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Laura

18 marzo 2015

 

Chiunque soffra di insonnia sa che quando ci si sveglia troppo presto, mentre tutti gli altri fanno colazione, per noi sarebbe già ora di pranzo. Annoiata, anticipo di qualche ora la mia consueta chiamata di metà pomeriggio a papà.

Non mi aspetto certo che risponda davvero. Starà sicuramente cercando di approfittare dell’ora di punta del mattino, in piedi a un angolo della strada, nel vano tentativo di infilare volantini nelle mani strette a pugno dei pendolari.

Mando un messaggio a Ling.

“Puoi parlare?”.

Mi risponde: “Sono in riunione”.

E con quelle parole ho esaurito la lista di persone che posso contattare per chiacchierare un po’. Non m’importa di avere pochi amici, solo che talvolta capita di avvertirne il peso. I bambini cambieranno la situazione. Una volta la mia vicina Ronni mi ha detto che i figli funzionano addirittura meglio del vino come lubrificante sociale.

D’improvviso capisco cosa ci sia che non vada. Mi sono così preoccupata per il viaggio di Kit che non ho dato il buon giorno alla mamma. Raccolgo la fotografia in bianco e nero nella sua cornice di legno malconcia e do un bacio sul vetro.

Nel marzo del 1982, trentamila donne si presero per mano intorno al perimetro della base RAF di Greenham Common, nel Berkshire, per protestare contro le armi atomiche. Io ero tra queste. In effetti ero anche comparsa sul giornale, un sorriso sbavato di circostanza e una salopette rattoppata. “Unite vinceremo: la piccola Laura Langrishe, quattro anni, fotografata alla manifestazione femminile contro la guerra di Greenham Common insieme alla madre Wendy”. Ne conservo una copia incorniciata sulla scrivania; papà invece possiede ancora l’originale ingiallito sulla propria. Lì accanto c’è un’altra foto scattata più tardi quella settimana, un’istantanea dal bordo bianco, non originale – quella aveva fatto la stessa fine della prima mappa di Kit – ma la ristampa da un negativo. Nella fotografia mi trovo fuori da una tenda, tra le braccia ossute di mia madre. Lei indossa una bandana paisley e ha un paio di orecchini ad anello e una sigaretta rollata a mano infilata sopra l’orecchio sinistro. Stiamo ridendo entrambe, con le fossette in risalto sulle rispettive guance destre. Verrà uccisa da un pirata della strada ubriaco quattro settimane dopo, a metà delle strisce pedonali, mentre stava venendo a prendermi all’asilo.

Papà, Steve, parlava di Wendy tutto il tempo, e ancora ne parla; la morte l’ha cristallizzata in un ricordo perfetto, perciò i miei primi anni di vita sembrano idilliaci. Mi piacerebbe ricordare anche le sue mancanze, ma non è mai stato possibile. Me ne sono resa conto soltanto pochissimo tempo fa. Ho chiesto a papà di cosa discutessero e lui mi ha risposto che non discutevano di nulla, in realtà, condividevano la stessa visione sulla vita. Magari all’epoca era davvero tutto perfetto; forse negli anni mi avrebbe messa in punizione, controllato il mio armadio e i miei amici, disapprovato i miei gusti musicali e i libri che leggevo o non avevo voglia di cominciare. Sapevo che Wendy mi portava ovunque a tracolla decenni prima che fosse di moda e che le mie prime parole erano state i nomi dei fiori selvatici disseminati lungo i sentieri delle nostre passeggiate in mezzo alla natura. Papà ricorda con affetto la preparazione dei biscotti e la decorazione delle patate che facevamo insieme sul tavolo della cucina nell’appartamento in affitto di Croydon. A me piacerebbe richiamare alla mente anche una sola di queste occasioni e considerarla un ricordo effettivo anziché una leggenda interiorizzata, ma non ho che associazioni mentali e trigger emotivi: una risata da strega; l’odore del tabacco e dello shampoo Timotei. C’è solo un episodio che sono certa mi appartenga e risale a quando mi pettinava e mi faceva le trecce, sussurrandomi che i miei capelli erano troppo belli per tagliarli mentre io facevo le fusa come una gattina. Di certo non è legato a mio papà, che mi ha torturata per anni con code di cavallo alte e storte strette in elastici di gomma. Non gli ho mai chiesto se sia un ricordo reale per paura di scoprire il contrario, ma ne ho parlato con Kit la nostra seconda sera insieme, attraverso un velo di lacrime cocenti e impotenti. Quella notte mi aveva accarezzato i capelli cento volte prima di addormentarci.

Potrò anche non aver appreso da Wendy il lato pratico della maternità, ma c’è qualcosa di lei in me; lo avverto nelle viscere. Mi piace pensare che sia tutto l’amore che non è mai riuscita a darmi. Un vuoto dovrebbe essere privo di peso, ma io barcollo sotto la sua oppressione e non mi sentirò completa finché non lo trasmetterò a qualcuno. Adele, con buone intenzioni seppur un po’ goffamente, dice di avere abbastanza amore per due nonne; di certo ha abbastanza lana. Il suo lavoro le si addice, un’accozzaglia di tessuti e filati; non vi è nulla in Adele, nessuna opinione su nulla che non abbia a che fare con la casa. Lei e Wendy sarebbero state le perfette consuocere in guerra che si vedono nelle sit-com.

Wendy era una femminista appassionata, quasi stereotipata: oltre ad accamparsi fuori da Greenham, era abbonata a «Spare Rib» e non portava il reggiseno, per quanto come me, o come me prima che iniziassi a incasinarmi gli ormoni, aveva il fisico di un bambino di dieci anni e non ne aveva bisogno. Mio padre era femminista per caso. Mi aveva cresciuta senza fare concessioni di genere; era troppo occupato a giocare al politico per comprarmi le Barbie. Aveva lavorato come viceredattore per i giornali locali, poi era andato a Fleet Street e si era creato un nome nel movimento dei sindacati durante tutta la mia infanzia. Uno dei miei primi ricordi di cui mi fidi è la ressa terrificante al picchetto di Wapping, quando papà e i suoi amici erano andati a protestare insieme ai tipografi in sciopero. Aveva preso parecchie cantonate: avevo passato il mio nono compleanno alla conferenza annuale del Congresso dei sindacati, per esempio. Ma aveva anche fatto tante cose giuste. I miei genitori si erano incontrati giocando a biliardo al politecnico e quando compii dieci anni pregai papà di insegnarmi a giocare. Lui mi comprò una Coca e un pacchetto di patatine al club dei lavoratori di Croydon. All’inizio dovetti salire in piedi su una cassa rovesciata di Britvic per riuscire a raggiungere il tavolo, ma ora del mio tredicesimo compleanno ero diventata alta come lui ed ero in grado di ripulire il panno verde in pochi minuti.

Da quando era andato in pensione, papà si era dedicato seriamente alla politica. Appena prima che incontrassi Kit aveva sentenziato: «Il Sud è morto» e aveva dichiarato che l’unica speranza per la sinistra era il Nord. Aveva venduto l’appartamento di Croydon per una casa su due piani a Toxteth, vicino Liverpool, dove ora segue la campagna per il TUSC, la Coalizione sindacalista e socialista, il partito dei lavoratori. La sua ineleggibilità in un mondo governato dai mercati me lo fa solo amare di più. Venerdì dovrebbe riuscire a godersi una bella vista dell’eclissi. Più a nord ci si sposta, più grande appare l’ombra. A Toxteth ci sarà una copertura del novanta percento circa, anche se, come vi direbbe la maggior parte dei cacciatori di eclissi, non conta nulla di inferiore alla totalità. Le eclissi parziali sono interessanti, ma non ti fanno provare il brivido. Persino una copertura del novantotto percento equivale a essere quasi incinta.

In passato passavano anche intere settimane senza che ci parlassimo, ma adesso papà mi telefona quasi tutti i giorni, verosimilmente per aiutarlo a risolvere i cruciverba del «Guardian». Kit pensa che completi le parole crociate in cinque minuti e poi scelga la definizione che gli ha causato più problemi e se ne serva come pretesto per chiamarmi. Kit lo trova adorabile, e anch’io. Papà ama farsi aggiornare quotidianamente sui piccoli, anche se riceve un semplice: «Tutto bene». Si scioglie come burro al sentirli menzionare.

Sa del processo di Jamie e sa cos’è accaduto in seguito, ma non che le due cose sono collegate.

Non sa che la notte in cui abbiamo rischiato di morire non si è trattato di un incidente casuale e di certo non ha idea che da allora viviamo nel terrore di un’ipotetica seconda aggressione che vada a buon fine.

Non sa che Beth è la ragione per cui abbiamo cambiato nome.

Io e Kit non ci siamo seduti al tavolo e abbiamo deciso che ci saremmo tenuti per noi il tentativo di Beth di distruggerci; piuttosto è stata una scelta implicita. Ci abbiamo girato intorno, ci siamo detti di non voler far preoccupare le nostre famiglie, ed è vero che i McCall hanno già parecchia carne al fuoco. Ora mi rendo conto che la tragedia di mio padre apparteneva al passato e che ci sarebbe stato per me. Certe volte penso che avrei potuto raccontargli qualcosa, ma è questo il problema dei segreti: trapelano. Non si può decidere di divulgarne solo la parte che ci fa comodo senza evitare un milione di domande. È necessario sigillare una parte di sé.

Nel tentativo di comprendere la furia di Beth, papà avrebbe avuto bisogno di conoscere il contesto e tutte le strade riportano alla mia menzogna. Mi sono esposta per lei. Dalle mie sedute con lo psicologo so che la rabbia ferisce nel profondo. Fino alla notte in cui ho sfidato Beth, ero l’unica a non aver mai detto la cosa sbagliata. Il dubbio che proveniva da me era peggiore di quello di un estraneo.

Per quanto la riguardava, la persona di cui si fidava di più al mondo prima l’aveva tradita e poi era svanita nel nulla. Per salvare noi stessi, io e Kit avevamo privato Beth del diritto di replica. Il mio psicoterapeuta sosterrebbe di sicuro che le abbiamo sottratto la sua chiusura.

All’epoca ci era sembrata l’unica soluzione possibile, ma anziché placarla, non avevamo fatto altro che gettare benzina sul fuoco.

Aver ragione non pareva importare. Ormai il senso di giustizia di Beth era completamente sconnesso. Persino il mio, quando lo esamino adesso, mi sembra irriconoscibile rispetto all’inflessibile codice morale che mio padre mi aveva inculcato e a cui, secondo lui e mio marito, non ho mai smesso di attenermi.

 

La verità sul caso Beth Taylor
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