Mary era incinta, quando Eden atterrò nella base di San Antonio, e da allora non si è più mossa dall’ospedale. Dopo il detonatore a pressione stavano per decidere di non portarlo nemmeno via da Balad. I medici erano sicuri che non ce l’avrebbe fatta, ed erano ancora più sicuri che il viaggio gli avrebbe dato il colpo di grazia. Però erano tenuti a provarci, a rimandarlo in patria.

Sul C-17 che lo riportava negli Stati Uniti, i due infermieri, un uomo e una donna, restarono sempre al suo fianco. Sullo stesso volo c’era un ragazzo dell’82a divisione aerotrasportata, un soldato scelto. Era stato colpito nelle natiche; due centimetri più in alto e il proiettile gli avrebbe spappolato la spina dorsale, invece gli aveva spappolato l’intestino. Una bella fortuna. Un’altra fortuna per lui fu Eden. Il volo d’emergenza per San Antonio gli permise di arrivare direttamente nella sua città, anziché aspettare il giro bisettimanale che passava da Bethesda, dove si trova uno dei più grandi centri medici della Marina americana. Il ragazzo rimase per tutto il volo su una barella sistemata accanto a quella di Eden. Era sdraiato a pancia in giù, con una medicazione umiliante che spuntava voluminosa dalla ferita nel sedere. Il mio amico era talmente ustionato che il ragazzo non riusciva a capire come lo avessero legato alla barella, se supino o prono.

Il ragazzo soffriva ma sopportava grazie alla morfina. Più della ferita lo disturbavano i due infermieri che parlavano a voce troppo alta e le luci forti della cabina. Erano accese per permettere agli infermieri di vedere bene le ferite. Però impedivano a lui di dormire. Anche il mio amico contribuiva a tenerlo sveglio, perché cercare di dormire accanto a qualcuno così gravemente ustionato era come cercare di dormire sdraiati vicino a una cesta piena di serpenti velenosi.

Comunque, vedere in che condizioni era ridotto Eden lo faceva sentire un po’ meglio sulle sue, di condizioni. I dottori gli avevano ripetuto che non era niente di grave. Avevano persino detto che sarebbe stato come farsi operare per una brutta ernia. Il ragazzo non ci aveva creduto davvero, ma adesso che stava tornando a casa, e vedendo in che condizioni era il mio amico, cominciava a sentirsi meglio.

Ogni due ore circa l’infermiere si avvicinava per controllare come stava. Si accertava che non soffrisse troppo, e controllava medicazione e parametri vitali. A circa metà strada il C-17 atterrò nella base di Ramstein per fare rifornimento di carburante. L’infermiere che si occupava di lui sbarcò. Fu sostituito da un’infermiera giovane, che si unì all’altra per prendersi cura di Eden, ma andò subito a controllare anche lui.

«Hai un bell’aspetto» gli disse.

«Se lo dice lei» rispose il ragazzo con un sorriso da seduttore. La donna aveva una bella pelle scura e i capelli neri raccolti in uno chignon.

«Il tuo di dietro sta suppurando un po’» gli disse l’infermiera. «Cerca di dormire. Prima dell’atterraggio ti cambio la medicazione.» E lo coprì con una coperta.

Il ragazzo non rispose. Premette il pulsante della morfina per riceverne un’altra dose. Non voleva più guardare in faccia la giovane infermiera, perciò girò la testa e cercò di addormentarsi.

Poi l’infermiera andò a controllare Eden. Quando gli arrivò vicino vide che era scosso dai brividi. Gli provò la febbre. Era alta, pericolosamente alta. La pelle, già trasparente per le ustioni, non era più in grado di sudare. Sembrava luccicare per la febbre intrappolata sotto. Arrivò l’altra infermiera, più anziana, e il corpo di Eden fu preso dalle convulsioni; poi scattò come una molla, lottando in cerca d’aria mentre rantolava. Senza una parola l’infermiera più anziana corse verso il frigorifero vicino alla cabina di guida. Era lì che tenevano il sangue per le trasfusioni.

Le due donne cercarono insieme un punto nel corpo del mio amico dove infilare l’ago. I loro movimenti erano meccanici e silenziosi. Le mani correvano sulle carni martoriate, incapaci di identificare i punti dove normalmente avrebbero trovato una vena. L’infermiera giovane individuò uno spazio sano sul fianco, diede un colpetto con un dito e vide la pelle diventare rossa come per un’ustione solare. Poi sotto la pelle trovò una vena scura, nascosta. Vi inserì l’ago e agganciò il tubicino della flebo. Il sangue scendeva faticosamente, goccia a goccia. Incontrava una forte resistenza, e anziché scorrere come avrebbe dovuto scendeva come le ultime gocce di caffè dalla caffettiera. Il corpo si chiudeva, rifiutava quel che gli veniva offerto. Però le due donne non si arresero, massaggiando la sacca di sangue, contrastando il collasso venoso come se i globuli bianchi e rossi fossero una squadra di operai, che con la forza della disperazione riparavano le travi di una casa ormai sul punto di crollare. Piano piano il contenuto della sacca passò dentro il corpo del mio amico. E lo tenne in vita.

Le due infermiere lo vegliarono. La più anziana, in piedi vicino alla testa, massaggiava le sacche di sangue. La più giovane, seduta accanto a lui, teneva l’ago fermo nella vena. Dentro di lui la punta svasata dell’ago si teneva agganciata alla piccola vena come uno scalatore si aggrappa per disperazione a una parete con due sole dita.

Per tre ore le due donne non scambiarono una parola.

Poi il C-17 rallentò, mentre il motore si preparava alla discesa. Le due infermiere sbadigliarono per attenuare la pressione alle orecchie. Eden si lamentò; oltre a tutto quello che già provava, adesso c’era anche il dolore alle orecchie. Il ragazzo, sull’altra barella, teneva la testa voltata verso la paratia e se ne stava in silenzio, tranquillamente ignaro della lotta in corso a pochi passi da lui. L’aeroplano si inclinò per l’ultimo tratto prima dell’atterraggio, mentre le due infermiere vedevano la febbre scendere sotto i livelli di guardia, grazie alla trasfusione. Quando il C-17 toccò terra, con le ruote del carrello che bruciavano l’asfalto, l’infermiera giovane registrò la temperatura: una febbre moderata, esattamente uguale a quella che Eden aveva al decollo, sedici ore prima.

Rullarono sulla pista, e le ali del C-17 sembravano quelle di un uccello che non sa volare. La giovane infermiera e la più anziana stavano accanto alla barella del mio amico come due bobbiste, pronte a portarlo fuori dall’aeroplano per metterlo sull’elicottero che lo avrebbe condotto al Centro Ustioni. Condividevano un senso di soddisfazione che non aveva bisogno di essere comunicato a parole. Era stato un volo storico. Alla partenza qualcuno aveva detto loro che il mio amico era il ferito più grave delle due guerre. Considerati i progressi della medicina probabilmente era il ferito più grave di tutte le guerre, e loro due erano riuscite a tenerlo in vita, trasportandolo da un capo all’altro del mondo.

Sopra il ronzio del motore del C-17 si sentiva distintamente qualcosa di simile a dei tonfi. L’infermiera giovane si chinò a guardare dall’oblò. Sulla pista li attendeva un elicottero bianco con la croce rossa sulla fiancata. Tutto questo per un uomo solo, pensò lei. Lasciò vagare la mente e ricordò qualcosa che aveva letto o sentito da qualche parte, non sapeva più dove, sul fatto che la sofferenza del mondo è nella sofferenza del singolo e che un uomo racchiude il mondo intero. Benché non ricordasse il ragionamento per filo e per segno, le piaceva quello che diceva di lei e della sua professione, e mentre l’aereo si avvicinava all’elicottero continuò a rimuginare su questi pensieri e sul fatto che lei e la sua collega avevano salvato la vita a Eden.

Nella foschia dell’alba le luci di coda del C-17 e quelle rosse della pista pulsavano insieme. La rampa posteriore venne abbassata e le due donne spinsero giù la barella. La affidarono a un gruppo di paramedici, che se ne occuparono con la velocità frenetica di una squadra di meccanici ai box. Poi l’infermiera più anziana tornò di corsa sull’aereo perché aveva dimenticato la cartella clinica. Ripercorse la rampa e sulla pista si precipitò verso l’elicottero stringendo al petto i fogli che rischiavano di volare via per il grande spostamento d’aria creato dai due velivoli. Il motore gridava stridulo, l’elicottero era pronto ad alzarsi. La donna lo raggiunse. Per fortuna all’ultimo momento uno dei paramedici sollevò lo sguardo e la vide. Riuscì a prendere la cartella che lei gli tendeva. Poi la donna tornò verso il C-17; sulla rampa l’aspettava l’infermiera giovane. Si slegò i capelli, li ravviò con le dita e poi ricostruì lo chignon con rapidi movimenti del polso. Le due rimasero sulla rampa insieme, a guardare.

La giovane fissava il punto della pista da cui l’elicottero bianco era appena decollato, in volo verso le luci lontane di San Antonio. «Chi ci sarà ad accoglierlo all’ospedale?» chiese alla collega.

«Il personale del pronto soccorso del Centro Ustioni.»

«Non mi riferivo a loro» disse la giovane.

L’altra la guardò. «Non lo so, non ho chiesto.»

Si alzarono e rientrarono nel C-17.

Il ragazzo era immobile sul fianco, la faccia rivolta verso la paratia. L’infermiera giovane gli posò una mano sulla spalla. Non si mosse. Lei gli toccò rapida la fronte con il dorso della mano. Era fredda. Premette indice e medio sul collo. Niente. Avvicinò una guancia alla bocca: non respirava. Sembrava addormentato.

L’infermiera anziana scostò la coperta.

La gambe del ragazzo e i fianchi erano gonfi. Lo toccò. Era ancora tiepido, e dentro di lui qualcosa sguazzava come acqua calda dentro una boule.

I passi di un paramedico risuonarono sulla rampa. Dietro di lui si intravedeva un’ambulanza.

«Gran lavoro avete fatto, voi due» disse. Poi staccò un Motorola dalla cintura e lo puntò verso di loro. «Stanno arrivando e lui è ancora stabile. Carichiamo l’altro ferito?»

L’infermiera anziana appoggiò tutto il suo peso alla barella e si protese per prendere la cartella clinica. «Emorragia interna» disse. «Non ce ne siamo neanche accorte.»

L’uomo guardò il ragazzo. «Dev’essere stata una cosa rapida.»

E tutti e tre insieme spinsero giù la barella per portarla sull’ambulanza, senza fretta.