Se chiedevi a Eden e Mary come si erano conosciuti, probabilmente ricevevi una delle tre seguenti risposte. Se chiedevi a lui, e Mary non era presente, ti rispondeva che si erano incontrati alle superiori. Ti spiegava che frequentavano la stessa compagnia e che lui era stato uno fra i numerosi corteggiatori, tutti meno appetibili, e tu immaginavi le felpe di una squadra scolastica, fast food e feste dove si pomiciava. Ti rimaneva anche la strana impressione che lui, benché poco più che adolescente, avesse valutato Mary, giovanissima, e deciso di poter fare quello che tu nemmeno da adulto riesci a fare, ovvero convincersi che era una ragazza da sposare e conquistarla. Se invece facevi la stessa domanda a Mary, e Eden non era presente, lei ti diceva che si erano conosciuti alle superiori ma avevano cominciato a frequentarsi dopo, e che comunque non era stata una storia seria fino a quando lui era stato assegnato a Camp Lejeune e lei aveva dovuto scegliere se lasciarlo o seguirlo. L’ultima versione, quella più vicina alla verità, la sentivi soltanto se erano presenti entrambi. Uno dei due, quello o quella che sul momento si sentiva più premuroso verso l’altro o l’altra, affrontava la domanda come se fosse il suo turno di lavare i piatti, e insipidamente rispondeva: «Veniamo dalla stessa città».
Dico che questa era la versione più vicina alla verità anche se non l’ho visto succedere: si erano messi insieme perché venivano dallo stesso posto. Questo non vuol dire che si erano messi insieme perché erano andati a sbattere uno contro l’altra per caso, ma perché tutti e due stavano scappando, ed era stata la voglia di fuggire a trasformarli in una coppia, molto più di due banchi vicini in classe, o di un ballo di fine anno.
Per Eden e Mary, casa rappresentava una forma di terrorismo silenzioso: corsi nei centri di formazione professionale, lavori part-time che non richiedevano nessuno dei loro talenti ma assorbivano tutte le energie, amiche e amici d’infanzia legati dalla promessa che non si sarebbero mai separati. Per tutti e due casa significava un luogo da tempo definito non da chi vi abitava ma da chi l’aveva abbandonato: nel caso di Mary un padre morto giovane, in quello di Eden una zia che lo aveva cresciuto insieme ai fratelli, morendo poi di una malattia lenta e inesorabile. Scapparono via insieme, e è difficile non innamorarsi della persona con cui stai fuggendo. Ma prima o poi ti fermi, e allora...
Penso di averli conosciuti più o meno quando si erano fermati. Eden e io eravamo nella stessa compagnia, caporali tutti e due, il che significava che avevamo un paio di anni in più dei ragazzi della nostra squadra e un turno di servizio alle spalle. Voleva dire anche che ci eravamo arruolati prima che scoppiasse la guerra in Iraq, una cosa che agli occhi dei compagni più giovani ci faceva assomigliare a quella strana razza che entrava nei Marines per amore della vita militare. Non era escluso... non lo sapevamo ancora.
Eravamo quasi alla fine dei nostri primi quattro anni e tutti e due stavamo cercando di capire se ne volevamo fare altri quattro. Diventare amici era stato semplice e naturale.
Che rinnovassimo o meno la ferma, il nostro battaglione si stava preparando per un nuovo turno al fronte. Significava esercitazioni notturne a non finire – sparare al buio, pattugliare al buio: non appena avevamo imparato a fare bene qualcosa di giorno, il tenente ci radunava e ci ordinava di farlo bene al buio. Mi chiedevo spesso, durante quei giorni, perché non imparassimo direttamente ad agire di notte.
Saremmo partiti in inverno, e andammo avanti con le esercitazioni per tutta l’estate, quando le giornate erano più lunghe. Il tenente ci lasciava liberi alle 15:00, e alle 21:00, quando faceva buio, ci dovevamo ripresentare. Secondo lui non erano più ore del previsto. Secondo lui se non avessimo fatto le esercitazioni notturne saremmo andati avanti fino alle 18:00, invece così dopo la pausa rientravamo e lavoravamo fino a mezzanotte. «Tre ore sono sempre tre ore» ripeteva. Ma sicuramente persino lui si rendeva conto che era una cavolata, e infatti subito dopo aggiungeva: «Quindi non lamentatevi». Sotto le armi ti dicono di non lamentarti solo quando in realtà c’è qualcosa di cui lamentarsi.
Ma da quando Eden mi invitò a cena e conobbi Mary, non protestai più per le esercitazioni notturne.
La prima volta fu un martedì. Lui aveva cucinato un’anatra arrosto, e ricordo di aver pensato: ma chi cucina un’anatra in un giorno feriale? Mary aveva apparecchiato in cucina, ma lei mangiò soltanto un piatto di insalata. Indossava la tuta con cui insegnava in palestra, e noi le uniformi, e tutti e tre puzzavamo un po’ di sudore. Mary era vegetariana, qualche volta mangiava pesce ma certo non anatra, e me lo disse mentre le porgevo il piatto di portata. Lo posai sul tavolo e notai che lei mi stava guardando la mano. Avevo una cicatrice sulle nocche e lei mi chiese se tiravo di boxe, perché a Eden piaceva la boxe.
«No. C’era un vecchio tatuaggio che ho fatto cancellare.»
«Cos’era?»
«USMC.»
Mi guardò confusa, come se si stesse chiedendo perché mi fossi fatto cancellare la sigla del corpo a cui appartenevo ancora.
«Me l’ero fatta tatuare a sedici anni» spiegai. «I miei non ne sono stati per niente contenti.»
Eden ridacchiò. Aveva le braccia coperte di tatuaggi tribali. Dai gomiti partivano ragnatele, e qua e là c’era qualche teschio. Non aveva neanche venticinque anni e gli ci sarebbe voluto un altro corpo per scriverci sopra con l’inchiostro un’altra parte della sua storia.
«Mi stai dicendo che hai sempre voluto fare il marine?» chiese lei.
Prima che potessi rispondere lui intervenne: «Si farà un altro turno». Non avevo ancora firmato le carte, comunque sì, aveva ragione, erano pronte.
Mary guardò Eden e non disse niente. Lui doveva ancora decidere. Sapevo anche che non avrebbe voluto parlare dei suoi dubbi davanti a lei.
«Sì, credo di averlo sempre voluto fare.»
«Fagli vedere il tuo» le disse Eden. Poi, come se mi stesse rivelando un segreto, aggiunse: «Anche lei l’ha fatto a sedici anni».
Mary spostò i capelli, legati in una coda di cavallo su una spalla. Nell’incavo fra nuca e collo, c’era una spruzzata di lentiggini blu. «È Andromeda» disse. «Quand’ero piccola mi alzavo per guardarla dalla finestra.» Devo averla fissata con un’aria da tonto, perché si affrettò ad aggiungere: «Andromeda è una costellazione».
Feci di sì con la testa come se lo sapessi, ma in realtà non conoscevo nessuna costellazione con quella forma. Per me erano soltanto puntini scuri sulla pelle chiara. Eppure provai immediatamente il desiderio di passare un dito fra quelle stelle, per collegare non so bene cosa. Forse era quello il desiderio che Andromeda voleva suscitare.
Non dissi niente, e per un attimo tutti e tre provammo uno strano imbarazzo. «Bastardi!» esclamò Eden all’improvviso, e alzò un piede per schiacciare un paio di scarafaggi sulla moquette.
«Ma li devi proprio schiacciare?» chiese Mary mentre raccoglieva i due insetti con un tovagliolo di carta.
«Come li odio, cazzo» disse Eden, guardando me.
Mary gettò il tovagliolo nella pattumiera in cucina, poi andò a lavarsi le mani e ci raggiunse. Finito di cenare lei si offrì di lavare i piatti, però Eden disse che ci avremmo pensato noi. Ed era da piccole cose come questa, raccogliere gli scarafaggi schiacciati e offrirsi di pensare ai piatti, che si capiva con che gentilezza si comportavano fra loro. Lei si alzò e uscì dalla cucina. Noi finimmo di lavare e asciugare le stoviglie e quando chiusi il rubinetto mi accorsi che c’era la doccia in funzione. I miei occhi seguirono il rumore mentre immaginavo l’acqua scivolare sul suo corpo nudo, correrle lungo il collo. Devo essere rimasto a fissare imbambolato il muro perché a un certo punto Eden disse: «Sì, ti troverei strano, se non ci pensassi».
Mi sentii accaldato, con il sangue che dallo stomaco correva verso braccia e gambe, all’idea che lui avesse capito prima di me che cosa provavo per lei.
«Vieni» disse, e indicò la porta con un cenno.
Per andare a prendere la macchina dovevamo attraversare il garage, e vedendo un sacco Everlast che dondolava appeso alla catena lo colpii con tutte le mie forze. Eden mi sorrise e tornammo al campo dove avremmo passato tre ore a sparare.