Prima che l’infermiera di guardia entrasse con l’alberello, Eden si stava preparando per uno scontro. Secondo i suoi calcoli aveva visto l’ultimo scarafaggio, quello nell’angolo, quasi ventiquattro ore prima. Ma benché ne avesse visto soltanto uno, ne aveva sentiti migliaia che avanzavano attraverso i muri, facevano scoppiare le bolle dentro l’intonaco, come se infilassi la testa in una scodellona di Rice Krispies con il volume al massimo, un frastuono infernale. Dal baccano prodotto li poteva quasi immaginare che si schieravano in ranghi ordinati, le zampette pelose e il carapace nero rossastro, in formazione serrata d’assalto, pronti a ingoiarselo intero.

Quando in fondo al corridoio suonò il telefono, e sentì l’infermiera di turno parlare con Mary, pensò che l’ultima cosa che avrebbe saputo di sua moglie era che le stavano mentendo, assicurandole che era tutto sotto controllo. Era questo il groviglio di pensieri che si agitavano nella testa del mio amico quando l’infermiera entrò con l’alberello di Snoopy, e accidenti se in quel momento non pensò che gli aveva appena salvato la vita, spaventando gli scarafaggi.

Eden era praticamente cieco, quindi non posso dire che avesse visto davvero la donna entrare, vide però un bagliore bianco che gli si avvicinava, e anche le lucine dell’albero. Erano intermittenti come un’insegna al neon vista dalla finestra di un qualche albergo scadente, e le sentiva sulla faccia. Ma ringraziava Dio per quelle luci che, sperava, avrebbero tenuto lontani gli scarafaggi. Sentì le luci anche quando l’infermiera lo toccò, e provò imbarazzo per l’enorme e rabbioso fantasma di un’erezione inesistente che lo solleticava su su fino alla macchia ustionata che aveva al posto dell’ombelico. E rimase lì a chiedersi perché questa capacità gli fosse tornata soltanto quando il resto era sparito, e pensò all’odore di acqua e sapone dell’infermiera. Questo lo riportò a sua moglie, e più indietro ancora alla sua pelle sotto la doccia, e a come le sue dita scivolavano sulla pelle umida, e all’odore dei polsi di sua zia quando lo prendeva in braccio, da bambino. Di lì a poco aveva inspirato gran parte di quell’odore e lo aveva eliminato dalla stanza, e il respiratore nell’angolo accanto al letto aveva filtrato tutto il sapone e tutta l’acqua che c’erano.

Quel che arrivò dopo era diverso, più forte.

Sentì l’odore dell’alberello di Snoopy nell’angolo, la resina e gli aghi già secchi che cadevano sul pavimento. Però questo odore non era più collegato al Natale, per lui. Non poteva più esserlo. Era l’odore delle rocce granitiche nella foschia, di strade strette e pericolose, di sceicchi ben nutriti ed emiri autoproclamati con i baffi lucidi di cera, dei loro giovani sui monti, ad aspettarlo. Il giorno in cui era bruciato, era questa la puzza che avevamo sentito entrambi, mescolata a quella del gasolio, dei nostri capelli, dei nostri corpi. La morte aveva l’odore dell’alberello di Snoopy.

Eden cominciò a inspirarlo profondamente, nel tentativo di risucchiarlo dalla stanza, un odore diverso. Il respiratore lavorava nell’angolo, insieme a lui. Sentiva il cuore faticare duramente nel petto quando espirava la puzza di resina, e quando non la sentì più si mise in attesa. Chiuse gli occhi. Sull’interno delle palpebre vedeva ancora i colori delle lucine natalizie, ognuna un’esplosione di pianeti verdi e rossi, gialli e blu. Il cuore rallentò e anche il respiro, e allora aprì gli occhi, e fu il disastro.

Proprio dove aveva sentito l’erezione fantasma c’era lo scarafaggio che lo fissava, e le lucine si riflettevano sulla corazza nera: rosso ruggine, verde ruggine, giallo ruggine, blu ruggine. Il cuore di Eden cercò di scavarsi un buco per uscire dal petto. Il bastardo mosse la coppia di antenne, e poi appoggiò una delle sei zampette pelose dove finiva il bendaggio sul corpo del mio amico, per stuzzicarlo, per fargli sapere che poteva arrampicarsi dove gli pareva. Eden spalancò gli occhi con una tale forza che le lacrime gli scesero lungo il collo, e il sale bruciò le ferite aperte. Si sforzò di imporre con lo sguardo allo scarafaggio di scendere dal letto, come aveva già fatto altre volte.

Non funzionò.

Lo scarafaggio restò dov’era, e lo fissò. Due enormi occhi neri sotto le antenne piegate.

Eden si inarcò.

Niente, l’insetto non si spostò.

L’odore di pino era scomparso. Era stato sostituito dalla puzza di vomito e paura di mille scarafaggi, e riempiva le narici del mio amico. Poi alle sue spalle esplose il frastuono di migliaia di zampe. Venivano a prenderlo, lo sapeva: digrignò i denti, e appena prima di ululare, sentì il muscolo del cuore che si spaccava in due.