26. L’etica del viandante
Io sono un viandante che sale
su pei monti, diceva Zarathustra al suo cuore, io non amo le
pianure e, a quanto sembra, non mi riesce di fermarmi a lungo.
E, quali siano i destini e le esperienze che io mi trovi a vivere,
– vi sarà sempre in essi un peregrinare e un salire sui monti:
infine non si vive se non con se stessi.
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra (1883-1885), “Il viandante”, p. 185.
1. La caduta dei principi immutabili
Nata sub specie æternitatis, con robusti fondamenti ontologici a suo sostegno, l’etica ha dapprima pensato se stessa in coincidenza con la politica, in seguito, per salvarsi dal declino storico della politica, ha proposto se stessa come figura dell’interiorità, per poi accorgersi che, promuovendosi solo come etica dell’intenzione, diventava irresponsabile delle sorti del mondo che già la politica non era in grado di governare. Si emancipò allora dall’interiorità dell’intenzione per gettare uno sguardo sugli effetti delle azioni, ma nel momento stesso in cui si promosse come etica della responsabilità, le azioni, nelle loro ultime conseguenze, si erano già fatte imprevedibili.
Con il suo sopraggiungere, infatti, l’età della tecnica tagliò senza esitazione le radici che affondavano l’etica nel terreno stabile dell’eterno, e successivamente in quello meno stabile, anche se più responsabile, della previsione futura. Ciò costrinse l’etica a inseguire errabonda le “novità” del tempo, dove però l’estensione smisurata del potere aveva già eroso le possibilità del dovere su cui l’etica da sempre aveva edificato se stessa.
Ciò dipese dal fatto che i principi che sono alla base dell’etica occidentale nelle sue diverse formulazioni affondano nella filosofia greca e nella tradizione giudaico-cristiana, che si sono espresse quando il potere dell’uomo sulla natura era praticamente nullo, mentre oggi ci troviamo a operare in un contesto dove la natura non è più l’immutabile, perché è manipolabile e in ogni suo aspetto modificabile dall’intervento umano. Questa condizione non era prevista quando i principi che presidiano l’etica occidentale, nelle sue diverse formulazioni, sono stati fissati, per cui il ricorso a quei principi è difficilmente riferibile al contesto attuale. Nella cultura occidentale sono state elaborate fondamentalmente tre etiche:
1. L’etica cristiana che si limita a considerare la correttezza della coscienza e la sua buona intenzione, per cui se le mie azioni hanno conseguenze disastrose, se non avevo coscienza o intenzione, non ho fatto nulla che mi sia moralmente imputabile. Esattamente come capitò un giorno a coloro che hanno messo in croce Gesù Cristo e che da lui sono stati perdonati, “perché non sanno quello che fanno”.1
È evidente che, anche se su questa etica è stato costruito l’ordine giuridico europeo che distingue, ad esempio, tra un delitto intenzionale, non intenzionale, preterintenzionale, in un mondo dove agiscono le tecnoscienze, una morale di questo genere, che guarda solo alle intenzioni e non agli effetti delle azioni, è improponibile, perché gli effetti potrebbero essere catastrofici e in molti casi addirittura irreversibili.
2. L’etica laica, dopo aver messo sullo sfondo Dio, formulò con Kant quel principio secondo cui: “L’uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo”. Scrive in proposito Kant:
Tutti gli esseri razionali si trovano sotto la legge secondo cui ciascuno di loro deve trattare se stesso, e tutti gli altri, mai come un semplice mezzo (niemals bloss als Mittel), ma sempre anche al tempo stesso come un fine in sé (zugleich als Zweck an sich selbst). Di qui nasce un collegamento sistematico degli esseri razionali mediante leggi oggettive comuni, cioè un regno che, avendo tali leggi in vista appunto le relazioni di esseri razionali tra loro come mezzi e fini, può ben chiamarsi regno dei fini (sia pure come un ideale).2
È questo un principio che ancora attende di essere attuato, se è vero che oggi le merci e i beni hanno una possibilità di circolazione ben superiore a quella degli uomini, e gli uomini sono accolti nei vari paesi solo se produttori di servizi, di beni e di merci. Ma anche se così non fosse e ogni uomo davvero fosse trattato come un fine, nelle società complesse e tecnologicamente avanzate questo principio già rivela tutta la sua insufficienza.
Davvero nell’età della tecnica, a eccezione dell’uomo da trattare sempre come un fine, tutti gli enti di natura sono da considerare un semplice mezzo che noi possiamo utilizzare a piacimento? E qui il pensiero va alle piante, agli animali, alle foreste, all’aria, all’acqua, alla qualità dell’atmosfera. Non sono questi, nell’età della tecnica, altrettanti fini da salvaguardare, e non semplici mezzi da usare e da usurare? Sia l’etica cristiana sia l’etica laica sembra che si siano limitate a regolare i rapporti tra gli uomini, senza mettere a disposizione alcuno strumento, né teorico, né pratico per farci assumere una qualche responsabilità nei confronti degli enti di natura su cui oggi intervengono, ad esempio, la fisica nucleare, la genetica e le biotecnologie.
3. L’etica della responsabilità, che è stata formulata all’inizio del secolo scorso da Max Weber e recentemente riproposta da Hans Jonas. Secondo Weber chi agisce non può ritenersi responsabile solo delle sue intenzioni, ma anche delle conseguenze delle sue azioni. Se non che, subito dopo, Weber aggiunge opportunamente: “Fin dove le conseguenze sono prevedibili”. Scrive in proposito Weber:
Ogni agire orientato in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente diverse e inconciliabilmente opposte, può essere cioè orientato secondo l’“etica dell’intenzione (Gesinnungsethik)” oppure secondo l’“etica della responsabilità (Verantwortungsethik)”. Non che l’etica dell’intenzione coincida con la mancanza di responsabilità, e l’etica della responsabilità coincida con la mancanza di buone intenzioni. Non si vuol certo dir questo. Ma c’è una differenza incolmabile tra l’agire secondo la massima dell’etica dell’intenzione, la quale – in termini religiosi – suona: “Il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio” e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni.3
Quest’ultima considerazione, peraltro corretta, relativa alla prevedibilità ci riporta a capo della questione, perché è proprio della fisica nucleare, della genetica e delle biotecnologie avviare ricerche e promuovere azioni i cui esiti finali non sono prevedibili. E di fronte all’imprevedibilità non c’è responsabilità che tenga.
Lo scenario dell’imprevedibile, dischiuso dalla tecnoscienza, non è infatti imputabile, come nell’antichità, a un difetto di conoscenza dei fenomeni naturali, ma a un eccesso del nostro potere di fare enormemente maggiore del nostro potere di prevedere e quindi di valutare e giudicare. L’imprevedibilità delle conseguenze che possono scaturire dai processi nucleari o biotecnologici rende quindi non solo l’etica dell’intenzione (il cristianesimo e Kant), ma anche l’etica della responsabilità (Weber e Jonas) assolutamente inefficaci, perché la loro capacità di ordinamento è enormemente inferiore all’ordine di grandezza di ciò che si vorrebbe ordinare.
A questo punto all’uomo non resta che il destino del viandante, il quale, a differenza del viaggiatore che percorre la via per arrivare a una meta, aderisce di volta in volta ai paesaggi che incontra andando per via, e che per lui non sono luoghi di transito in attesa di quel luogo, Itaca, che fa di ogni terra una semplice tappa sulla via del ritorno.4 Senza Itaca, l’Odissea del viandante è una continua ripresa del viaggio, come voleva la profezia di Tiresia,5 per cui è il letto scavato nell’ulivo, intorno a cui era stata edificata la reggia, a divenire una tappa del successivo andare. Un andare che Dante riprende, lui stesso viandante, spingendo il suo Ulisse verso “il mondo dietro il sole”,6 per cui né alba né tramonto possono più indicare non solo la meta, ma neppure la direzione.
Senza meta e senza punti di partenza e di arrivo che non siano punti occasionali, l’etica del viandante, che non conosce il suo avvenire, può essere il punto di riferimento di un’umanità a cui la tecnica ha consegnato un futuro imprevedibile, e che quindi non può riferirsi alle etiche antiche, la cui normatività guardava al futuro come a una ripresa del passato, perché il tempo era inscritto nella stabilità dell’ordine naturale.
2. Le vicissitudini dell’etica nella storia dell’Occidente
Quando parliamo di “stabilità dell’ordine naturale” non intendiamo dire che le etiche antiche non erano consapevoli dell’incertezza delle vicende umane. Esse non ignoravano l’incidenza del caso e della fortuna che non era possibile prevedere, ma ritenevano di poter far loro fronte con la virtù (areté), ossia con quella equilibrata disposizione dell’anima che le norme etiche sostenevano, così come le leggi cicliche mantenevano l’ordinamento cosmico.
In questo scenario, decisivo non era il riferimento al tempo, che non progrediva perché ripeteva ciclicamente se stesso, ma all’eterno che sovrasta la temporalità e ne evidenzia le costanti. Le idee che Platone descrive nell’iperuranio non divengono, ma sono. Collocate ai confini dell’universo per la sua delimitazione e all’interno dell’universo per la sua articolazione, esse descrivevano l’“essere che è sempre (aeí ón)”, articolato in quella gerarchia dove una normatività stabile consentiva di orientarsi tra il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, il pregevole e lo spregevole. L’ordine delle idee tracciava un itinerario ascensionale che dalla terra portava al cielo, e il cammino aveva una direzione, un senso, un fine. Nella realizzazione del fine c’era promessa di salvezza e verità.
Un giorno la filosofia greca incontrò l’annuncio giudaico-cristiano che parlava di una terra promessa e di una patria ultima. L’anima, che Platone aveva ideato,7 si trovò orientata a una meta e prese a vivere l’inquietudine dell’attesa e del tempo che la separava dalla meta. Un tempo non più descritto come ciclica ripetizione dell’evento cosmico, ma come irradiazione di un senso che trasfigurò l’accadere degli eventi in “storia”, dove alla fine si sarebbe compiuto ciò che all’inizio era stato annunciato.
Ma anche questa cosmologia e questa temporalità non tardarono a vacillare, e con esse tutte quelle idee che ne indicavano la scansione. Annunciando che era la terra a ruotare intorno al sole, a sua volta lanciato in una corsa senza meta, la scienza consegnò una nuova descrizione del mondo, in cui si riconosceva il carattere relativo di ogni movimento e di ogni posizione nello spazio, che a sua volta andava sempre più a confondersi con il tempo, fino a togliere al linguaggio della filosofia e della religione tutte le idee normative che dicevano orientamento e stabilità. La conseguenza fu il decentramento dell’universo. La nuova descrizione impiegava ancora le antiche parole, ma queste, nell’indicare le cose, non designavano più la loro essenza, ma solo la loro relazione.
Senza più né “alto” né “basso”, né “dentro” né “fuori”, né “lontano” né “vicino”, l’universo, come ci ricorda Nietzsche,8 perse il suo ordine, la sua finalità e la sua gerarchia, per offrirsi all’uomo come pura macchina indagabile con gli strumenti della ragione fatta calcolo, che dischiudeva lo scenario artificiale e potente della tecnica, in cui l’uomo scoprì la propria essenza rimasta a lungo nascosta e resa inconoscibile dalla descrizione mitica del mondo.9
La terra, da terra-madre, divenne materia indifferente; il cielo cedette la mitologia delle stelle alla polvere cosmica, e l’anima dell’uomo, psyché, che Platone aveva sottratto alla temporalità e orientato verso l’eternità, prese a inseguire gli eventi del tempo e le sue sempre nuove configurazioni, che non erano deducibili ontologicamente, né descrivibili a partire da configurazioni precedenti.
Ma nonostante l’ingresso del tempo, e con il tempo della storia, l’etica, ancora con Kant, pensa se stessa sul modello dell’idea platonica del Bene, il quale, nonostante sia collocato davanti al soggetto in una serie temporale che si protrae nel futuro all’infinito, resta pur sempre un’“idea regolativa” da pensarsi nella costellazione dell’eterno. E questo perché il tempo, per Kant, appartenendo al mondo fenomenico, non può porsi come condizione universale in grado di garantire quella coincidenza di virtù e felicità in cui il Sommo Bene consiste. A questo proposito Kant è chiarissimo:
Nella legge morale non si trova il benché minimo fondamento di una connessione necessaria (notwendigen Zusammenhang) tra la moralità e la felicità a essa proporzionata. [...] Eppure, nel compito pratico della ragion pura, ossia nel perseguimento necessario del Sommo Bene, una tale connessione è postulata come necessaria: noi abbiamo il dovere di cercare di promuovere il Sommo Bene (che, dunque, deve pur essere possibile).10
Come si vede, la temporalizzazione dell’etica in Kant è ancora esitante, e perciò, alla luce dell’idea regolativa e non costitutiva in cui il Sommo Bene si esprime, l’uomo può prendere in considerazione il proprio comportamento solo come se contribuisse alla moralizzazione del mondo. Il rapporto, infatti, non ha il vincolo della connessione causale, e quindi la responsabilità per come vanno le cose nel mondo è fittizia.
Solo con Hegel il tempo cessa di essere una semplice espressione del mondo fenomenico per diventare il vero mediatore della realizzazione dell’idea. Qui la storia fa il suo ingresso nell’etica, ma non responsabilizza ancora i soggetti, perché l’“astuzia della ragione” raggiunge i suoi fini indipendentemente dalle intenzioni degli individui. Scrive in proposito Hegel:
La ragione è tanto astuta quanto potente. L’astuzia consiste in generale nell’attività mediatrice che, facendo in modo che gli oggetti operino l’uno sull’altro in conformità alla loro natura e facendoli logorare dal lavoro dell’uno sull’altro, senza immischiarsi direttamente in questo processo, tuttavia non fa che portare a compimento il proprio fine.11
Con Marx la distanza fra le intenzioni dei soggetti storici e i fini che l’astuzia della ragione si propone si annulla. La storia, che prima “era fatta camminare sulla testa”, ora viene “rimessa sui suoi piedi”, e l’astuzia della ragione, coincidendo con la volontà degli attori, diventa superflua. Ma per questo occorre superare l’illusione hegeliana, che Marx così descrive:
Hegel cadde nell’illusione di concepire il reale come il risultato del pensiero automoventesi, del pensiero che abbraccia e approfondisce sé in se stesso, mentre il metodo di salire dall’astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria del concreto, lo riproduce come un che di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso. La più semplice categoria economica, come per esempio il valore di scambio, presuppone la popolazione, una popolazione che produce entro rapporti determinati, e anche un certo genere di famiglia, o di comunità o di Stato ecc. Esso non può esistere altro che come relazione unilaterale, astratta, di un insieme vivente e concreto già dato.12
Con Marx, la responsabilità per il futuro storico diventa per la prima volta esplicita, ma si tratta pur sempre di una responsabilità inscritta in un fine che si presume di conoscere come il “bene” dell’umanità, quindi una riproposizione dell’“idea regolativa” kantiana sottratta alla sua infinità e calata nella finitezza storica, nonché connessa alla causalità mondana. Nessun sospetto che ad attendere la storia fosse non un compimento, ma una catastrofe, perché all’epoca di Marx la relativa modestia dei mezzi tecnici non consentiva di includere anche questa seconda ipotesi, e perciò la storia poteva continuare a pensare se stessa come percorsa da una “ragione” e dalla realizzazione di un “senso”, a partire dal quale era deducibile un’etica.
3. Lo spaesamento dell’etica nell’età della tecnica
Oggi che la tecnica non ci consente di pensare la storia inscritta in un fine,13 l’unica etica possibile è quella che si fa carico della pura processualità, che, come il percorso del viandante, non ha in vista una meta. L’imperativo etico non può essere dedotto da una normatività ideale, come è sempre stato dai tempi di Platone alle soglie dell’età della tecnica, ma da quella incessante e sempre rinnovantesi fattualità che sono gli effetti del fare tecnico. Non più il “dovere” che prescrive il “fare”, ma il “dovere” che deve inseguire e fare i conti con gli effetti già prodotti dal “fare”. Ancora una volta è l’etica a dover rincorrere la tecnica, e a doversi confrontare con la propria impotenza prescrittiva.
Il fatto che la tecnica non sia ancora totalitaria, il fatto che quattro quinti dell’umanità viva di prodotti tecnici, ma non ancora di mentalità tecnica, non deve confortarci, perché il passo decisivo verso l’“assoluto tecnico”, verso la “macchina mondiale” l’abbiamo già fatto, anche se la nostra condizione psicologica non ha ancora interiorizzato questo fatto, quindi non ne è all’altezza.
Quel che è certo è che l’universo tecnico, cancellando ogni meta e quindi ogni visualizzazione del mondo a partire da un senso ultimo, non sta al gioco della stabilità e delle definitività, e perciò libera il mondo come assoluta e continua novità, perché non c’è evento già inscritto in una trama di sensatezza che ne pregiudichi l’immotivato accadere.
Dal disincanto del mondo e dall’instabilità di tutti i principi che prima lo definivano, nasce un paesaggio insolito, simile allo spaesamento, in cui si annuncia una libertà diversa, non più quella del sovrano che domina il suo regno, ma quella del viandante che al limite non domina neppure la sua via.
Consegnato al nomadismo, l’uomo spinge avanti i suoi passi, ma non più con l’intenzione di trovare qualcosa, la casa, la patria, l’amore, la verità, la salvezza. Anche questi scenari si sono fatti instabili, non più mete dell’intenzione o dell’azione umana, ma doni del paesaggio che ha reso l’uomo viandante senza una meta, perché è il paesaggio stesso la meta, basta percepirlo, sentirlo, accoglierlo nell’assenza spaesante del suo senza-confine.
Facendoci uscire dall’abituale e quindi dalle nostre abitudini, il nomadismo ci espone all’insolito dove è possibile scoprire, ma solo per una notte o per un giorno, come il cielo si stende su quella terra, come la notte dispiega nel cielo costellazioni ignote, come la religione aduna le speranze, come la tradizione fa popolo, la solitudine fa deserto, l’iscrizione fa storia, il fiume fa ansa, la terra fa solco, la macchina fa tecnica, in quella rapida sequenza con cui si succedono le esperienze del mondo, che sfuggono a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarle e di disporle in successione ordinata, perché, al di là di ogni progetto orientato, il nomade sa che la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile eccede sul reale e che ogni progetto che tenta la comprensione e l’abbraccio totale è follia.
E allora la musica cede alla cadenza erotica, la visione alla virtualità dell’illusione, il mistero alla sfida dell’interpretazione, il corpo alle disavventure dell’anima, la salvezza alla desolazione della terra sciagurata, il linguaggio alle distorsioni della verità, la sessualità all’enigma, la critica alla crisi, la passione alla passività, l’identità alla sua dissoluzione, il silenzio al rumore delle parole.
Camminando senza una meta all’orizzonte per non perdere le figure del paesaggio, il nomadismo incontra le metafore teologiche sottese alla scienza, la casualità sottesa alla ragione, il nulla sotteso alla cifra di Dio, l’antropologia che nutre la religione, il pensiero che alimenta il mito, l’artificio della psicologia, la non innocenza della logica, il patire che sfugge alla psicopatologia, il vuoto della legge, il sonno della politica che ancora non ha scoperto che tutti gli uomini sono uomini di frontiera.
E quando lo sguardo si ritira dal paesaggio e la notte dilata l’anima, il nomadismo del viandante scopre l’inganno dell’innocenza, le mortificazioni dello spirito, la tortuosità del sentimento, l’altra faccia della verità che la malinconia rivela, le tappe inconcluse del nostro eterno disordine, in quel gioco di maschere utili a nascondere quel senza-volto che chiamiamo Io.
Ma che ne è dell’intervallo tra l’inizio e la fine? Che ne è del viaggio per chi vuol arrivare? Per chi vuol arrivare, per chi mira alle cose ultime, ma anche per chi mira alle mete prossime, del viaggio ne è nulla. Le terre che egli attraversa non esistono. Conta solo la meta. Egli viaggia per arrivare, non per viaggiare. Così il viaggio muore durante il viaggio, muore in ogni tappa che lo avvicina alla meta. E con il viaggio muore l’Io stesso fissato sulla meta e cieco all’esperienza che la via dispiega al viandante che sa abitare il paesaggio e, insieme, al paesaggio sa dire addio.
L’escatologia religiosa e la progettualità laica inaugurano un viaggiatore che tratta i luoghi che incontra come luoghi di transito, tappe che lo avvicinano alla meta. Per lui i luoghi diventano “interluoghi” in attesa di quel Luogo che è la meta stessa, la patria ritrovata, la vita realizzata, la stabilità raggiunta.
Inutilmente la via ha istituito viandanti, le loro orecchie erano sorde alle voci dei luoghi, le sirene del ritorno e della meta hanno cancellato ogni stupore, ogni meraviglia, ogni dolore. L’attesa del Regno ha ridotto la via a “interregno”, terra di nessuno prima delle cose ultime, anche se in quella terra di nessuno trascorre poi la nostra vita che non è una corsa verso la meta, ma uno spazio concesso all’umano come sua terra che non è patria, ma semplice via che si muove tra le macerie dei templi crollati e nel silenzio degli oracoli e delle profezie.
4. Il nomadismo dell’etica
Affrancarsi dalla meta significa abbandonarsi alla corrente della vita, non più spettatori, ma naviganti e, in qualche caso, come l’Ulisse dantesco, naufraghi. Nietzsche, che del nomadismo è forse il miglior interprete, scrive:
Se in me è quella voglia di cercare che spinge le vele verso terre non ancora scoperte, se nel mio piacere è un piacere di navigante: se mai gridai giubilante: “la costa scomparve – ecco anche la mia ultima catena è caduta – il senza-fine mugghia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo, orsù! coraggio! vecchio cuore!”.14
L’appello al cuore dice che siamo oltre i territori giurisdizionali in cui l’uomo ha fissato finora la propria dimora, ma questa ulteriorità dice cose più profonde di quanto non lasci pensare. Per l’uomo, infatti, vivere ha sempre significato aderire a un senso, anzi conferire senso. L’età della tecnica sembra non concedere un senso, un orizzonte, una direzione, una via.
L’andare che salva se stesso, cancellando la meta, inaugura allora una visione del mondo che è radicalmente diversa da quella dischiusa dalla prospettiva della meta che cancella l’andare. Nel primo caso si aderisce al mondo come a un’offerta di accadimenti, dove si può prendere provvisoria dimora finché l’accadimento lo concede, nel secondo caso si aderisce al senso anticipato che cancella tutti gli accadimenti. I quali, non percepiti, passano accanto agli uomini senza lasciar traccia, puro spreco della ricchezza del mondo.
Non attraversato dall’evento nel suo accadere immotivato, l’uomo della stabilità è difeso e chiuso nelle spesse mura della Società della torre di cui parla Goethe,15 mentre il viandante, che accade insieme all’evento, recalcitra a ogni schema di progressione e significazione, per dire sì al mondo, e non a una rappresentazione tranquillizzante del mondo. Rinunciando a dominare il tempo, inscrivendolo in una rappresentazione di senso, il viandante che ha rinunciato alla meta sa guardare in faccia all’indecifrabilità del destino, rifiutando quei cascami della speranza irradiati da un destino risolto in benevola provvidenza.
Non si legga quindi l’etica del viandante come anarchica erranza. Il nomadismo è la delusione dei forti che rifiuta il gioco fittizio delle illusioni evocate come sfondo protettivo. È la capacità di disertare le prospettive escatologiche per abitare il mondo nella casualità della sua innocenza, non pregiudicata da alcuna anticipazione di senso, dove è l’accadimento stesso, l’accadimento non inscritto nelle prospettive del senso finale, della meta o del progetto, a porgere il suo senso provvisorio e perituro.
Se siamo disposti a rinunciare alle nostre radicate convinzioni, quando il radicamento non ha altra profondità che non sia quella della vecchia abitudine, allora l’etica del viandante ci offre un modello di cultura che educa perché non immobilizza, perché desitua, perché non offre mai un terreno stabile e sicuro su cui edificare le nostre costruzioni, perché l’apertura che chiede sfiora l’abisso, dove non c’è nulla di rassicurante, ma dove è anche scongiurata la monotonia della ripetizione, dell’andare e riandare sulla stessa strada, senza che una meta sia davvero all’orizzonte.
Gli anni che stiamo vivendo hanno visto lo sfaldarsi di un dominio, e insieme hanno accennato a quel processo migratorio che confonderà i confini dei territori su cui si orientava la nostra geografia. Usi e costumi si contaminano e, se “etica” vuol dire “costume”, è possibile ipotizzare la fine delle nostre etiche, fondate sulle nozioni di proprietà, territorio e confine, a favore di un’etica che, dissolvendo recinti e certezze, va configurandosi come etica del viandante che non si appella al diritto, ma all’esperienza.
Infatti, a differenza dell’uomo del territorio che ha la sua certezza nella proprietà, nel confine e nella legge, il viandante non può vivere senza elaborare la diversità dell’esperienza, cercando il centro non nel reticolato dei confini, ma in quei due poli che Kant indicava nel “cielo stellato” e nella “legge morale”,16 che per ogni viandante hanno sempre costituito gli estremi dell’arco in cui si esprime la sua vita in tensione. Senza meta e senza punti di partenza e di arrivo, che non siano punti occasionali, il viandante, con la sua etica, può essere il punto di riferimento dell’umanità a venire, se appena la storia accelera i processi di recente avviati, che sono nel segno della deterritorializzazione.
Fine dell’uomo giuridico a cui la legge fornisce gli argini della sua intrinseca debolezza, e nascita dell’uomo sempre meno soggetto alle leggi del paese e sempre più costretto a fare appello ai valori che trascendono la garanzia del legalismo. Il prossimo, sempre meno specchio di me e sempre più “altro”, obbligherà tutti a fare i conti con la differenza, come un giorno, ormai lontano nel tempo, siamo stati costretti a farli con il territorio e la proprietà.
La diversità sarà il terreno su cui far crescere le decisioni etiche, mentre le leggi del territorio si attorciglieranno come i rami secchi di un albero inaridito. Fine del legalismo e quindi dell’uomo come l’abbiamo conosciuto sotto il rivestimento della proprietà, del confine e della legge, e nascita dell’uomo più difficile da collocare, perché viandante inarrestabile, in uno spazio che non è garantito neppure dall’aristotelico “cielo delle stelle fisse”, perché anche questo cielo è tramontato per noi.
E con il cielo la terra, perché è stata scoperta come terra di protezione e luogo di riparo. Tagliati gli ormeggi, l’orizzonte si dilata, il suo dilatarsi lo abolisce come orizzonte, come punto di riferimento, come incontro della terra con il suo cielo. E questo perché, scrive Nietzsche:
Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave. Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’oceano: è vero non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nelle pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra – e non esiste più “terra” alcuna.17
5. La decisione etica nella drammaticità della contingenza
La tecnica ha ampliato molto la libertà di fare, anzi, non proponendosi altro scopo che non sia il proprio autopotenziamento, ha risolto l’agire dell’uomo, che è sempre orientato a uno scopo, in puro e semplice fare azioni descritte e prescritte dall’apparato tecnico di cui si ignorano gli scopi finali, o perché non percepibili, o perché, là dove possono essere percepiti, non comportano alcuna responsabilità diretta di quanti operano nei singoli settori dell’apparato.
Infatti, mentre nell’età pre-tecnologica il fare era arte18 e l’artigiano si rispecchiava nell’opera che riproduceva la sua “qualità”, nell’età della tecnica il fare è produzione, secondo quei criteri di razionalità il cui calcolo può effettuarsi solo sostituendo le proprietà qualitative, che sfuggono al calcolo, con quelle quantitative che si evidenziano frazionando il fare in quelle operazioni parziali che il sistema tecnico collega fra loro, fino a unificarle nel prodotto.
Il riflesso di questo frazionamento oggettivo del fare è la specializzazione dell’uomo, il quale non si trova più nella condizione dell’artigiano che rispecchia se stesso nell’opera, ma in quella del tecnico che si specchia in uno dei sistemi parziali, dalla cui connessione scaturisce il prodotto nel quale è custodito il senso del fare. Siccome responsabile della connessione dei sistemi parziali è il calcolo preventivo dell’apparato tecnico, l’uomo, che come tecnico opera in un sistema parziale, è calcolato dall’apparato, e dal calcolo reificato in un sistema estraneo che il suo fare non può modificare, ma solo riflettere.
L’azione, che aveva generato l’uomo nel suo rapporto con il mondo,19 diventa esecuzione di un’attività che non scaturisce più dall’uomo, ma dalla razionalità dell’apparato, rispetto a cui l’azione dell’uomo è solo un parziale riflesso delle leggi che lo presiedono. Ciò significa che l’uomo non è più in rapporto con il mondo, ma esclusivamente con le leggi che governano il sistema parziale in cui il singolo si trova a operare. Il suo agire non lo esprime, ma esprime la razionalità dell’apparato che istituisce non solo la sua azione, ma anche la relazione con i suoi simili, mediata dalle leggi che connettono i sistemi parziali in cui i singoli individui, come atomi isolati, si trovano inseriti.
Subordinato non più alla natura, ma al potere che ha conseguito per dominarla, oggi l’uomo non può pensare di contenere la tecnica con l’etica che la tradizione gli ha consegnato, perché questa etica, in tutte le forme in cui si è espressa, se è capace di regolare l’agire fra gli uomini, non è in grado, per questo suo limite antropocentrico, di esprimere le norme regolative di un sapere e di un potere che si estendono oltre lo spazio delimitato dalle dimensioni del globo, e oltre il tempo circoscrivibile dalla previsione umana.
Il futuro, infatti, che la tecnica dispiega, non solo rende inutile qualsiasi riferimento al passato per desumere qualche criterio di decifrazione, ma addirittura crea uno iato tra le possibilità che la tecnica ha reso disponibili e le capacità previsionali che, per essere all’altezza di quelle possibilità, dovrebbero oltrepassare di molto ciò che finora l’uomo ha conosciuto come limite della sua percezione e intuizione. Il fare ha di gran lunga sopravanzato l’agire, e questa è la ragione per cui l’etica, che presiede l’agire, non è in grado di regolare la tecnica da cui procede il fare.
Nelle epoche passate le possibilità ridotte del fare non richiedevano una particolare competenza per decidere come agire, e perciò l’etica poteva mantenere, come prevedeva Platone, la sua posizione di regola e di guida sulla tecnica.20 Ma oggi l’ambito circoscritto dell’intenzione e dell’azione umana che l’etica governa è pesantemente attraversato da effetti che l’impersonalità del fare tecnico produce al di fuori di ogni possibile controllo etico, perché questi effetti non nascono come decisioni dell’agire umano, ma come risultati di procedure e metodiche avviate.
L’azione, l’attore e l’effetto non hanno più nell’uomo il loro referente, ma nel sapere accumulato che, al di là delle possibilità di comprensione e di controllo, sottrae all’agire del singolo e della collettività il fattore della responsabilità, a cui tutte le etiche che storicamente si sono affermate hanno fatto riferimento.
Se si può parlare di “responsabilità” solo in presenza di una consapevolezza della propria azione e delle sue conseguenze, là dove il sapere individuale e collettivo è inadeguato all’ordine di grandezza della competenza tecnica che conferisce potere al nostro agire, difficilmente le parole pronunciate da un’etica della responsabilità possono non dico essere efficaci, ma assumere un qualche significato nell’ambito del fare tecnico. Non basta infatti dire, come fa Jonas, che:
Il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che mediante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per l’uomo.21
Il problema, infatti, non si risolve denunciando il rischio connesso allo sviluppo incontrollato della tecnica, ma mostrando come l’etica possa impedire alla tecnica, che può, di fare ciò che può. Se l’etica non ha questa possibilità, la sua esigenza di porre un limite alla tecnica resta una pura aspirazione, che non diventa realtà neppure seguendo l’ipotesi, che fra l’altro è autocontraddittoria, di Jonas.
Infatti, dopo aver opportunamente denunciato il limite antropocentrico dell’etica tradizionale che, riferendosi ad azioni umane di portata circoscritta, perché limitata ai rapporti diretti dell’uomo con l’uomo, si rivela inadeguata per l’epoca caratterizzata da “Prometeo scatenato”, Jonas propone come rimedio “la responsabilità originaria delle cure parentali dei padri verso i figli”, giocata sul registro della generazione presente verso la generazione futura. Quindi di nuovo un modello antropocentrico per correggere il limite antropocentrico dell’etica tradizionale.22
A ciò si aggiunga che è proprio della tecnica dischiudere lo scenario dell’imprevedibile, imputabile non come quello antico a un difetto di conoscenza, ma a un eccesso del nostro potere di fare enormemente maggiore del nostro potere di prevedere, per cui l’ideale platonico di un’etica che, congiuntamente alla politica, regola le tecniche, è definitivamente tramontato, così come è tramontata l’ideologia della neutralità della scienza e della tecnica sotto il profilo etico.
Là infatti dove il fare tecnologico, crescendo su se stesso per autoproduzione, genera conseguenze che sono indipendenti da qualsiasi intenzione diretta, e imprevedibili quanto ai loro esiti ultimi, sia l’etica dell’intenzione, sia l’etica della responsabilità assaporano una nuova impotenza, che non è più quella tradizionale misurata dalla distanza tra l’ideale e il reale, ma quella ben più radicale che si incontra quando il massimo di capacità si accompagna al minimo di conoscenza intorno agli scopi.
In questo “minimo di conoscenza” l’uomo dell’età della tecnica incontra il suo limite, che non è più, come per gli antichi, nell’incapacità di padroneggiare la natura, ma nell’eccesso di questa capacità, da cui non è chiaro che cosa possa conseguire. Rispetto gli antichi, è cambiata la configurazione del limite, ma il limite non è stato abolito. Semplicemente al limite dell’impotenza si è sostituito il limite sotteso al delirio di onnipotenza, che nasconde tra le sue pieghe persino lo spettro di un’ingloriosa soluzione finale dell’esperimento umano. Nella drammaticità di questo quadro, scrive Natoli:
La natura si inscrive sempre più nelle decisioni dell’uomo e non la decisione umana nei fatti di natura. Ma questo non significa affatto – come si potrebbe credere – che l’uomo è diventato onnipotente. Se così fosse non correrebbe più alcun rischio. Al contrario l’uomo è chiamato a giocare la propria finitezza a più livelli, diversificati e altrettanto improbabili. Per fronteggiare situazioni siffatte ci vuol altro che il pensiero debole. A meno che “debole” non voglia dire semplicemente “mobile”, “aperto”.23
Diventa allora quanto mai indispensabile una ripresa della virtù antica che invitava l’uomo a non oltrepassare il limite. Certo ai Greci non possiamo tornare, ma l’invito che essi rivolgevano all’uomo di dare una misura a se stesso oggi diventa non solo attuale, ma addirittura urgente. Si tratta di una misura che non va cercata nei principi formulati quando la natura era immodificabile, ma in quell’indicazione aristotelica che, in assenza di principi generali, consente di prendere decisioni esaminando caso per caso. Aristotele chiama questa capacità phrónesis, che noi siamo soliti tradurre con “saggezza”, “prudenza”, e la eleva a principio regolativo della prassi dove:
Non si ha a che fare con ciò che accade sempre (aeí), come nella matematica o nella geometria, ma con ciò che accade per lo più (hos epí tò polú), con ciò che fa la sua comparsa di volta in volta, in modo imprevisto e in tutti quei casi in cui non è chiaro come andranno a finire le cose, e quelli in cui la conclusione è del tutto indeterminata.24
Una sorta di “etica del viandante” che, non disponendo di mappe, affronta le difficoltà del percorso a seconda di come di volta in volta esse si presentano e con i mezzi al momento a sua disposizione. Questo è il nostro limite, e in questo limite dobbiamo decidere.
Per quanto drammatica possa sembrare la scelta, non dimentichiamo che la decisione etica è una decisione che fonda, senza possedere altro fondamento al di fuori di sé. In questo senso è evento assoluto e quindi realtà tragica. Non è l’assoluto pacificato dell’idea, ma l’assoluto della scelta sugli eventi che si presentano. In caso diverso sarebbe inutile la discussione tra gli uomini, sarebbe sufficiente la deduzione dai principi.
L’etica del viandante avvia a questi pensieri. Sono pensieri ancora tutti da pensare. Ma il paesaggio da essi dispiegato è già la nostra instabile, provvisoria e inconsaputa dimora.
1 Luca, Vangelo, 23, 34.
2 I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785); tr. it. Fondazione della metafisica dei costumi, Rusconi, Milano 1994, Sezione II, p. 155.
3 M. Weber, Politik als Beruf (1919); tr. it. La politica come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1971, p. 109.
4 Sulla differenza tra il viaggiatore “per il quale i luoghi sono meri interluoghi, luoghi di transito, tappe, stazioni” e il viandante “per il quale incominciano a tacere le sirene del ritorno e della meta”, si veda il saggio di P. Collini, Wanderung. Il viaggio dei romantici, Feltrinelli, Milano 1996.
5 Omero, Odissea, Libro XI, vv. 119-134: “E quando i pretendenti nel tuo palazzo avrai spento, / o con l’inganno, o apertamente col bronzo affilato, / allora parti, prendendo il maneggevole remo, / finché a genti tu arrivi che non conoscono il mare, / non mangiano cibi conditi con sale, / non sanno le navi dalle guance di minio, / né i maneggevoli remi che son ali alle navi. / E il segno ti darò, chiarissimo: non può sfuggirti. [...] / Morte dal mare / ti verrà, molto dolce, a ucciderti vinto / da una serena vecchiezza. Intorno a te popoli / beati saranno. Questo con verità ti predìco”.
6 Dante Alighieri, Inferno, XXVI, 100-120: “Misi me per l’alto mare aperto / sol con un legno, e con quella compagna / picciola dalla qual non fui diserto. [...] / ‘O frati’, dissi, ‘che per cento milia / perigli siete giunti all’occidente, / a questa tanto picciola vigilia / de’ nostri sensi ch’è del rimanente, / non vogliate negar l’esperienza, / dietro al sol, del mondo senza gente. / Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza’”.
7 A questo proposito si veda U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima (1987), Feltrinelli, Milano 2001, Parte I: “Storia dell’anima”.
8 F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft (1882); tr. it. La gaia scienza, in Opere, Adelphi, Milano 1965, vol. V, 2, § 125, pp. 129-130.
9 U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, capitolo 8: “La tecnica come condizione dell’esistenza umana”.
10I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft (1788); tr. it. Critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1955, Parte I, Libro II, capitolo II, § 5, p. 154.
11 G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1817); tr. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Utet, Torino 1981, vol. I, § 209, p. 434.
12 K. Marx, Zur Kritik der politischen Oekonomie (1859); tr. it. Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 189.
13A questo proposito si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 54: “Il totalitarismo della tecnica e l’implosione del senso”.
14 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1883-1885); tr. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, cit., 1968, vol. VI, 1, Parte III: “I sette sigilli (ovvero: il canto ‘sì e amen’)”, p. 281.
15 J.W. Goethe, Wilhelm Meister Lehrjahre (1807-1829); tr. it. Il noviziato di Guglielmo Meister, in Opere, Sansoni, Firenze 1970, vol. III.
16 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 199: “Due cose riempiono l’anima di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori dal mio orizzonte. Io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza”.
17 F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 129.
18 Sul rapporto arte e tecnica illuminanti sono le pagine di E. Severino in Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, e in particolare il capitolo VIII, § V: “Ars e téchne” dove, alle pagine 283-284, leggiamo: “Nella storia dell’Occidente la parola fondamentale che esprime il senso dell’ars è téchne, da cui deriva la parola ‘tecnica’. Ma mentre in ars viene esplicitamente nominata la connessione calcolata dei mezzi al fine, téchne nomina invece i vari modi e settori in cui questa connessione si realizza, a partire da quello originario, mediante il quale il mortale copre il suo corpo e gli dà un rifugio”.
19 A questo proposito si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., Parte III: “Psicologia della tecnica: teoria dell’azione”.
20 Platone, Repubblica, Libro VI, 505 a-b: “L’idea del Bene è quella suprema scienza (méghiston máthema) in riferimento alla quale le cose giuste e le altre diventano utili e giovevoli [...] E se noi non conosciamo questa scienza, anche se conoscessimo esattamente tutte le altre cose, ma non essa, a noi da questo non deriverebbe alcun vantaggio, così come non ne deriverebbe se possedessimo qualsiasi cosa senza il Bene. O credi che ci sia un vantaggio a poter disporre e possedere ogni cosa se poi tale possesso non è buono? O che si possa intendere tutte le cose senza il Bene, e non intendere per nulla il Bello e il Bene?”. Per ulteriori approfondimenti sul rapporto tecnica e politica in Platone si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 30: “Platone: tecnica e politica. La gerarchia delle tecniche e la politica come tecnica regia”.
21 H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung (1979); tr. it. Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990, Prefazione, p. XXVII.
22 Ivi, Parte IV, capitolo 3: “Teoria della responsabilità: genitore e uomo di stato quali paradigmi eminenti”, pp. 124-135. Sul presupposto antropocentrico che, contro le intenzioni di Jonas, percorre per intero la sua tesi che ne chiede il superamento, si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 45, § 2, al sottoparagrafo che ha per titolo: “Jonas e il riconoscimento della dignità teleologica della natura vanificato dal presupposto antropocentrico”.
23 S. Natoli, Progresso e catastrofe. Dinamiche della modernità, Christian Marinotti Edizioni, Milano 1999, pp. 245-246.
24 Aristotele, Etica a Nicomaco, 1112 b, 2-9.