Quando Mary aveva chiamato il reparto, l’infermiera di guardia era intenta a leggere una rivista di gossip, e chiusa la telefonata si era rituffata nella lettura, leccandosi i polpastrelli ogni volta che doveva girare una pagina di carta lucida, di qualità scadente. Intanto la sua mente vagava.

Anche io e Eden leggevamo riviste di quel genere per ammazzare il tempo, quando aspettavamo un volo, o un convoglio che ci venisse a prendere. È inevitabile: se ti ritrovi chissà dove con del tempo da perdere, finisce che ti capita tra le mani uno di quei giornalacci. Mi sono domandato spesso se li leggono anche le celebrità che affollano le loro pagine. È probabile che abbiano cose più interessanti da fare. Adesso Eden e io abbiamo un sacco di tempo da ammazzare, ma non c’è neanche una rivista da dividersi.

Quel mattino l’infermiera di guardia non era ancora passata da Eden. Controllava i parametri vitali dai monitor della sua postazione, e si augurava di finire il turno senza dover fare nient’altro, per lui. Era nuova nel reparto, laureata da pochi mesi, e si era specializzata in pediatria, non sapeva niente di grandi ustionati. Inoltre non aveva alcun desiderio di verificare di persona quel che aveva sentito dire su di lui. Eppure, lì seduta da sola in quella mattina di Natale, si mise a pensare a Eden. Benché le apparecchiature elettroniche trasmettessero fino a lei l’infaticabile lavoro dei suoi organi vitali, non era sicura di poter chiamare uomo l’essere immobilizzato in quel letto. Non era davvero vivo, ma non era morto, e in realtà lei non riusciva a dare un nome a ciò che era diventato.

Aveva sentito i racconti del suo arrivo all’ospedale. La corsa sul tetto ad accogliere l’elicottero, e il fatto che, da allora, era sempre stato sospeso fra la vita e la morte. Nei cambi di turno i medici più anziani e gli infermieri parlavano a bassa voce del ragazzo del terzo piano, ustionato al punto che era un miracolo che fosse ancora vivo. Mormoravano in fretta poche parole, mentre bevevano il caffè, o dentro un ascensore. Finivano inevitabilmente per ripetere le stesse cose: il ferito più grave delle due guerre; non credo che vorrei continuare a vivere, nelle sue condizioni; e: è solo questione di tempo. La frase «È solo questione di tempo» la dicevano tutti. E accidenti se non era la verità. Per il mio amico era questione di giorni, settimane, mesi, disteso nel letto, privato della possibilità di morire.

L’infermiera si chiedeva quanto tempo avrebbe vissuto ancora. Magari un giorno lo avrebbero mandato a casa. Lo desideravano tutti, ma non sarebbe mai successo. E visto che non sarebbe mai successo, secondo lei sarebbe stato meglio lasciarlo morire, ma siccome nemmeno questo gli veniva concesso, e da così tanto tempo, be’, per lei era abbastanza perché non le venisse nessuna voglia di entrare nella sua camera. Si era ripromessa di rimanere seduta al proprio posto e tenere d’occhio i monitor. Era sufficiente. Avrebbe fatto così. Poi il turno sarebbe finito e lei sarebbe tornata al reparto di pediatria. Si augurava che non la richiamassero mai più al terzo piano, specialmente il giorno di Natale.

Forse vi ho dato l’impressione che quest’infermiera fosse una persona fredda, ma non era così. Era soltanto troppo giovane e stanca per saper gestire i trentacinque chili abbandonati in una camera in fondo al corridoio.

Sulla scrivania c’era un alberello di Natale come quello che Snoopy si metteva sopra la cuccia, addobbato di lucine non più grosse di un acino d’uva e con i rametti coperti di nastri argentati. Dopo un po’ l’infermiera provò una stretta al cuore al pensiero che lei e Eden stavano passando insieme la notte di Natale, e che magari per lui sarebbe stata l’ultima, e con tutte queste emozioni che le si agitavano dentro fece l’unica cosa possibile: staccò la spina dell’alberello di Snoopy dalla presa nel muro e lo portò nella camera di Eden.

Le tende erano tirate, e la luce fioca che filtrava lungo i bordi rendeva soltanto più grigia la stanza. Entrando, l’infermiera non lo guardò subito, non direttamente. Guardò intorno a lui, dove c’erano i monitor collegati a quelli nella sua postazione. Tutte quelle macchine che circondavano il letto come batterie e percussioni, erano collegate al suo corpo attraverso tubicini e fili, come se fossero alimentate da Eden.

Gli unici suoni erano il cigolio delle suole di gomma sul linoleum, e il respiratore che lo teneva in vita. Lei si avvicinò alla finestra e aprì le tende. La luce inondò il letto. Con la luce arrivarono i colori, e lo vide. Il candore delle lenzuola, le piccole macchie rosa dove brandelli di lui si erano appiccicati al tessuto, le cavità scure delle piaghe, che chiedevano di essere guardate. Notò colori che non aveva mai visto in nessuna persona, ma erano dentro di lui e, in una certa misura, anche dentro di lei. I marroni, i verdi, e i gialli sottocutanei delle ustioni più profonde, aggrovigliati sotto l’epidermide, e più sotto ancora, e vide i suoi occhi che battevano le palpebre, sprovviste della protezione delle ciglia, e vide che erano umidi per la mancanza di riposo, annebbiati dalla sofferenza, e che lacrimavano ininterrottamente sul guanciale.

Richiuse le tende.

L’aria calda le soffiava sulle mani. Il riscaldamento era montato dietro una griglia sotto la finestra. Appoggiò l’alberello di Snoopy sul davanzale interno e cercò una presa. Ne trovò una dietro il letto e lo collegò, vicino a un cellulare che qualcuno aveva lasciato in carica. Le lucine natalizie riempirono la stanza di colori puri, intermittenti: verde e rosso, giallo e blu. Mentre andava verso la porta si voltò a guardare, e vide che gli occhi di Eden la seguivano. Quando passò ai piedi del letto provò il desiderio di toccarlo. Il cuore in gola, un ritmo tamburellante come dita ansiose sul ripiano di un tavolo. Sentì un rivolo di sudore formarsi sul fondoschiena, dove la pelle era più morbida e coperta da una leggera peluria.

Si fermò accanto al letto.

Lui distolse lo sguardo per fissare l’alberello e lei vide che le luci si riflettevano nei suoi occhi vitrei. Allungò una mano e posò il polpastrello del dito medio su una delle leggere fasciature che gli coprivano i fianchi. Fece scorrere il dito fino alla fine del bendaggio e gli guardò ancora gli occhi, e vedendo che non vedevano niente, il suo dito si spostò dalla garza alla pelle nuda del petto. Era ustionata, affumicata, dissanguata, eppure non era morta. La scoperta la sorprese. Quel pezzettino di carne che aveva sfiorato era mille volte più vitale di lei. Sotto il dito sentiva la capacità di sopravvivenza, ciò che un corpo può fare e fa, quando è spinto allo stremo. Era l’espressione di tutto il dolore sofferto da un uomo che scommette sul futuro, qualunque esso sia, l’animale anfibio che striscia sul terreno, il primo ominide che conquista la verticalità. Era quella forma grottesca e purissima di adattamento: la vita.

Ritrasse la mano.

Lui continuava a non guardarla. Fissava l’alberello di Snoopy e le sue lucine. Lei uscì in fretta dalla camera e tornò alla sua postazione, davanti ai monitor.

Si sedette.

Alla fine riuscì a sfogliare le prime pagine della rivista, ma soltanto dopo essere andata in bagno, e essersi lavata le mani.