaginato scrivesse per il «Guardian», scriveva invece per l’«Independent». La fotografia di Georgie Becker era vecchia di almeno un decennio, ma le sue parole furono le prime a risuonarmi dentro.
La reazione più comune a uno stupro è pietrificarsi.
Finalmente una giuria se ne è resa conto.
Finalmente un giudice si è espresso in favore delle vittime.
«Sentire la sua zip che si abbassava mi ha ricordato il suono del caricatore di una pistola che scivolava al suo posto; sei un ostaggio, fai solo quello che ti viene detto di fare. Non sono riuscita a oppormi, mi sono impietrita. Volevo solo che finisse tutto». Queste le parole della vittima ventiduenne di Jamie Balcombe, l’uomo che una settimana fa è stato accusato di stupro prolungato durante un festival organizzato in onore dell’eclissi solare totale sopra la Cornovaglia, nell’agosto dello scorso anno. Le sue parole profonde hanno frantumato l’opinione comune che resistere a uno stupro per una donna equivalga a combattere finché non ha bocca e mani piene di sangue. Per la maggior parte delle vittime di una violenza carnale, la paura è paralizzante.
I casi di stupro in cui le parti si conoscono sono notoriamente difficili da perseguire. Quindi cosa ha funzionato in questo caso? Il lato molto insolito del caso Balcombe è che vi è stata una prova a sostegno – in sede processuale, la sola parola di una donna non è sufficiente – e la vittima di Mr Balcombe ha ammesso che se lo stupro non fosse stato interrotto da due passanti, le cui testimonianze si sono rivelate cruciali per la dichiarazione di colpevolezza, probabilmente non sarebbe andata a denunciarlo alla polizia.
A quel punto mi bloccai, ma non vi era accenno al dettaglio incriminante. Prima fui invasa da un senso di sollievo, seguito poi dal disgusto per me stessa, perché mi ero sentita sollevata anche se la disavventura di Beth era stata molto più seria della mia. Lessi il resto con le lacrime che minacciavano di spuntare.
La vittima di Balcombe ha dimostrato coraggio nell’aver denunciato il crimine ed è rimasta fedele alla propria versione dei fatti nonostante il feroce controinterrogatorio dell’avvocato della difesa, Fiona Price, che l’ha costretta a rivivere la sua storia sessuale, citando i suoi partner dalla perdita della verginità fino al giorno in cui si sono svolti i fatti. Per tutto il tempo di questa orribile disavventura, il suo stupratore è stato etichettato come null’altro che un “partner sessuale”. Si è sentita ripetere più volte di aver avuto un “attimo di follia” durante l’eclissi, del quale si era vergognata, e che era la sua mancanza di autocontrollo a essere sotto processo. A un certo punto ha persino gridato: «Questo è peggio che venire stuprata!».
Il giudice, Mr Frenchay, è intervenuto due volte per ordinare una pausa in modo da permettere alla vittima di ricomporsi, segnale della sua compassione; l’interrogatorio di Miss Price è stato assolutamente legale e una caratteristica fin troppo comune nei processi per stupro in cui si giudica il consenso, anziché l’identità. Il fatto che la storia sessuale della vittima fosse stata all’insegna della monogamia seriale è, doveva essere irrilevante; il punto è che il racconto è stato equivalente a una guerra psicologica, un tentativo di erodere quel poco di dignità che era rimasta alla vittima.
Ma le cose stanno cambiando: quando quest’anno entrerà in vigore la cosiddetta Rape Shield Law, emendamento alla sezione 41 dello Youth Justice and Criminal Evidence Act, la possibilità di interrogare una querelante sulle sue abitudini e i suoi comportamenti sessuali passati verrà ampiamente ridotta.
Nel comunicare la sentenza, il giudice Frenchay ha affermato: «Lei è un arrogante opportunista che si è deliberatamente approfittato di una donna sola e che, vistosi rifiutato, l’ha isolata finché non si è trovata impotente di fronte alla sua aggressione. Ha ignorato le sue suppliche di fermarsi, l’ha fatto consapevolmente e con una totale mancanza di rispetto per il suo benessere fisico ed emotivo. Sono stati il suo atteggiamento di superiorità e la sua percezione della donna come di una mera merce a spingermi a comminarle il massimo della pena prevista per questo crimine».
Il giudice Frenchay e i giurati hanno compiuto un piccolo passo in avanti verso un cambiamento duraturo per tutte le vittime di stupro. Speriamo di trovarci finalmente sulla soglia di qualcosa di significativo.
«Che ne è stato del “Mirror”?», mi chiese Kit, muovendosi alle mie spalle. «Sono certo di averne preso una copia».
«Io non l’ho vista», dissi, stando ben attenta a non guardare il cestino dei rifiuti.
«Strano». Si grattò il collo e aprì l’«Express». «Oh, la nostra amica del tribunale». Ali, o Alison Larch, per citare il suo nome intero, si era assicurata un’intervista con Antonia Tranter, che occupava ben due pagine. La rossa mi guardava con aria lamentosa dalla pagina, sotto un titolo che recitava: Jamie, ti aspetterò. Lo lasciai cadere a terra.
«So come ti senti», disse Kit. «Ho letto abbastanza per il momento». Sistemò i giornali in una pila ordinata. «Ti ricordi che mi vedo con Mac per una pinta all’ora di pranzo?»
«La trovi una buona idea?»
«Se non puoi sconfiggerli, unisciti a loro. Almeno così saprò cosa sta facendo, sempre che si presenti, chiaro». Kit parlò con l’aria di un vecchio soldato in procinto di scendere in battaglia.
Gli unici rumori in casa erano quelli delle sirene e dei clacson, che provenivano attutiti dalla strada al di sotto. Era la prima volta che restavo da sola da giorni e all’improvviso la mia compagnia non mi bastò. Mentre Kit stava fuori con Mac e Ling era incollata alla sua bambina, non potevo chiamare nessuno per una partita a biliardo o per andare a fare un giro al mercato di Brixton.
Per tenermi occupata mi scaldai del latte per il caffè e lessi il pezzo di Alison Larch sull’«Express». Antonia, lessi, aveva perdonato “l’infedeltà” di Jamie – «Che cazzo?», gridai alla pagina – ma era ancora sbigottita dinanzi a ciò che lei definiva un fallimento della giustizia. La famiglia Balcombe e il suo team legale erano stati così certi che il caso non sarebbe finito in tribunale e, più tardi, che sarebbe stato dichiarato “non colpevole”, da aver persino acquistato un appartamento per lui in cui trasferirsi dopo il processo, in cui ora Antonia si “aggirava” da sola. Adesso il povero Jamie si trovava nella stessa ala del carcere di stupratori e pedofili seriali. Beth, naturalmente, non venne nemmeno nominata, ma fu definita l’accusatrice di Jamie, anziché la sua vittima. Stavo lottando contro il bisogno di fare a pezzi il giornale, quando un numero sconosciuto mi apparve sul cellulare. Accesi il bollitore e risposi.
«Sono Beth».
Il mio silenzio dipese soltanto dallo shock; non ero abituata a leggere di una persona sulla stampa nazionale e vederla chiamarmi poco dopo. Avevo dato per scontato che, siccome il processo era andato a buon fine per lei, non avremmo più avuto sue notizie. Beth l’aveva presa nel modo sbagliato.
«Elizabeth Taylor?». Credo sia stato solo il senno di poi ad attribuire alla sua voce un tono petulante. «Hai presente? Dalla Cornovaglia».
«Sì, scusami, certo che so chi sei», dissi. «Dio, mi fa piacere sentirti. Come stai? Qual è la cosa giusta da dire? Congratulazioni non mi sembra appropriato».
«Non lo so», disse. «Al momento mi sento solo sollevata. Mi trovo a casa, a Gedling, e a essere sincera non so bene cosa fare di me stessa». Mi ci volle qualche secondo per capire che mi stava chiedendo un consiglio, ma non ne avevo da darle; ero davvero l’ultima persona al mondo cui rivolgersi se si era in cerca di saggezza. «Comunque, so che mi hai detto di contattarti solo se le cose andavano male, ma non potevo lasciarti andare senza dirti grazie. Non solo per aver testimoniato in aula, ma anche per essermi stata accanto dopo il fatto. Non so, se non ci fossi stata tu, come sarebbe potuta andare a finire. Probabilmente non avrei avuto le palle di farlo da sola. E l’avvocato ha detto che la tua testimonianza ha fatto la differenza, che ti sei battuta per me. Perciò, ecco, sono in debito con te».
Guardai ancora la foto di Antonia Tranter sull’«Express» e sperai che Beth non l’avesse vista.
«Ma figurati», risposi. «L’avrebbe fatto chiunque».
«No, non è vero». La voce di Beth tradiva urgenza, agitazione. So che non mi sono immaginata il fervore che l’assalì. «Non penso che tu sappia quanto sei speciale. E ho bisogno che tu lo sappia. Ci credi al karma?»
«Mi piacerebbe», dissi, guardinga.
«Be’, io ci credo e sento che ti aspetteranno degli anni fortunati». Dal suo tono capii che sorrideva. Alle mie spalle il bollitore iniziò a borbottare e il microonde emise un bip. «Ti lascio andare, probabilmente sei occupata. Volevo solo dirti, sì, grazie».
«Non c’è di che».
Finii il pezzo sull’«Express», bevvi il mio caffè e tornai con la mente a Beth. In un’altra vita, pensai, se ci fossimo conosciute in circostanze diverse, magari saremmo potute diventare buone amiche.