Prima della partenza vivevo in caserma, e in caserma soldati semplici e soldati scelti dormivano in una stanza in tre, o a volte in quattro. La cucina non c’era, avevano un gabinetto, quattro pareti di calcestruzzo, i letti e gli armadietti. Uno dei privilegi dei caporali era la camera singola. A me tuttavia non sembrava un privilegio perché mi sentivo solo. I solchi nella moquette lasciati da altre brande, la vernice scrostata nei punti dove erano stati appesi i manifesti, e un armadietto in più che non era mai stato trascinato fuori, erano queste le cose che mi facevano sentire solo. Nel fine settimana, quando la sala mensa era chiusa, prendevo quasi sempre cibo da asporto, per lo più cinese, e mangiare in quel modo mi faceva sentire ancora più solo. Così comprai un fornello elettrico e qualche volta cucinai. Sull’unica piastra riuscivo a cuocermi una bistecca o un uovo. La situazione migliorò. Tutto ciò che era associato alla preparazione di un pasto mi aiutava a stare meglio: lavare un piatto nel lavello del bagno, pulire il tegame, tenere gli utensili nel cassetto della scrivania e fare un salto al PX per la spesa.

Fu lì che mi imbattei di nuovo in Mary.

Era un sabato, poco prima di Thanksgiving, e mancavano ancora due mesi alla missione. Erano passate settimane da quella sera al parcheggio della palestra, e da allora non ero più tornato a cercarla. Dalla caserma avevo raggiunto il PX a piedi, e avevo appena afferrato un cestino e imboccato la prima corsia quando lei spuntò dal lato opposto con il suo carrello. L’avessi vista prima, probabilmente avrei cercato di evitarla, avrei fatto la spesa altrove, o ci avrei rinunciato, forse avrei ordinato l’ennesimo pasto cinese da asporto. Ormai c’ero. Mi chiesi se anche lei avrebbe preferito evitare.

Spinse il carrello quasi pieno accanto a me e cominciammo a parlare. Mi disse che Eden si stava addestrando fuori città. Non ricordava che tipo di corso né se glielo avesse mai detto. Le spiegai che si trattava di un corso di pronto soccorso, e che io lo avrei fatto una delle prossime settimane, perdendomi la festa di Thanksgiving. Al che lei guardò da un’altra parte, come se cercasse qualcosa sugli scaffali. Credo che fosse turbata, però. Non perché sarei andato al corso, ma perché io sapevo che corso Eden stava frequentando e lei no.

Poi guardò il mio cestino. «Fai la spesa?» chiese.

«Giusto per la cena» dissi. «E tu?»

Guardò il suo carrello pieno. «Per la cena.»

Seguì un momento di silenzio, una pausa in cui forse uno dei due avrebbe dovuto fare la prima mossa, invece nessuno prese l’iniziativa. Alla fine fu lei a dire: «Ti andrebbe un po’ di compagnia?»

Feci di sì con la testa, contento di non restare solo. Da uno scaffale presi un sacchetto di erbe per marinare la carne. Avevo in mente di preparare l’ennesima bistecca in padella.

«Qui c’è roba sufficiente per tutti e due» disse. Il carrello era pieno di ingredienti semplici: un paio di cipolle, della pasta e del pane, niente di speciale, niente di quello che avrebbe comperato Eden.

Avevo pensato che l’offerta di farmi compagnia si riferisse soltanto alla spesa, invece adesso capivo che voleva invitarmi a cena. Ci scambiammo uno sguardo riconoscente e cupo insieme, come quelli che ci si scambia quando uno sta per farsi investire su una strada trafficata e l’altro lo salva.

Quello che non sapevo era chi dei due stesse per finire sotto una macchina.

Caricammo la spesa nel baule della sua auto e durante il tragitto fino a casa quasi non parlammo. Infine le chiesi come andava al lavoro. Lei rispose: «Bene». Non mi venne in mente altro da dire. Lei accese la radio e dopo una sola canzone stavamo già infilando il vialetto di accesso al suo garage.

Lei parcheggiò, però non scese. Spense la radio e tenne lo sguardo fisso sul parabrezza, come se la forza le venisse da lì. Il motore girava ancora al minimo, poi lo spense. Eravamo trattenuti dal silenzio che c’era tra noi. Un silenzio che aveva un rumore tutto suo: una calma quasi assordante. Poi mi guardò negli occhi, quasi volesse ribadire una decisione già presa.

Scese dall’auto ed entrò in casa, lasciando la spesa in macchina. La porta era rimasta aperta. La seguii, entrai nel piccolo ingresso e gettai una rapida occhiata ai suoi tacchi mentre saliva in fretta la scala. Nella casa le luci erano quasi tutte accese e vidi fotografie di lei e Eden sul tavolino nell’atrio, e altre appese sulla parete lungo la scala. Di sopra Mary si mosse rapida da una stanza all’altra. Sentii che si affrettava mentre anch’io salivo. Una dopo l’altra spense tutte le luci.

Il buio fu totale.

Mi fermai in cima alle scale, vicino alla balaustra. Lei mi trovò e mi afferrò il braccio all’altezza del bicipite, non mi prese per mano. Mi condusse in una stanza. La luna si stava affacciando nel cielo e un po’ di luce entrava da una porta scorrevole di vetro che si apriva su un portico. Era una luce pallida che rendeva Mary argentea, bellissima. Chiuse l’avvolgibile facendo cadere di nuovo l’oscurità. Per quanto risoluta volesse sembrare, conoscevo la sua fragilità. Questa era la loro camera. Volevo farlo, ma sapevo che con il minimo errore di calcolo avrei potuto rovinare qualcosa, così sedetti sulla sponda del letto come un bambino in una camera di adulti, immobile nel tentativo di comportarmi bene.

Lei infilò le gambe fra le mie e rimase così per un momento. Avevo la testa all’altezza del suo seno e il profumo delicato che emanava ebbe un effetto ipnotico, rallentò ogni cosa. Le spostai le braccia sulla schiena e sentii sotto le dita il pizzo ruvido del reggiseno, ma non mi sentivo autorizzato a fare di più. Lei cercò di liberarsi dall’imbarazzo facendo aderire il corpo al mio. Pensai che ci saremmo baciati, invece mi crollò addosso e ricaddi sul letto. Mi alitò vicino all’orecchio e sembrò aria viziata. La tenevo ancora fra le braccia e percepivo il lieve tremore che la scuoteva, come un ramo tirato con troppa forza e poi lasciato andare. Si bloccò e fu come se quel ramo si fosse spezzato. Non era in grado di andare oltre, così le rotolai sopra. Mi guardò, mi toccò la faccia e senza alcuna esitazione puntò dritto ai miei pantaloni, cominciando a slacciarli, prima i miei, e poi i suoi. Mentre cercavamo di liberarcene, mi interruppi e le chiesi se aveva un profilattico.

«Non ti serve» disse.

«Sarebbe meglio.»

«Non ce n’è bisogno, davvero» ribadì, e distogliendo lo sguardo aggiunse: «Sono già incinta».

A questo punto non restava altro da dire, così entrai dentro di lei. Non smise mai di guardarmi negli occhi.

Per tutto il tempo mi fissò, ma il suo sguardo era freddo. Mi scrutava come se la mia faccia fosse una pagina con sopra scritta un’equazione che aspettava di essere risolta. Quello che stavamo facendo non era un atto d’infedeltà sconsiderato, mosso dalla passione, Mary lo aveva calcolato. Alla fine feci per staccarmi, demoralizzato, e lei mi sorprese allungando la mano per trattenermi dentro. Sempre senza dire nulla e senza alcuna intenzione di lasciarsi andare. La sua faccia era una maschera di concentrazione, le labbra si muovevano con piccoli tremiti, come se stesse contando.

Per fermarle le labbra gliele baciai, e lei ricambiò contro voglia.

Si staccò da me rotolando sul fianco. Ci sedemmo sulle due sponde opposte del letto, dandoci le spalle, e ci rivestimmo. Sul tavolino in fondo al letto c’era una lampada. Una volta vestita, lei non l’accese. Aprì le tende e in quella luce fredda tutto nella stanza diventò fioco e color dell’argento.

«Era da tanto tempo che desideravo un figlio» disse, guardando fuori dalla finestra. Non capii bene a chi fossero dirette quelle parole. Non sapendo che cosa fare, ma volendo essere gentile, rimasi alle sue spalle e la baciai sulla nuca. Si girò. Dall’occhiata che mi rivolse mi resi conto di aver fatto la cosa sbagliata. Indietreggiai e lo spazio fra noi diventò freddo come la luce.

«Mi dispiace di averti coinvolto» disse.

«Mi dispiace che lui stia per partire» dissi io. «Non sapevo del bambino.»

«Neanche lui lo sa.»

Avrei voluto chiederle perché non gliel’avesse detto. Avrei voluto dirle che se avesse saputo del figlio, forse non sarebbe partito per questa missione. C’era ancora tempo. I suoi documenti erano pronti, però non li aveva firmati. A questo punto la sua non era niente più di una promessa. Ma prima che potessi dirle queste cose, lei si allontanò dalla finestra e accese la lampada. Lì, con lei, in quella stanza, dopo quello che avevamo fatto, non avevo il diritto di aiutare nessuno dei due. Era stato un momento rubato e non vedevo l’ora di tornare in caserma, per essere solo.

Non volendo disturbarla chiedendole di accompagnarmi, la pregai di chiamarmi un taxi. Quando arrivai in camera mia era tardi e ancora non avevo mangiato, così telefonai al takeaway cinese, che però era chiuso.