Non è bello dirlo, e non è bello nemmeno pensarci, però i resti di Eden su cui Mary e i medici si accanivano con tanta ostinazione erano ben poca cosa. Siccome è mio amico posso dirlo, e in privato lo avrebbero confermato gli stessi medici. Avrebbero ammesso i danni cerebrali: una riduzione del trenta per cento dell’attività del lobo frontale, del cinquanta per cento di quella del lobo parietale, e contusioni un po’ dappertutto. Così stavano le cose. Non c’erano state soltanto le ustioni, l’esplosione aveva spaccato l’elmetto in due. E quel poco che rimaneva di lui, be’... era difficile riconoscerlo. Eden aveva ancora una mente, ma era diventata come un puzzle tagliato due volte, pezzi fatti a pezzi.
Aveva dimenticato molto. O forse le cose del passato avevano perso importanza. Per esempio non ricordava il nome del posto dov’era successo, la valle di Hamrin, però ricordava l’odore di pino bruciato, e l’aria secca di montagna che gli screpolava le labbra e le narici fino a farle sanguinare. Non ricordava più di essere stato un caporale del Primo Battaglione della Sesta Compagnia dei Marines, però sapeva com’era trovarsi lontani da casa, determinati a uccidere ma spaventati dalla morte. Ricordava di aver avuto amici che provavano sentimenti uguali.
Ero certo che si ricordasse di me.
Mentre Mary gli parlava dei suoi progetti per Natale, Eden l’ascoltava senza sentirla. Era impegnato a guardare l’altra estremità della stanza. Il linoleum del pavimento scintillava, fatta eccezione per un angolo in fondo, dove ne mancava una tessera. Lì, sull’intonaco nudo, si raccoglievano i capelli e la polvere. Ma Eden non stava guardando il mucchietto di sporcizia. Guardava lo scarafaggio che ci stava proprio sopra. Per tutta la settimana, mentre Mary dormiva sul divanetto, se ne era andato in giro per la stanza senza mai smettere di fissarlo.
Eden non sapeva più che si chiamava scarafaggio, l’insetto, però sapeva che con il suo carapace duro e le zampette spinose riusciva a prenderlo in giro. Non sapeva più nemmeno il nome di sua moglie, ma lei poco prima aveva baciato il cuscino e a volte lui percepiva la morbidezza dei suoi capelli scuri e il profumo di acqua e sapone. Era rimasta accanto al letto tutta la settimana, e non gli era sfuggita la tristezza dei suoi movimenti lenti e deliberati, ma spesso era stato distratto. Continuava a pensare: guarda quell’insetto, che bastardo. Se ne stava lì seduto di fronte a lui, e significava guai. Un paio di volte gli era arrivato vicino. Un giorno aveva cominciato ad arrampicarsi su una gamba del letto. Le gambe del mio amico si erano irrigidite per la paura, anche se gliele avevano amputate da tempo. Aveva provato a fissare a sua volta lo scarafaggio, per sottometterlo con lo sguardo, con una concentrazione quasi telecinetica. Eden aveva visto le antenne schizzare verso l’alto, come se l’insetto conoscesse la potenza della sua mente e si rendesse conto di dover architettare un piano migliore per arrampicarsi.
La sera della Vigilia, quando Mary partì, fu la sua prima volta da solo. Poco dopo il calar del sole qualcuno era entrato, non avrebbe saputo dire chi, e aveva spento le luci. Gli occhi vuoti di Eden avevano perlustrato la camera. Non vedeva, ma l’olfatto gli diceva che lo scarafaggio stava salendo sul letto. Era una puzza di vomito e paura, un odore che vorticava invisibile intorno al letto. Per quanto si sforzasse di non cedere, alla fine Eden si addormentò, ma anche nei sogni non smise di tenere d’occhio il bastardo.
Il mio amico era esausto. Non sapeva mai se dormiva, e quando.
Poi, in quello che gli parve il cuore della notte, sentì un rumore provenire dal davanzale della finestra dietro la sua testa. Arrivò veloce, messaggero del tuono. Lui lo interpretò: migliaia di scarafaggi, un’intera brigata di zampette pelose che marciavano alle sue spalle. Sentiva la vibrazione sul pavimento. Muoveva le lenzuola sulla sua pelle. Ascoltando quelle ripetizioni infinite cominciò a sudare, liquido salmastro che fuoriusciva a bolle dai pochi pori rimasti intatti e ricadeva sulle piaghe. Un dolore pungente. Ora percepiva ogni parte esposta del suo corpo, e in ciascuno di quei punti sentiva il battito del cuore. Tanti cuori che battevano insieme, come tamburi nella foresta.
Poi di colpo finì.
Eden strinse forte i denti nel nuovo silenzio. Stavano venendo a prenderlo, ne era certo. Annusò l’aria. La puzza era sparita. Non sapeva perché, ma quella scoperta lo spaventò ancora di più. Con i suoi poveri occhi storti si sforzò di cogliere almeno un barlume della loro presenza. Voleva quell’ultimo scampolo di dignità, vederli arrivare prima che si arrampicassero sul letto e gli entrassero dentro le piaghe, nei moncherini, prima che gli si infilassero in gola. Sudava, e sudava. Non poteva smettere, e il sudore bruciava. In alcuni punti no, perché non sentiva niente, e questo gli fece tornare in mente che quelle parti di lui erano morte. Se avesse potuto parlare, avrebbe detto così: «Fatevi sotto, pezzi di merda! Venite a prendermi!» Avrebbe avuto una paura pazzesca a dirlo, ma l’avrebbe detto comunque.
Non fece nulla, e la camera rimase immersa nel silenzio.
Rimase immersa nel silenzio a lungo.
Proprio quando stava cominciando a pensare che l’esercito di scarafaggi era soltanto frutto della sua immaginazione, eccoli battere contro il letto, vicino al davanzale della finestra, una falange miniaturizzata di antichi guerrieri che picchiavano spade contro scudi, all’unisono, nella cadenza della marcia. Sapeva che gli sarebbero stati addosso prima che lui avesse avuto il tempo di guardarli, e fece la sola cosa che poteva fare: aspettò.
Quando il sole spuntò, Eden aspettava ancora.