Vorrei che tu la capissi, Mary, e capissi perché si è comportata come si è comportata. Non so se ci riuscirai. Ti chiederai se avresti fatto la stessa scelta, in circostanze analoghe, o identiche, che il cielo te ne scampi. Ma quando li ho conosciuti, lei e Eden, erano tempi migliori. Volevano mettere su famiglia. E qualche mese più tardi, quella notte nella valle di Hamrin, ero seduto accanto a lui, ma sono stato più fortunato, quando il nostro Humvee è passato sul detonatore a pressione, uccidendo me e tutti gli altri, e lasciando lui in fin di vita.
Da allora gli sono sempre stato vicino, anche se dall’altra parte, a osservare, in attesa.
Sono passati tre anni e il mio amico li ha vissuti tutti, dal primo all’ultimo giorno, nel Centro Ustioni dell’ospedale di San Antonio. Potrei fare l’elenco delle ferite, dei danni che ha subito, ma preferisco evitarlo. Non perché non ti ritenga in grado di sopportarlo, ma perché penso che non servirebbe a descrivere meglio le sue condizioni. Lasciami dire soltanto questo: pesava 110 chili, prima, e quando andavamo in palestra c’erano mattine in cui ne sollevava 75, mentre i rivoli di sudore gli scorrevano sotto i capelli scuri. Prima di partire avevamo frequentato insieme il corso di addestramento SERE nel Maine, dove ti insegnano cosa fare in caso di cattura. Gli istruttori ci affamarono e strapazzarono per tre settimane. Poi il corso finì e gli stessi istruttori festeggiarono con noi la nostra promozione. Quella sera alla festa guardai Eden scolarsi cinque pinte di Guinness in cinque minuti. E restare perfettamente sobrio. Però devo aggiungere che se si andava a cena a casa sua, non si beveva birra; lui cucinava con piacere e apriva una bottiglia di vino scelto con cura. Sapeva tutto sul vino che ti offriva: la composizione del terreno nel vigneto, le temperature medie stagionali dell’anno in cui era stato imbottigliato, e alla fine della cena ti metteva davanti tavolette di cioccolato con peperoncino o sale marino, o qualche altra prelibatezza alla moda. Diceva che quegli ingredienti esaltavano il sapore. Non ho mai capito se fosse vero, ma mi piaceva che lo dicesse. Ognuno di noi aveva un soprannome. C’era un pervertito che chiamavamo Sega perché sul computer aveva video porno di tutti i generi. E un altro, un tipo un po’ tonto, era stato chiamato Cuneo perché il cuneo è lo strumento più elementare che esiste. Il soprannome di Eden invece era BASE Jump, perché una volta durante una festa in caserma in un periodo di uragani si ubriacò e con un poncho aperto sopra la testa a mo’ di paracadute si lanciò dal terzo piano. Il vento lo trasportò qualche metro e gli permise di toccare terra sano e salvo. E da allora il soprannome gli rimase appiccicato. È così che Eden guardava il mondo, come una serie di scogliere messe lì solo per fornirgli una piattaforma di lancio. Per lo meno prima del detonatore a pressione. Adesso non saprei davvero come chiamarlo. I 35 chili rimasti di lui in questo letto – ha sviluppato molte infezioni e gli hanno tagliato via tutto fino al torso – non sono certo BASE Jump e non sono nemmeno il nome che gli hanno dato alla nascita. Credo che nessuno sappia come chiamarlo eccetto Mary, che lo chiama «mio marito».