Era molto presto, ancora notte, in effetti, e non riuscendo a dormire Mary fece una doccia. Stava chiudendo il rubinetto quando suonò il telefono. Imprecò fra sé e si precipitò in soggiorno tenendo l’accappatoio stretto sul petto. Andy dormiva sul divano e si agitò, mentre la madre gocciolava acqua sulla ruvida moquette. Era Gabe. La sua voce aveva il suono di una lattina piena di ghiaia: «Ha qualcosa che non va, temiamo un altro attacco».

«Che cosa succede?» chiese lei.

«Non è chiaro. I parametri vitali sono stabili e non c’è attività cerebrale irregolare, però si dibatte nel letto e digrigna i denti. Finirà per sfiancarsi. Vorrei dargli un sedativo, ma devo avere la sua autorizzazione scritta.»

Lei si guardò intorno nella stanza. Andy si era svegliata e si stropicciava gli occhi con i piccoli pugni. Di norma, Mary sarebbe uscita immediatamente. Non avrebbe indugiato al telefono e sarebbe corsa verso l’edificio principale dell’ospedale. Ma questo accadeva molto tempo prima. Adesso era esausta e, anche se non lo avrebbe mai ammesso, si augurava che fosse la fine.

«Un minuto e arrivo» rispose, e riattaccò.

C’era un centro di assistenza ai bambini aperto ventiquattro ore al giorno dove avrebbe potuto lasciare Andy. Iniziò a vestire la figlia, ma la bambina voleva farlo da sola. Mary si prese il tempo di spazzolare i capelli a entrambe. Riportò la spazzola in bagno. Poi lasciò la figlia al centro, e la piccola pianse.

Fuori era ancora tutto avvolto in una leggera nebbia simile a brina. Adesso era mattina e faceva freddo. L’edificio principale dell’ospedale si ergeva davanti a lei, una colonna di vetro e acciaio. Nella nebbia brillava di luce artificiale, e ogni lampada era circondata da un’aureola smorzata. Entrò dalle doppie porte scorrevoli e si trovò nell’atrio luminoso e tranquillo. L’impiegata dell’accettazione era molto indaffarata e non prestò attenzione a Mary che puntò dritta all’ascensore. Salì al terzo piano e percorse i corridoi che portavano alla stanza di Eden; il naso le colava ancora per il freddo, però sentiva caldo alle guance.

La stanza era rischiarata soltanto da una lampada nell’angolo. Suo marito fissava la lampada battendo le palpebre, i bordi degli occhi rossi e gonfi. Le lenzuola erano spiegazzate e a ogni respiro il collo oscillava leggermente. Non aveva mai avuto un bell’aspetto, in quel letto, però di solito era in ordine: ben rimboccato, le ustioni coperte, gli occhi o aperti – fissi nel vuoto – o chiusi, quando dormiva. Adesso era vivo, ma disordinato e tremante. Quelle centinaia di piccole scosse lasciavano intendere che nel suo corpo si fosse avviata una migrazione, che lo avrebbe strappato alla vita. Per quanto fosse preparata a lasciarlo andare, e per quanto desiderasse la liberazione finale, per lui, e per se stessa, in quel momento Mary provò un bisogno disperato che lui non mollasse.

Si sedette sulla sponda del letto, chiuse gli occhi e gli appoggiò una mano sulla testa come se toccandolo potesse strappare fuori il male, come si estrae il veleno da una ferita. Poi notò un odore dolce e stantio, le ricordava le sigarette umide che teneva nel barattolo sotto le assi della casa di sua madre. Alzò lo sguardo e vide Gabe.

Le sue braccia robuste si muovevano sopra di lei, coperte da file di peli che ondeggiavano come il raccolto nel vento. Lui continuò a lavorare, con le dita tozze appese a un’asta di sostegno i sacchetti della flebo. Sostituì i fluidi, e nei suoi movimenti c’era una delicatezza elegante che mascherava il macabro scopo del suo lavoro. Una volta finito, avvolse i tubicini intorno ai sacchetti esauriti e li infilò in un contenitore rosso riservato ai rifiuti a rischio biologico, appoggiandoli sul fondo in modo da non disturbare il paziente, o lei, con il rumore della caduta.

Anche se Gabe cercava di essere silenzioso, il mio amico cominciò a battere i denti e a dare colpi al cuscino con la testa. Dapprima con un ritmo lento, molto preciso.

Mary gli appoggiò una mano sulla spalla. «Sst, va tutto bene» sussurrò.

Eden perseverò, tendendo i muscoli del collo a un ritmo sempre più veloce.

«Sst» ripeté lei e guardò Gabe spostarsi per premere un pulsante sopra il letto e poi chinarsi su Eden per controllare i sacchetti della flebo appena agganciati e il gruppo di monitor.

«I parametri vitali sono deboli, però non c’è niente di irregolare» disse il caposala. Abbassò lo sguardo sul paziente con freddo interesse. Adesso Eden aveva gli occhi spalancati, ma le palpebre erano gonfie come i labbri di una ferita e le iridi così sbiadite e ingiallite da sembrare vecchie ossa. Batteva i denti con un ritmo cadenzato, però Gabe e Mary non capivano che cosa stesse facendo e perché.

Gabe si limitava a guardare. «Potrebbe andare avanti così per ore» disse. «È dura, per lui.»

Lei annuì.

«Posso dargli qualcosa di forte. Renderà tutto più facile.»

«Se ne sta andando?» chiese lei.

«Non saprei, però in questo momento soffre molto. Se mi autorizza, gli eviterò di soffrire troppo.»

Lei abbassò lo sguardo su Eden. Picchiando il cuscino e battendo i denti a tempo, la fronte si era coperta di sudore. Di lui restava davvero poco, e meno restava più disperatamente lei vi si aggrappava. E adesso questa sua sofferenza, o follia, o qualunque altra cosa fosse, era un nuovo modo per chiederle di lasciarlo andare.

China sopra di lui, Mary lo guardò dimenarsi e battere i denti. Poi, lentamente, un rossore gli si diffuse sulla bocca, come se in quella zona inaridita stesse ritornando un po’ di sensualità. Ma quando si rese conto di che cos’era, lei sussultò e si portò una mano alla bocca. Anche Gabe se ne era accorto e immobilizzò la testa del mio amico di lato per impedire che soffocasse.

Con un morso si era strappato un pezzo di lingua.