Dopo aver firmato i moduli per il consenso, Mary sedette davanti alla camera di Eden, in attesa. Sentiva i colpi attutiti che lui dava picchiando con la testa contro il cuscino e la voce impercettibile di Gabe che parlava con uno dei medici mentre gli veniva somministrato il sedativo. L’avevano rassicurata che era un farmaco potente, capace di attenuare il dolore, facilitandogli la fine. Erano stati molto gentili, però concisi. Da tempo lei sopportava a fatica quel flusso continuo di medici e infermieri con i quali, in quei tre anni, aveva praticamente convissuto. Andavano e venivano e nessuno di loro si era fermato in questo reparto o in questo ospedale a lungo quanto lei, tutti davano con grande prodigalità consigli riguardo alla vita di suo marito, e adesso ne stavano dando riguardo alla sua morte.

Rimase seduta stringendo in mano il modulo della liberatoria, leggendo davvero per la prima volta quel che c’era scritto. Era un geroglifico incomprensibile di farmaci: lorazepam, propofol, ketamina, tiopentale sodico. Siccome per lei tutti quei nomi non significavano nulla, lo strappò in piccoli pezzi e li gettò nel cestino in fondo al corridoio.

Tornò a sedersi; dalla stanza di Eden adesso arrivava soltanto silenzio. Erano già passati un paio di giorni da quando aveva preso l’aereo per tornare all’ospedale, e desiderava mettersi in contatto con la madre. Compose il numero e al secondo squillo la madre alzò il ricevitore. Prima che potesse parlare, Mary la precedette spiegandole tutto: l’attacco di cuore e l’ictus, i farmaci che gli venivano somministrati e il fatto che, se lei era d’accordo, Eden avrebbe potuto andarsene in modo indolore.

La madre non disse molto, limitandosi soprattutto ad ascoltarla.

«Secondo i medici accelerare le cose è la scelta migliore» disse Mary.

«È passato molto tempo, troppo» replicò la madre. «Lui avrebbe voluto che si facesse ciò che è meglio per te e Andy.»

«E che cos’è meglio, per noi?»

«Non sarebbe mai dovuto partire per quella missione» furono le parole pungenti della risposta. «È durato tutto troppo.»

Seguì un momento di silenzio. «Non è andata come pensi, mamma.»

«Ti ha abbandonata» disse la madre.

Mary non rispose. Sentiva il peso della colpa per quello che aveva fatto con me quella sera. Un senso di colpa che non l’abbandonava mai. Nella sua mente la verità era un’altra. Nella sua mente, era stata lei ad abbandonarlo, quella notte insieme a me, nel tentativo di intrappolarlo a casa con il figlio che avevamo concepito.

«Voglio soltanto che tu torni qui.»

«Lo so.»

Si salutarono con un «ti voglio bene» e riattaccarono. Poco dopo la porta della stanza si aprì e Gabe comparve sulla soglia. Sotto la luce al neon sembrava più vecchio, le ombre trovavano più spazio sul suo viso. Vicino a quella di Mary c’era un’altra sedia; lui la girò verso di sé, si mise a cavalcioni e appoggiò gli avambracci sullo schienale.

«Sta dormendo» disse.

Mary fece di sì con la testa.

«Non soffre più.»

Di nuovo, lei annuì.

«Non so quanto ci vorrà» disse lui, «però posso fare in modo che avvenga più velocemente e che non soffra.»

Non aggiunse altro, si limitò a starle seduto vicino, ed era ciò di cui lei aveva bisogno. In fondo al corridoio, il sole del pomeriggio entrava da una finestra a ponente, sbiancando i pavimenti e le pareti già candide, avvolgendoli in una luminosità che faceva scomparire ogni cosa.

Poi Gabe si rivolse a lei un’ultima volta. «Lo sa che morirà.»

Mary non fece commenti.