L’infermiera di guardia stava pranzando alla sua postazione quando lo sentì. Non l’ululato di Eden, ma i monitor che si misero a urlare come un aeroplano quando perde quota. Bip assordanti e schermi che lampeggiavano, le grandi curve dei tracciati come grafici di un’impresa che cola a picco. Premette il pulsante d’emergenza collegato al caposala di turno.

Poi si precipitò nella camera.

Anche i monitor intorno al letto sembravano impazziti. Eden digrignava i denti e il suo corpo era scosso da violentissimi spasmi. Lei gli si lasciò cadere sopra, per impedire a aghi e cannule di sfilarsi, e a lui di cadere dal letto. La forza di quel corpo la sorprese. Come se gli arti fantasma riuscissero ancora a scattare inarcandogli il busto, mentre i tre gradi delle sue ustioni riaffioravano in superficie, pelle viva che veniva di nuovo aggredita dalle fiamme.

Arrivò il caposala, un uomo tozzo e robusto di nome Gabe. Si trattenne sulla soglia un secondo, allungando il collo nella penombra. Portava il camice sopra una vecchia maglietta color verde militare, sbiadita dalla candeggina di troppi lavaggi intorno al collo, stretto come un giogo. Strinse i pugni e i muscoli degli avambracci si tesero come vecchio sartiame. C’erano dei tatuaggi, che arrivavano fino ai polsi. Commemorazioni sbiadite con gli anni. Lavori scadenti.

Si avvicinò al letto di Eden a passi lenti, preceduto dal pesante randello del mento sporgente. Gabe era nell’esercito da anni e aveva lavorato in molti ospedali militari; aveva visto gente di ogni tipo mutilata nei modi più disparati, e aveva imparato che affrettarsi non serve. In piedi accanto a Eden studiò i monitor che affollavano la camera.

Il mio amico continuava a dimenarsi contro il corpo dell’infermiera che faceva l’impossibile per tenerlo fermo. La giovane donna lottava con cautela, cercando di non fargli male, come un cacciatore tiene bloccato a terra il cervo ferito prima di finirlo, per assicurarsi che non si laceri la pelle.

Gabe smise di guardare i monitor. Prese una grossa siringa dall’armadietto d’acciaio vicino al letto. La riempì con il liquido chiaro di una fiala che si era portato in tasca, e disse all’infermiera di spostarsi.

Lei non conosceva Gabe, sapeva soltanto che si offriva sempre volontario per il turno di Natale. Lo guardò, rifiutandosi per un attimo di obbedire.

«Levati di lì» disse lui. «Spostati!»

Spaventata, lei si alzò dal letto.

Eden ebbe una violenta contrazione che lo liberò da tutte le cannule e i tubicini. Gabe lo afferrò alla gola con mani rapide come coltelli. Poi prese la siringa e la conficcò proprio nel cuore che stava cedendo. L’ago penetrò nel muscolo. Il liquido si diffuse. Il cuore si chiuse a pugno e sferrò un colpo molto forte. Eden emise un rantolo che conservava qualcosa della sua vera voce, cancellata tanto tempo prima. Gabe continuava a tenerlo per il collo. Il cuore sferrò un altro colpo. Piano piano Gabe lasciò la presa. E il mio amico sprofondò nel letto.

La giovane infermiera di guardia si ricompose in fretta. Lisciò le pieghe del camice azzurro, coperto di macchie rosa nei punti in cui il mio amico aveva lasciato parti di sé. Con prudenza fece il giro del letto e ricollegò tutte le macchine al corpo. Di lì a poco il respiratore emetteva l’abituale ronzio e i monitor tornarono ai loro leggeri bip.

Gabe tamburellò le dita sul letto, in fondo. «C’è qualcuno della famiglia?»

«La moglie è tornata a casa per le feste» rispose l’infermiera.

Lui corrugò la fronte, studiò i dati sugli schermi a occhi socchiusi e poi fissò lo sguardo vacuo di Eden. «Con un arresto cardiaco nelle sue condizioni, probabilmente è questione di poco. Meglio avvisare la famiglia.»

L’infermiera tornò alla sua postazione a comunicare la notizia.

Gabe tornò nel suo ufficio al piano di sotto. Detestava lavorare il giorno di Natale.