«C’è nessuno?» chiamò Mary guardando verso il corridoio.

Era all’ingresso del reparto, stanca per la notte insonne. Sul banco c’erano fogli sparsi. Gettò un’occhiata e vide che su molti compariva il nome di suo marito.

Da una camera in fondo arrivarono dei rumori. Mary si avvicinò. C’era un finestrone che andava dal pavimento al soffitto e inquadrava nell’oscurità delle prime ore del giorno la Pan Am Expressway e due distinte colonne di traffico, una rosso acceso e l’altra bianca, che scorrevano senza sosta verso opposte lontananze. A parte il traffico, la finestra mostrava solo il buio, oltre al riflesso dei neon sopra la testa di Mary e alle stanche ombre del viaggio di ritorno che le rigavano il volto.

Indugiò per un istante nella propria immagine.

L’infermiera di turno sporse la testa dall’ultima porta proprio davanti alla finestra. Teneva in mano una rivista. Se ne liberò con un gesto rapido e poi accompagnò Mary verso la camera di Eden. Dentro era buio, a parte le lucine dell’albero di Snoopy che lampeggiavano intermittenti sugli schermi dei monitor, sull’acciaio delle aste di sostegno delle flebo e sui tubicini, e gettavano macchie colorate sul linoleum lucido del pavimento.

Mary guardò l’alberello, prima del marito.

«Ho pensato che avrebbe avuto un effetto calmante» le spiegò l’infermiera.

Mary sorrise meccanicamente e accese le luci della stanza. Scrutò il corpo di Eden, soffermandosi sulle pupille, e sulle palpebre gonfie. Si sedette sul bordo del letto e posò una mano sulla coperta. Sentì il calore intrappolato sotto.

«Ha avuto freddo?» chiese.

L’infermiera aveva preferito non entrare, in presenza di Mary. Si era fermata sulla soglia, appoggiandosi con una mano allo stipite. Ma ora si avvicinò al letto, spiegando: «Ha avuto i brividi, e un po’ di febbre».

Entrambe le donne posarono una mano sul petto di Eden.

Lui non reagì, ma girò la testa verso l’albero e le lucine lo illuminarono a intermittenza.

«Ha bisogno di dormire» disse l’infermiera. «Ha la testa molto...» la giovane donna si fermò in cerca dell’aggettivo giusto, «stanca.»

Mary la guardò. «Se abbiamo bisogno di qualcosa la chiamo.»

L’infermiera uscì dalla camera e le suole di gomma cigolarono mentre tornava alla sua postazione.

Mary si arrampicò sul letto. Si sdraiò vicino a Eden, attenta a non spostare o tirare tubi e cannule che immettevano i liquidi nel suo corpo o li smaltivano. Sentiva il calore e ripensò a com’era un tempo, a letto: una fornace, gli diceva sempre. Mentre dormiva si girava e la bloccava con un braccio enorme, o una gamba pesante come un tronco sulle sue, e lei non poteva più muoversi. Quando faceva freddo si infilava per primo sotto le coperte, in mutande e maglietta, oppure nudo, e rotolando come un cane scaldava ogni centimetro per lei. Poi dichiarava di aver ottenuto la temperatura ideale, e se lei era d’accordo, lo raggiungeva e gli permetteva di toglierle la tuta e le calze. Al mattino si alzava sempre prima di lei. Andava a correre e poi sollevava pesi, oppure si esercitava nel loro garage. A volte lo vedeva rientrare dalla finestra della camera da letto, il vapore che gli saliva dalle spalle nell’aria fredda, oppure sentiva un amico che lo chiamava, «BASE Jump», e il tonfo dei loro pugni sul sacco appeso a una trave del soffitto, o i pesi che producevano un rumore metallico quando venivano tolti dagli appoggi, o rimessi, con la delicatezza con cui si sarebbero potuti sistemare tazze e piattini. Lei si alzava e rifaceva il letto, e lisciando le lenzuola trovava qualche pelo di lui, arricciato, fra le pieghe. Le dava l’impressione di dormire con un animale della fattoria.

Adesso, sdraiata su quel letto d’ospedale, ricordava tutto il suo calore, benché non restasse che un pezzetto di brace. «Dormi, dormi» gli disse, incerta su quale tipo di sonno gli augurasse, incerta se volesse dormire anche lei e svegliarsi magari al freddo, per scoprire che anche quell’ultimo pezzetto di brace si era spento.

Si appisolò.

La temperatura nella stanza scese. Sentì che Eden diventava più pesante, rilassato, abbandonato, e dietro le palpebre vedeva le lucine di Snoopy esplodere a intermittenza.

Poi percepì che il corpo di lui si irrigidiva, si inarcava. Si scosse, scrollò la testa, gli occhi, con le pupille così diverse, spalancati. Sentì la vibrazione del telefono dietro il letto. Era il suo cellulare, quello che credeva di aver perso. I monitor si erano scatenati. A ogni vibrazione i segnali diventavano sempre più fragorosi e veloci, fino a trasformarsi in un’unica nota lunghissima, tenuta.

Quando il telefono smise di vibrare i bip rallentarono. Eden si rilassò, il respiro tornò più calmo.

«Tranquillo, tranquillo» gli disse lei, accarezzandogli i capelli corti e duri che spuntavano a chiazze. Gli guardò gli occhi. Scrutavano freneticamente intorno come se temesse di essere attaccato da qualcosa, ma non si capiva cosa.

La porta si aprì e Mary scese dal letto. L’infermiera di turno entrò di corsa, controllò che tutto fosse collegato e lesse i dati sui monitor. I bip erano rallentati, più leggeri. L’infermiera uscì dalla stanza, sempre di fretta, dicendo a Mary che sarebbe arrivato il caposala.

Mary rimase di nuovo sola con lui. Si inginocchiò accanto al letto, appoggiando una guancia sul bordo del materasso, lo perlustrò e poi guardò gli occhi di Eden. Era pronta a salutarlo per sempre, e stava pensando a che cosa avrebbe voluto dirgli, nel caso lui avesse potuto sentirla, e a cosa voleva dire a se stessa.

La vibrazione rapida del telefono alle spalle di Eden annunciò l’arrivo di un messaggio vocale.

Lui gemette piano, un suono che era una via di mezzo fra il guaito di un animale ferito e il pianto di un bambino spaventato. Batté i denti come se avesse la febbre. Poi i suoi occhi si sforzarono di guardare indietro, verso la fonte della vibrazione. E mentre i pensieri di Eden scivolavano verso l’orizzonte, Mary si chiese quali strane ombre stessero gettando.

Poi capì: erano le mille vibrazioni del cellulare a spaventarlo.

Lo stavano uccidendo.

Non era il suo corpo che cercava di autodistruggersi. Suo marito non riusciva a dormire perché lei aveva dimenticato il cellulare nella stanza.

Avrebbe potuto lasciarlo dov’era.

Tutte le sofferenze sarebbero finite. Nessuno avrebbe saputo che era stata lei. E chi avrebbe ucciso, in fondo? La massa di carne che aveva davanti non era un marito, e sicuramente non era il famoso BASE Jump, finito in un lampo tre anni prima, lungo una strada nella valle di Hamrin. Non era nemmeno certa che lasciare il telefono vicino a lui volesse dire ucciderlo. Si sarebbe limitata a lasciar evolvere eventi che già erano in atto.

Ma non poteva.

Se ne fosse stata capace lo avrebbe fatto molto prima. Perciò si alzò e lisciò le pieghe della camicetta, quindi fece qualche respiro profondo. «D’accordo» disse, detestandolo in quel modo devastante che riserviamo alle persone che amiamo di più.

Andò dietro il letto, staccò il telefono dalla presa e se lo infilò in tasca. Staccò dalla presa a muro anche l’alberello di Snoopy. Spense le luci e chiuse la porta della camera, affidandola all’oscurità mentre il giorno invadeva il mondo.