Al martedì Mary teneva il primo corso alle sei di mattina.
Era lei ad aprire la palestra, e si cambiava nello spogliatoio. Vicino alle docce c’era uno specchio a tutta altezza. Si vestiva lì davanti, nuda e sola. Grazie all’esercizio, aveva braccia e gambe muscolose e i capelli scuri le cadevano sulla pelle bianca e pulita, il genere di pelle che non conosceva macchie né abbronzatura. Ammirando il proprio corpo così poco apprezzato provava rancore per il modo in cui Eden vi aveva rinunciato. La sua immagine nuda le sembrava un magnifico quadro lasciato appeso su una squallida parete.
L’ultima volta lo aveva fatto con me, e dal loro tentativo nel parcheggio sulla spiaggia erano passati altri due mesi. Da allora Eden non l’aveva più toccata e ormai non le restava più molto tempo. Aveva mal di stomaco e il suo viso rivelava le ore di sonno perdute. Tuttavia, se fosse riuscita a persuaderlo a fare l’amore con lei un’ultima volta, avrebbe potuto sostenere che il figlio era suo. E allora sarebbe rimasto, pensò. Quello era stato il patto che avevano stretto, all’inizio della loro relazione. Con un figlio sarebbe rimasto. Di questo era sicura, così come era sicura di poter convincere se stessa e il mondo intero che il bambino non era mio.
Ma Eden non la sfiorava nemmeno, e la verità cresceva dentro di lei, seguendo una precisa tabella di marcia. Poi, in uno di quei martedì, Mary esaurì il tempo a sua disposizione.
Quel mattino si cambiò come sempre in palestra, tenne il primo corso e poi un secondo prima di pranzo. In programma non aveva altro. Aveva pianificato di sfruttare il pomeriggio per fare una commissione, un salto allo studio legale per sottoscrivere i documenti per la procura di suo marito. Mancavano tre settimane alla partenza e la procura era necessaria – le rate della macchina, l’ipoteca – per gestire la vita familiare fino al ritorno. Ma poi una collega si diede malata e le chiesero di sostituirla per il corso del pomeriggio. Così durante la pausa pranzo andò di corsa dall’avvocato per la procura e tornò appena in tempo per rimettersi la tuta sudaticcia, ma non per mangiare. Durante il corso, alla quarta serie di allungamenti, cominciò a sudare freddo e il mondo le si chiuse addosso. Perse i sensi cadendo in avanti e urtò contro un kettlebell, procurandosi un taglio netto, come se una monetina le si fosse conficcata sopra la fronte. Le allieve si precipitarono a soccorrerla, ma lei perse sangue a sufficienza per chiazzare il parquet della palestra. Tamponarono la ferita con gli asciugamani bagnati, mentre lei rifiutava il loro aiuto e cercava di rialzarsi. Quando fu di nuovo verticale, il gruppetto si scostò e lei arrancò verso una panca per gli esercizi che si trovava vicino alla porta. Rimase seduta per un po’, piegata in avanti, i gomiti appoggiati alle ginocchia e l’asciugamano premuto sulla fronte. Il sangue le era colato sul polso e sulla parte interna del braccio.
Quando arrivò il titolare della palestra tutti uscirono. Era un uomo che certamente non si teneva in esercizio, e il suo pancione ondeggiava come le mammelle di una mucca. Portò a Mary un bicchiere d’acqua, poi la prese sottobraccio e la condusse alla macchina. Mentre camminavano, lei protestò debolmente, ansimando, che non voleva farsi vedere da un medico. Lui ce la portò lo stesso. Impiegarono venti minuti per raggiungere l’ospedale militare e per tutto il tempo lei insistette perché la portasse a casa. Lui la ignorò e la lasciò all’entrata del pronto soccorso mentre protestava ancora.
Entrò con l’aiuto di due paramedici. File di sedie di plastica e conversazioni sommesse riempivano la sala d’attesa. Con la testa piegata all’indietro e l’asciugamano premuto sulla ferita, Mary ascoltò le conversazioni intorno a lei e il ronzio monotono dei talk show pomeridiani proveniente dai televisori appesi a ogni angolo. Una donna, molto grassa e probabilmente diabetica, sedeva su un deambulatore elettrico accanto al figlio, un soldato scelto magro ma muscoloso e bello, nella sua uniforme mimetica. Alla donna avevano amputato una gamba, e quella che le restava spuntava da sotto il pigiama di cotone, un moncherino in via di calcificazione, coperto di pelle secca e squamata, punteggiata di grigio come la corteccia staccata di un albero morente. Mary non provò compassione per lei, anzi, provò lo stesso risentimento che al figlio non era permesso provare, probabilmente. Aveva sacrificato quella giornata, e chissà quante altre, per assisterla nel declino.
Di fronte a Mary sedeva nella sala d’aspetto un’altra mamma, una bella ragazza più giovane di lei. Aveva due bambini che sembravano gemelli. Dormivano tutti e tre, appoggiati l’uno contro l’altro, le facce gonfie e le palpebre arrossate. Il loro non era un buon sonno, si agitavano di continuo. In un certo senso il pronto soccorso per la madre e i bambini assomigliava a una stazione dove erano crollati dopo l’ennesima tappa di un viaggio interminabile.
Mary si chinò in avanti e guardò l’asciugamano. Si augurava che il taglio avesse smesso di sanguinare, invece no. Aveva un bisogno disperato di andarsene. Non erano le persone malate a turbarla. Era la mancanza di autonomia. Certo, le dispiaceva vedere vecchi e giovani incapaci di badare a se stessi, ma più di tutto la turbava vedere persone costrette a rinunciare ai loro giorni migliori per occuparsi di altri che invece stavano vivendo i loro peggiori momenti.
All’estremità del pronto soccorso si spalancarono due larghe porte automatiche. Un’infermiera di mezza età passò vicino al banco della reception. Con la voce di un’annunciatrice lesse il nome di Mary da un portablocco a molla, e sbirciò i pazienti in attesa. Mary si alzò e si diresse a passo svelto alle porte automatiche. Si vergognava di sentir chiamare il suo nome, perché sembrava incapace di badare a se stessa, come tutti gli altri.
Oltrepassate le porte, seguì l’infermiera lungo il corridoio bianco. Si sforzò di non farsi distanziare, benché a ogni passo avesse un capogiro. Infine raggiunsero un piccolo ambulatorio. Si sedette su un lettino di plastica azzurra in mezzo alla stanza, stropicciando la carta protettiva.
«La dottoressa sarà qui fra pochi minuti» disse l’infermiera.
Sbatté con forza la porta, e Mary sentì il rumore risuonarle nelle orecchie. Chiuse piano gli occhi e il rumore non fece che aumentare. Il cuore le martellava nel petto e pulsava nella testa. Si sdraiò, raggomitolandosi, in attesa del medico, sforzandosi di non svenire di nuovo. Si aggrappò ai bordi del lettino per evitare di cadere. Adesso aveva più che mai bisogno di proteggersi.
Finalmente la dottoressa entrò nella stanza. Mary si sollevò con lentezza, e a fatica. Le sembrava di avere sulla testa una corona di nebbia.
«Rimanga pure sdraiata» disse il medico, una giovane interna. Lesse la cartella di Mary sulla porta. «Ha perso i sensi al lavoro?»
Mary annuì, chiedendosi che cos’altro ci fosse scritto, sulla sua cartella.
«Ha mangiato, oggi?» le chiese la dottoressa, poi la fece sdraiare e premette in vari punti della pancia, sempre più in basso.
«No, non avevo fame.»
«Di quante settimane è? Dieci, dodici?»
La nebbia che prima la opprimeva si sollevò. Questa dottoressa era la prima a mettere in parole quello che Mary aveva fatto con me.
In silenzio iniziò a piangere.
«Non lo sapeva?»
Mary guardò da un’altra parte. «Sì, lo sapevo.»
La dottoressa completò la visita e attraversò la stanza. Appoggiò la cartella di Mary su un ripiano e cominciò a scrivere. Mary si mise seduta per guardarla.
Finito di scrivere, la dottoressa parlò di nuovo. «Quando un membro dell’esercito o un familiare viene al pronto soccorso, siamo obbligati a segnalarlo. Suo marito ha già chiamato per avere sue notizie. Siamo tenuti ad aggiornarlo sul suo stato.» Poi le appoggiò una mano sul braccio. «Mi dispiace» disse, e non sapendo come proseguire non aggiunse altro.
Mary si asciugò gli occhi e strinse la mascella. Poco dopo cominciò a rosicchiarsi le unghie.
La dottoressa finì di scrivere. Si avvicinò, e in mano aveva un sottile ago ricurvo. Delicatamente le separò i capelli, lisciandoli in modo da vedere bene il taglio a forma di mezzaluna. Tamponò la ferita con l’alcol. Mary spalancò gli occhi, poi il bruciore passò e non sentì più dolore.
La dottoressa proseguì con la sutura. «Conosco un posto in città» disse a voce molto bassa, senza smettere di lavorare. Aveva avvicinato il viso a quello di Mary, con la fronte aggrottata, e batté le palpebre senza perdere la concentrazione. Quello che disse dopo, molto lentamente, e con la stessa precisione che metteva nel suturare, fu: «Sarà un lavoro rapido e ben fatto».
«Ben fatto?»
«Quando avrà finito, non resterà niente a ricordarglielo.»
La dottoressa tirò forte l’ultimo punto.
Mary sussultò.
L’altra si scostò per esaminare la sua opera, neanche stesse leggendo un menù. Soddisfatta, attraversò la stanza e si fermò a un banco dove compilò la prescrizione per l’antibiotico. La consegnò a Mary insieme a un altro foglio. Sopra c’era un indirizzo, non scarabocchiato come fanno di solito i medici, ma scritto in stampatello.
«Potrà farsi dare l’antibiotico dalla nostra farmacia interna» le disse il medico. Poi guardò l’altro foglio. «Spero che riesca a fare ciò che è giusto per lei.»
Mary prese il foglio e guardò l’indirizzo. Conosceva Piney Green Road. Ci era passata centinaia di volte, era una strada tranquilla punteggiata da piccoli centri commerciali semideserti. Una di quelle strade con il marciapiede poco battuto, dove l’erba spuntava dalle crepe. Una strada dove non aveva mai avuto motivo di fermarsi.
Quando lasciò l’ospedale prese un taxi per farsi portare alla palestra dove aveva lasciato la sua auto, e tornò a casa. Era ormai tardo pomeriggio. Nel telefono trovò un messaggio vocale di Eden. La stava aspettando. Allungò il tragitto per passare da Piney Green Road, soltanto una deviazione, si disse, per verificare l’indirizzo, e superò un Days Inn. Un posto economico. Si chiese se era lì che le donne si fermavano, dopo, per riposare.
L’ambulatorio si trovava in uno dei centri commerciali e su entrambi i lati aveva dei negozi vuoti. Quando lo raggiunse il sole stava già tramontando ma l’ambulatorio era ancora aperto. Di fronte erano parcheggiate tre macchine. Si chiese di chi fossero, e parcheggiò la sua sull’altro lato della strada. Reclinò lo schienale e aspettò, senza una vera ragione. Davanti a lei, in fondo all’isolato, c’era il cartello stradale con il nome della via. Le piaceva molto – Piney Green – e le piaceva anche l’erba che spuntava decisa dal selciato, cercando di mostrarsi all’altezza di quel nome.
Aspettò fino a quando il sole fu tramontato del tutto. Poi la porta dell’ambulatorio si aprì. Una giovane donna si diresse a una delle tre automobili parcheggiate. Aveva lunghi capelli rossi, portava una normale tuta azzurra e teneva sottobraccio un paio di jeans e una blusa, gli indumenti con i quali probabilmente era arrivata. Girò l’angolo e li buttò in un cassonetto, poi salì in macchina. Restò ferma per un momento, come se stesse telefonando, quindi si allontanò in direzione del Days Inn.
Mary rimise in moto. Avrebbe dovuto superare l’albergo per andare a casa, ma non voleva seguire la ragazza e quindi prese una strada secondaria. Quando finalmente arrivò era sera. Vide nel vialetto l’auto di Eden, e le luci in casa già accese.