7. La psicoanalisi nell’età della tecnica

Il razionalismo che scaturisce dalla scienza, oltre a essere uno dei fattori principali della “massificazione” dell’uomo, toglie alla vita individuale le sue basi e con ciò la sua dignità. In questo modo l’uomo ha perduto la sua individualità quale unità sociale ed è diventato un numero nella statistica di un’organizzazione. La sola parte che può ancora svolgere è quella di un’unità fungibile e infinitesimale. Viste dall’esterno e razionalmente, le cose stanno proprio così e, da tale punto di vista, diventa addirittura ridicolo parlare ancora del valore e del significato dell’individuo; anzi non si riesce più nemmeno a immaginare come mai si sia potuto assegnare tanta dignità alla singola vita umana, quando la verità del contrario è tanto palese.

C.G. JUNG, Presente e futuro (1957), p. 109.

1. Psiche e storia

L’impianto teorico di Jung è percorso dalla persuasione che la realtà psichica è a tal punto connessa con la realtà storica da costringere la psicologia analitica a una continua trasformazione epocale. Questa relazione tra psiche e storia, che Freud era costretto a ignorare per le caratteristiche cliniche del suo metodo e per la sua aspirazione a fare della psicologia una scienza, impone alla psicologia analitica una dinamica che la psicoanalisi non comprende, perché concepisce la psiche come un apparato a schema rigido, formalmente non dissimile dagli apparati che i medici descrivono a livello corporeo. E come una malattia dello stomaco o del fegato non è modificata dalla storia, ma è identica presso i Greci e presso di noi, così la nevrosi non subisce variazioni storiche, per cui va benissimo Edipo, l’eroe tragico di Sofocle, per descrivere le vicende psichiche che affliggono gli uomini del nostro tempo.

Jung è invece persuaso che la psiche è così solidale con la storia da esserne profondamente attraversata e modificata. Questa variazione continua non consente una costruzione della psicologia come scienza esatta, ma esige un’attenzione ininterrotta alle sue mutazioni, che sono decise dalla forma che di volta in volta assume la storia. Questa, infatti, inaugurando nuove idee dominanti e nuovi modi collettivi d’esistenza, modifica continuamente la natura dell’inconscio, che si trova a ospitare ciò che le varie epoche storiche rimuovono come non confacente alle rispettive visioni del mondo.

Prima che una terapia, infatti, la psicologia del profondo è una visione del mondo, che guarda l’uomo e la sua storia dal punto di vista di ciò che abitualmente è rimosso o comunque non è immediatamente evidente nell’ordine delle motivazioni che si è soliti assumere per giustificare il proprio modo di pensare e di agire. Ciò che è rimosso agisce come ignorato, la sua comparsa ha l’aspetto dell’incidente che interrompe la continuità dell’ordine.

Accadendo insieme (syn-tómos) all’ordine costituito, il rimosso si manifesta come sintomo che, insinuandosi nel discorso, lo fa traboccare, esponendolo a un senso che è quasi sempre fuorviante rispetto all’esigenza unitaria che l’epoca storica di volta in volta esprime. In quanto scarto, in quanto trasgressione, in quanto marginalità, il suo recupero produttivo e la sua iscrizione sono essenziali al mantenimento del sistema, anzi sono le condizioni del suo funzionamento. Per questo tra civiltà, che è cura dell’ordine intersoggettivo, e psicologia del profondo, che è cura dello scarto soggettivo, c’è rapporto e sguardo reciproco.

È evidente che questo rapporto non è definito una volta per tutte, perché la variazione delle forme di civiltà produce una variazione corrispondente nella natura dell’inconscio che, a questo punto, lungi dall’essere un apparato a schema rigido, si modifica in base a ciò che l’epoca storica impone di volta in volta di rimuovere. Questa è la vera differenza tra Freud e Jung, ben più radicale di quella descritta dallo stesso Jung.1 Basta accostare i testi per rendercene conto. Ne Il disagio della civiltà Freud, ad esempio, scrive:

In ogni tempo si è assegnato all’etica il massimo valore come se tutti se ne aspettassero importanti conseguenze. Ed è vero che l’etica, come è facile riconoscere, tocca il punto più vulnerabile di ogni civiltà. Perciò essa va intesa come un esperimento terapeutico, come uno sforzo per raggiungere, attraverso un imperativo dal Super-Io, ciò che finora non fu raggiunto attraverso nessun’altra opera della civiltà.2

Jung, dal canto suo, scrive:

La norma diventa sempre più superflua in un orientamento collettivo della vita, e con ciò la vera moralità va in rovina. Quanto più l’uomo è sottoposto a norme collettive, tanto maggiore è la sua immoralità individuale.3

Due tesi opposte che aprono il gioco a tutto campo e che inaugurano due immagini dell’uomo, che val la pena di delineare per scorgere i modelli di libertà e felicità che sottendono. Innanzitutto c’è un tragitto dell’umanità e un suo disagio che Freud condensa in queste rapide espressioni:

Di fatto l’uomo primordiale stava meglio, perché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza.4

Ma che cosa pensa qui Freud quando parla di felicità? In che cosa propriamente consiste il baratto a cui la civiltà ci costringe “per un po’ di sicurezza”? La felicità cui qui si allude è la mancanza di “qualsiasi restrizione pulsionale”, per cui, se questo è il problema, avrà buon gioco Marcuse nell’indicare il risolvimento del “disagio” nella creazione di una civiltà non repressiva, dove sarà possibile la riconciliazione del principio di piacere con il principio di realtà, e dove l’eros, spaziando libero, potrà riportare le attività dell’uomo alle loro matrici pulsionali, in cui è il loro libero esprimersi. Nella Prefazione politica del 1966 a Eros e civiltà (1955) è lo stesso Marcuse a dire:

Eros e civiltà: con questo titolo intendevo esprimere un’idea ottimistica, eufemistica, anzi concreta, la convinzione che i risultati raggiunti dalle società industriali avanzate potessero consentire all’uomo di capovolgere il senso di marcia dell’evoluzione storica, di spezzare il nesso fatale tra produttività e distruzione, libertà e repressione. Potessero, in altre parole, mettere l’uomo in condizione di apprendere la scienza (gaya ciencia), l’arte cioè di utilizzare la ricchezza sociale per modellare il mondo dell’uomo secondo i suoi istinti di vita, attraverso una lotta concertata contro gli agenti di morte.5

Ma qui tanto la diagnosi di Freud, secondo cui la civiltà si basa sulla repressione e la sublimazione delle pulsioni, procede in base a esse, e di esse si nutre, impedendo all’individuo la piena esplicazione delle proprie tendenze pulsionali, quanto la terapia di Marcuse, secondo cui le condizioni opulente, raggiunte dalla nostra civiltà, potrebbero consentire l’ipotesi di una società che non ha più bisogno di essere repressiva, e quindi di ottenere prestazioni lavorative a spese del mondo pulsionale, concordano in un punto che nessuno dei due ha mai messo in discussione, e precisamente che la felicità dell’uomo consiste nella piena esplicazione delle pulsioni.

Questo punto fermo, comune tanto alla diagnosi quanto alla terapia, ne porta con sé un altro, secondo cui la libertà è tanto maggiore quanto minore è la repressione delle pulsioni. Ma allora, come assenza di repressione delle pulsioni, la libertà dice in negativo quello che, in positivo, è detto dalla felicità come piena esplicazione delle pulsioni. I due concetti, in questo modo, coincidono, e per effetto di questa coincidenza, l’antitesi che Freud ha individuato tra felicità e civiltà si ripropone per la libertà. Scrive infatti Freud:

La libertà individuale non è un frutto della civiltà. Essa era massima prima che si instaurasse qualsiasi civiltà, benché in realtà a quell’epoca non avesse mai un grande valore, in quanto difficilmente un individuo era in grado di difenderla. La libertà subisce delle limitazioni a opera dell’incivilimento, e la giustizia esige che queste restrizioni colpiscano immancabilmente tutti.6

Ma qui, sia la coincidenza tra libertà e felicità, sia la loro inconciliabilità con le esigenze della civiltà dipendono dal fatto che Freud, per le esigenze che impone il metodo scientifico, ha instaurato l’ordine pulsionale come unico orizzonte entro cui definire l’umano. Infatti, in una conversazione del 1927, Freud disse a Ludwig Binswanger: “Sì, lo spirito è tutto. L’umanità certo sapeva di possedere lo spirito; io dovetti indicarle che vi sono anche gli istinti”.7

Preziosa indicazione, solo che quell’“anche”, strada facendo, si smarrì, e l’effetto fu che la teoria di Freud rimase definitivamente imprigionata nella riduzione dell’essenza dell’uomo alla sua pulsionalità, a cui venne conferita quella giurisdizione totale sull’essere umano, per cui tutte le manifestazioni, di cui ogni epoca storica è portatrice, non sono che un epifenomeno camuffato che il metodo analitico deve smascherare, per verificare la premessa secondo cui l’uomo si risolve in quella sua natura pulsionale che Freud si incarica di ricordare all’umanità.

Riducendo il “disagio della civiltà” alla repressione delle pulsioni, Freud ha reso un ottimo servizio al disegno repressivo della civiltà occidentale, che ora è nelle condizioni di poter liberare anche le pulsioni senza ridurre il tasso e la qualità della sua repressione. Questa, infatti, non si esercita tanto sull’ordine pulsionale, quanto sull’ordine dei significati, il cui senso è deciso in modo così univoco e rigoroso, che all’individuo non resta la possibilità di esprimersi in un altro senso, che può essere tanto il contro-senso, quanto il senso adiacente.

Ma forse “la lotta tra individuo e società”, che Freud con tanta chiarezza vede come “ostilità tra due processi costretti a disputarsi il campo l’un l’altro”, non è, come vuole Freud, “un contrasto presumibilmente insanabile tra due pulsioni primarie”,8 ma, come pensa Jung, fra diversi modi di conferir senso alle cose: un modo che per poter valere per tutti deve essere unico, e un modo che per poter rispondere alle esigenze dell’individuo deve sottrarsi a questa universale validità.

Prima che un campo di gioco di pulsioni impersonali, l’uomo, infatti, è apertura al senso, e la sua libertà, prima che nella piena esplicazione delle sue pulsioni, si esercita nell’ampiezza di questa apertura. Se questo è vero, efficace non sarà la repressione che si esercita sulle pulsioni (che l’età della tecnica non ha alcuna difficoltà a liberare, perché la loro sorte è inessenziale alla sua repressione), ma quella che si esercita come restringimento dell’apertura dei significati. In una parola, sarà la repressione del codice sociale che, rimossa l’ambivalenza di ogni significato, di cui il simbolo è geloso custode, sarà in grado di imporre a ogni individuo lo stesso segno. Per questo genere di repressione non è necessaria la forza, perché sarà lo stesso individuo, a cui è stata ristretta l’apertura del senso, a scegliere tra i sensi che la dittatura del codice gli mette a disposizione, in modo che ogni processo di individuazione avvenga nel recinto predisposto.

In questo senso Jung può dire, come sopra abbiamo riferito, che: “La norma diventa sempre più superflua in un orientamento esclusivamente collettivo della vita, e con ciò la vera moralità va in rovina. Quanto più l’uomo è sottoposto a norme collettive, tanto maggiore è la sua immoralità individuale”.

Si tratta di un’immoralità che non ha nulla a che fare con l’ordine delle pulsioni, ma con il coraggio di mantenere la propria apertura al senso, oltre e al di là dei sensi consentiti dall’ordine sociale codificato. Per questo, scrive Jung: “L’individuazione rappresenta un ampliamento della sfera della coscienza (Die Individuation bedeutet daher eine Erweiterung des Sphäre des Bewusstsein)”, uno sporgere oltre e al di là, quindi “una funzione trascendente (transzendente Funktion)”.9

Prima che “la piena esplicazione delle pulsioni”, ciò che una società codificata teme e perciò reprime è un’eccedenza di senso rispetto a quello che essa è in grado di controllare. Il vero rimosso della nostra civiltà non è dunque l’ordine pulsionale, ma la trascendenza, intesa come ulteriorità di senso rispetto al senso codificato, quindi il simbolo che, per la sua naturale ambivalenza, si sottrae alla dittatura del segno. Questa è la “vera differenza” tra Freud e Jung: differenza di diagnosi nell’identificazione del rimosso, e differenza di terapia che, invece di promuovere la sublimazione delle pulsioni, mette in gioco i simboli come ulteriorità di senso rispetto al senso codificato.

Jung non parla di simbolo in modo univoco. Le oscillazioni a cui questa parola è sottoposta nei testi di Jung hanno del vertiginoso. Ne daremo conto nel capitolo dedicato a “La polisemia del simbolo nella concezione di Jung”. Ora quello che qui è importante chiedersi è se ancora possiamo pensare l’uomo nelle modalità descritte dalla simbologia antica (sia essa greca o giudaico-cristiana, a cui, tanto la psicoanalisi a partire dal complesso di Edipo, quanto la psicologia analitica fanno ampio ricorso), o se invece in questo pensiero non si nasconde una sorta di pigrizia, di cecità, di incoscienza di appartenere a tutt’altra epoca e a tutt’altra storia, dove l’uomo è così distante dalle sue origini da non esser più paragonabile al modello greco o a quello giudaicocristiano, che avevano nell’immodificabilità delle leggi di natura il loro limite e, con il limite, la loro certezza. Oggi questo confine è ampiamente oltrepassato dalla tecnica che può modificare le condizioni stesse che hanno reso finora possibile l’esistenza dell’uomo. Come ci ricorda infatti Günther Anders:

Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi.10

Come risuona questa trasformazione nel profondo della psiche? Come si misura la psicologia analitica con questo capovolgimento? È ancora possibile pensare le nozioni di “individuo”, di “collettivo”, di “libertà”, di “identità”, di “sofferenza” secondo le definizioni fornite in un’epoca pre-tecnologica com’era ancora quella di Freud e di Jung?

A queste domande è possibile rispondere solo se si affrontano due aree tematiche che connotano la vita dell’uomo contemporaneo, il quale si trova ad abitare una società complessa regolata da quella forma di sapere che l’uso linguistico chiama “scientifico”, e a cercare il significato della sua esistenza in un regime controllato dalla tecnica, che ha oltrepassato quello che per gli antichi era il limite invalicabile della natura.

2. Il sapere scientifico e la complessità sociale

Il pensiero greco aveva fissato nell’anima, intesa come sostanza spirituale, il fondamento della soggettività e, così, aveva posto le basi per quella nozione di individuo che, attraverso l’educazione (paideía), poteva giungere a quei gradi di conoscenza della verità delle cose che erano scritti nelle leggi immutabili della natura.

Questa nozione di individuo verrà ripresa dal cristianesimo e immessa in un gioco che non è più di conoscenza, ma di salvezza. Di fronte alla parola rivelata, il problema non è più regolato dal vero e dal falso, dal verosimile, dall’opinabile, dal falsificabile, ma dall’adesione o dalla non adesione alla parola rivelata. Il gioco non è più aperto dalla conoscenza, ma dalla fede, l’individuo non avrà più problemi di verità, ma di libertà, responsabilità, colpa, salvezza.11

Sia pure con questa variante non indifferente, cultura greca e cultura cristiana mantengono il concetto di soggettività individuale e di sostanza spirituale che ha nell’individuo la sua sede. Ma questo modo di pensare incontra la sua fine con il sorgere della scienza moderna, quando, con Cartesio, il soggetto esiste sempre meno come individuo e sempre più come cogito intersoggettivo, che non si cura delle sorti del singolo, se non tramite quei saperi che parlano di lui. Quindi non più l’individuo nell’innocenza della sua singolarità, ma l’individuo come risulta dalle descrizioni scientifiche di cui l’economia, la sociologia e la psicologia si fanno carico.

Nell’età contemporanea, che noi facciamo coincidere con l’età della tecnica, l’anima razionale, che nel mondo greco era egologica, con il progredire delle scienze diventa funzionale. Non riflette più l’Io individuale e soggettivo (come nella filosofia antica), o l’Io intersoggettivo (come nella filosofia moderna), ma l’organizzazione del mondo tramite un corpo disciplinare. Non più il principio di un ordinamento, ma il funzionamento di un ordine. Siamo allo scioglimento dell’anima nella rete polinodale delle sue funzioni logiche e discorsive.12

Nata come criterio d’ordine e quindi come generatrice di regole per la lettura del mondo, l’anima razionale ha così progressivamente perso la sua identità sostanziale, per risolversi in quelle procedure discorsive necessarie all’identificazione dei soggetti, degli oggetti e delle loro relazioni. Si tratta di un’identificazione sempre discutibile e tale da poter essere messa in ogni istante in questione, ma l’aleatorietà che la sottende non sopprime la rigidità che è propria di ogni stipulazione.

Non c’è più una verità assoluta, ma resta assoluto il criterio che la conoscenza non è possibile senza regole, la cui modificabilità non intacca la rigidità del loro funzionamento. Venisse meno questo criterio, non sarebbe più possibile un discorso univoco e, al limite, la possibilità di intendersi.

L’espansione delle procedure discorsive, la loro modificabilità in ragione di una loro migliore funzionalità fa sì che l’insieme delle regole non possa più essere controllato dal singolo individuo, sia per l’eccessiva complessità dei paradigmi, sia per l’elevato numero delle variabili. A questo punto vien meno tanto l’anima individuale, che coglie le regole eterne della divisione e della connessione del reale, quanto l’anima intersoggettiva che fissa le regole di ciò che è dicibile e di ciò che è indicibile. A questo punto la soggettività dell’uomo, che aveva trovato nell’anima la propria sede, cede alla sempre maggior complessità dei sistemi di riferimento, che si incaricano anche di parlare dell’anima e del soggetto come di un loro contenuto.

Nietzsche, che vive la conclusione della parabola descritta dal pensiero moderno, coglie con precisione il processo di esteriorizzazione dell’anima e lo descrive come passaggio dall’anima intesa come sostanza spirituale e fondamento della soggettività individuale, all’anima intesa come atto del puro pensare, dove il soggetto non esiste più in sé, ma è posto dalle procedure discorsive che parlano di lui. Scrive in proposito Nietzsche:

Ma che cosa fa, in fondo, l’intera filosofia moderna? Da Cartesio in poi – e, per la verità, più per dispetto contro di lui che sulla base del suo esempio – da parte di tutti i filosofi, sotto l’apparenza di una critica al concetto di soggetto e di predicato, si perpetua un attentato contro l’antico concetto di anima, – vale a dire: un attentato al presupposto fondamentale della dottrina cristiana. In quanto scepsi gnoseologica, la filosofia moderna è, occultamente o apertamente, anticristiana: sebbene, sia detto per orecchie più delicate, non sia in alcun modo antireligiosa. Una volta, infatti, si credeva nell’“anima”, come si credeva alla grammatica e al soggetto grammaticale: si diceva: “Io” è condizione, “penso” è predicato e condizionato – il pensare è un’attività per la quale un soggetto deve essere pensato come causa. Si cercò allora, con un’ostinazione e un’astuzia mirabili, se non fosse possibile districarsi da questa rete, ci si domandò se non fosse vero caso mai il contrario: “penso” condizione, “Io” condizionato; “Io” dunque soltanto una sintesi che viene fatta dal pensiero stesso. Kant voleva dimostrare, in fondo, che partendo dal soggetto, il soggetto non può essere dimostrato – e neppure l’oggetto: pare non gli sia stata sempre ignota la possibilità di una esistenza apparente del soggetto, quindi dell’“anima”, quel pensiero cioè, che come filosofia del Vedanta già una volta e con un immenso potere è esistito sulla terra.13

Lo stesso concetto era già stato anticipato da Nietzsche in un frammento postumo del 1885:

Ciò che mi divide nel modo più profondo dai metafisici è questo: non concedo loro che l’“Io” sia ciò che pensa; al contrario considero l’Io stesso una costruzione del pensiero, dello stesso valore di “materia”, “cosa”, “sostanza”, “individuo”, “scopo”, “numero”; quindi solo una finzione regolativa, col cui aiuto si introduce, si inventa, in un mondo del divenire, una specie di stabilità e quindi di “conoscibilità”. Il credere alla grammatica, al soggetto e oggetto grammaticale, ai verbi, ha soggiogato finora la metafisica; io insegno ad abiurare questa fede. È il pensiero che pone l’“Io”, ma si è finora creduto, come crede il “popolo”, che nell’“Io penso” ci fosse qualcosa di immediatamente certo e che questo “Io” fosse la causa data del pensiero; secondo un’analogia con questa abbiamo “inteso” tutti gli altri rapporti causali. Per quanto consueta e indispensabile questa funzione possa essere, niente dimostra che la sua natura non sia fittizia. Qualcosa può essere condizione di vita e tuttavia falso.14

Queste riflessioni inaugurate da Nietzsche porteranno a sostituire l’“anima” della filosofia moderna, che si esprimeva nel soggetto impersonale della rappresentazione, con l’“anima” che la scienza esprimerà come ordine della rappresentazione, come insieme dei saperi che comprendono anche il sapere che parla del soggetto. A questo punto l’anima non è più egologica ma funzionale, non riflette più l’Io individuale e soggettivo o l’Io ideale e intersoggettivo, ma l’organizzazione del mondo tramite un corpo di discipline a cui la scienza dà attuazione con le sue procedure.

L’espansione delle procedure, la loro modificabilità in ragione di una loro migliore funzionalità, fa sì che l’insieme delle regole, nella loro interconnessione e complessità, non possa più essere controllato dal singolo individuo, la cui soggettività, che aveva trovato nell’anima la propria sede, non può non cedere alla sempre maggior complessità dei sistemi di riferimento, che si incaricano anche di parlare dell’anima e del soggetto come di un loro contenuto.

Siamo alla parola tecnica del sapere psicologico, dove l’anima non è più la fonte del discorso, ma l’effetto di una procedura discorsiva, nel senso che il suo essere non preesiste, ma è posto dal discorso che parla di lei. A questo penso si riferisca Mario Trevi là dove distingue il “discorso sulla psiche”, che è la parola tecnica del sapere psicologico dove l’anima è l’effetto di una procedura discorsiva, dal “discorso della psiche” dove l’anima non è effetto del discorso, ma fonte del discorso. Scrive a questo proposito Trevi:

Ogni “discorso sulla psiche” ospita inevitabilmente nel suo seno – sia pure cripticamente – il “discorso della psiche”, ogni descrizione della psiche la vivente e ricchissima (e mai circoscrivibile) vita psichica di chi lo pronuncia. Esiste anzi un “punto di fuga” – che è anche un ideale utopico o un limite tendenziale – in cui ogni “discorso sulla psiche” si risolve nel “discorso della psiche”, ogni “psicologia” nell’inesauribile e dialogica parola dell’uomo, ogni scienza psicologica nella sconfinata foresta di metafore che è il linguaggio umano sorpreso nella sua perenne germinatività.15

Queste considerazioni hanno la loro lontana risonanza nella riflessione di Nietzsche, che per primo ha colto nell’anima non l’inaugurazione del mondo, come aveva fatto la filosofia antica e moderna, ma il suo riflesso:

Siamo noi a vedere dentro il mondo le nostre leggi e, viceversa, non possiamo concepire queste leggi, se non come la conseguenza di questo mondo su di noi. Il punto di partenza è l’illusione dello specchio, noi siamo immagini viventi riflesse dallo specchio.16

La metafora, tratta dalla tradizione mitica di Dioniso, che guardandosi allo specchio vede il mondo, dice che quando fra interiorità ed esteriorità si stabilisce un gioco speculare, le due entità vengono a coincidere e per ciò stesso a cessare di esistere come due entità distinte. Ne dà testimonianza Salvatore Natoli là dove descrive il passaggio dall’interiorità dell’anima alla sua esteriorità:

Ciò che costituisce la radicalità della svolta è il fatto che il corpo e il mondo in tanto sono posti in quanto sono saputi, ossia rappresentati: ora il corpo e gli eventi del mondo, in quanto rappresentati, sono inclusi e contenuti in ciò che li rappresenta. Se prima, dunque, l’anima, quale sostanza spirituale, abitava il corpo, adesso, in quanto piano della rappresentazione, è posizione del mondo e quindi limite estremo della presenza, totale esteriorità rispetto a tutto ciò che essa include. L’anima, in quanto visio intellectualis, deve, sotto le istanze del metodo, mutarsi necessariamente in orizzonte della rappresentazione.17

Fine dell’anima e fine del mondo come realtà contrapposta alla realtà dell’anima. Oltrepassamento della relazione soggetto-oggetto su cui era cresciuta la filosofia e la scienza nell’età moderna. Abolizione della dicotomia tra apparenza e realtà e quindi, come dice Nietzsche: tra “mondo vero” e “mondo apparente”.18

Deperimento dell’identità egologica a favore di un’identità funzionale. Il posto lasciato vuoto dall’anima come principio d’ordinamento viene infatti occupato dal funzionamento di un ordine, dove la “verità assoluta” si trasforma in un sistema di regole e gli “errori” in prospettive. Ora il mondo non vive più nell’interiorità dell’anima (filosofia antica) o nella forma delle sue rappresentazioni (filosofia moderna), ma nella coerenza delle procedure che lo descrivono sotto il controllo della scienza.

Dopo questa svolta qualsiasi procedimento diventa scientifico, qualsiasi esperienza della vita viene decodificata e tradotta in sapere e, solo guardando gli ordini del sapere, gli uomini sapranno di sé. Impareranno cos’è normalità e follia dalla psichiatria, cos’è salute e malattia dalla clinica, cos’è sessualità e perversione dalla psicoanalisi, cos’è ordine e disordine dalle scienze sociali. Andranno a cercare la loro identità non più nella loro interiorità, ma, per effetto della dissolvenza dell’anima, nelle regole che li normalizzano. Il loro sguardo non sarà più rivolto a sé, ma fuori di sé, non più sul mondo, ma sulle parole che lo descrivono. Ciò che sta fuori dal discorso sta per ciò stesso fuori dalla ragione.

Ma qui non si fraintenda. Con la dissoluzione dell’anima individuale e dell’anima intersoggettiva, la scienza non è più in grado di offrire un discorso della ragione, ma solo delle ragioni discorsive, la cui giustificazione non è nell’appello a una ragione unica e universale che in sé include ogni possibile discorso, ma è nella sua stessa capacità di esistere e di produrre effetti di realtà.

Non sono più i discorsi che sussistono in funzione di una ragione eterna, come pensava la filosofia antica, o di una rappresentazione universale, come riteneva la filosofia moderna, ma ogni singola ragione sussiste di volta in volta in funzione di un discorso che si produce e, producendosi, genera realtà.

Si tratta di una realtà che non è più costituita da cose, ma da rapporti, perché le cose hanno perso lo spessore sensibile con cui da sempre sono state considerate, per risolversi nei rispettivi costituenti elementari che la sistematica scientifica provvede a ordinare logicamente.

Date queste premesse, l’esito della scienza non può essere altro che la tecnica, ossia la produzione di oggetti materiali che si svolge secondo l’oggettività di rappresentazioni formali. Essendo sempre più un prodotto del sapere, la realtà tende sempre meno a ospitare l’antica differenza tra natura e artificio, perché quando la natura è scomposta nei quadri che la rendono intelligibile, la diversa combinazione di questi quadri mette capo a produzioni che solo un ritardo linguistico può chiamare “artificiali” e tenere distinti dalle produzioni “naturali”. In realtà, nel sistema delle scienze, natura e artificio tendono sempre più a uguagliarsi e a coincidere, e siccome non c’è mondo se non c’è un ordine che lo descrive, la descrizione scientifica del mondo è il mondo che abitiamo.

Sorta per dominare il mondo del divenire e del mutevole, l’anima, dopo l’antico ricorso all’ordine dell’immutabile, s’è fatta orizzonte di tutto ciò che diviene, ma, in questo passaggio, ha posto le premesse per la sua dissoluzione. Non si può, infatti, inseguire il mutevole se non mutando a propria volta. Si tratta ovviamente di una mutevolezza ordinata da una costruzione successiva di teorie rigorose, ma nel contempo revocabili. In questa revocabilità si annida il processo di dissolvenza dell’anima che s’è fatta carico sino in fondo della mutevolezza del reale.

Che ne è a questo punto degli individui che l’antica nozione di anima esprimeva come soggettività di conoscenze e di azioni? In un universo di differenziazioni funzionali, dove non c’è più una ragione, ma ogni ragione si determina come argomento del discorso che interpreta una funzione, quelli che finora sono stati intesi come “soggetti” divengono oggetti conosciuti e agiti dalle relazioni sistemiche, in cui si conoscono ed entro cui si promuovono gli itinerari delle azioni.

Ora che l’identità non è più dell’individuo, ma del sistema, che ne è del processo di individuazione rintracciabile non più in un nucleo essenziale, invariabile e reperibile in ciascuno, come poteva essere l’“anima”, ma nell’insieme integrato delle funzioni leggibili all’interno di un ordine di rinvii predisposti dalla tecnica?19 Infatti, come scrive Horkheimer:

Nelle epoche pre-tecnologiche c’era ancora una frattura tra cultura e produzione. Grazie a questa frattura, l’individuo aveva più scappatoie di quanto non gliene conceda oggi la moderna superorganizzazione, che lo riduce a una semplice cellula di risposta funzionale.20

Per effetto di questo capovolgimento, mentre prima gli uomini dipendevano l’uno dall’altro, ora dipendono dalle procedure tecniche, che nel loro insieme esprimono la forma generale dei rapporti di dipendenza personali. Ciò significa che se la tecnica ha liberato l’uomo dal vincolo della natura e dal vincolo che lo assoggettava a un altro uomo, l’ha potuto fare ponendo se stessa come vincolo di tutti i vincoli, come elaborazione secondaria e sostitutiva del vincolo naturale e del vincolo antropologico.

In questo modo la tecnica ha creato un uomo nuovo, la cui caratteristica essenziale è, come sempre, quella di essere in relazione ad altro, solo che l’altro non ha più il volto della natura o il volto dell’uomo, ma quello dell’apparato tecnico, all’interno del quale si è in relazione non con la propria identità, ma con la propria funzione. L’identità, infatti, come scrive Romano Madera, è “l’identità dell’id, maschera il cui volto nascosto è la formalizzazione algebrica di tutte le maschere”.21

In questo teatro, in cui a muoversi non sono tanto gli uomini, quanto quelle loro maschere che sono poi le loro funzioni, agli individui è dato solo di interpretare un testo già dato, al quale non è possibile sottrarsi, perché in quel testo sono scritte le condizioni generali dell’esistenza. Già Marx aveva visto nell’economia liberista, nonostante la sua ostentata celebrazione dell’individuo e dei suoi valori, la premessa che preparava le esequie dell’individuo e la sua sostituzione con quella maschera (Charakter Maske) che rappresenta solo la sua valenza economica. Infatti, scrive Marx:

Le persone esistono qui l’una per l’altra soltanto come rappresentanti di merci, quindi come possessori di merci. Troveremo in generale, man mano che la nostra esposizione procederà, che le maschere economiche, caratteristiche delle persone, sono soltanto le personificazioni di quei rapporti economici, come depositari dei quali esse si trovano l’una di fronte all’altra.22

Là infatti dove il capitalista è “capitale pianificato” che entra in relazione con il proprietario fondiario in quanto “personificazione della terra”, o con l’operaio in quanto “personificazione della forza lavoro”, l’incontro non è tra individui, ma tra fattori economici di cui gli individui sono semplici personificazioni.

Ma là dove si assiste, come vuole l’espressione di Marx, a “rapporti di cose fra persone e rapporti sociali fra cose”,23 gli individui perdono la loro specificità e, in quanto meri rappresentanti delle cose che possiedono o delle funzioni che svolgono, tendono a diventare sempre più simili gli uni agli altri, come le monadi di Leibniz,24 simbolo settecentesco dell’individuo economico atomistico, che la società, visualizzata a partire dai valori economici, eleva a tipo sociale. Il perseguimento dell’interesse individuale isola le monadi l’una dall’altra, ma instaurandole come semplici rappresentanti degli interessi che entrano in relazione fra loro, tende a renderle sempre più simili l’una all’altra.

In questo modo il principio di uniformità si stende sugli individui, il cui volto non solo resta nascosto dietro la maschera del “titolare di interessi”, ma finisce con il non aver più alcuna rilevanza, perché, per lo sguardo economico, ciò che conta non è più l’individuo, ma la sua titolarità.

E così, dietro la persona, dietro la maschera non c’è nessuno, ma “nessuno”, come sappiamo da Omero, e come ci ricorda Romano Madera, “è il nome di qualcuno”,25 che entra in relazione sociale non come individuo, come se stesso, ma solo come titolare di interessi, come loro rappresentante. In questo modo “nessuno” diventa il vero nome di ogni individuo, a cui l’economia e più ancora la tecnica hanno tolto la specificità del suo volto sotto la maschera della personificazione.26

Passando dalla razionalità economica, che ancora conosce una passione umana che è la passione per il denaro, alla razionalità tecnica, che non è attraversata da alcuna passione, ogni individuo diventa “accessorio” dell’officina della tecnica, dove come “specializzato” deve esprimere le sue abilità di dettaglio, in un regime in cui ciò che conta non è più la personalità dell’individuo, ma piuttosto la sua uniformità, che ne garantisce la sostituibilità per il corretto funzionamento dell’apparato.

Se per la ragione antica era possibile conoscere gli individui dalle loro azioni, perché queste erano lette come manifestazioni dell’anima, intesa come funzione decisionale, oggi le decisioni dell’individuo non sono più leggibili come espressioni dell’anima, ma come possibilità calcolate dal sistema, che non solo le prevede, ma addirittura le prescrive nella forma della loro esecuzione.

A questo punto non è più possibile attribuire le azioni ai soggetti, ma se mai i soggetti al sistema di azioni previsto come possibile. L’individuo non diviene ciò che è, ma sceglie all’interno di quanto è anticipatamente predisposto. Se qui non cade la sua scelta, la sua azione non diventa leggibile e, in quanto illeggibile, si inscrive nella follia.

A sua volta la follia non è più lacerazione dell’anima, suo sconnesso articolarsi, scissione della sua unità sostanziale, ma lo stesso pensarsi come individui in grado di individuarsi, cioè di diventare ciò che, in fondo all’anima, si è.

Questa visione romantica, intorno alla cui ingenuità ancora si articolano le varie teorie psicologiche, e in particolare la psicologia analitica di Jung, ignora che i singoli non hanno senso da soli, ma solo nel gioco relazionale che li pone e in cui sono posti. La dimensione collettiva non è un aspetto a cui l’individuo può prender parte o può sottrarsi, ma è la forma che lo definisce, la regola del gioco, fuori dalla quale non si dà senso. L’individuo non si costituisce prima del sistema collettivo di riferimento, ma solo in esso e grazie a esso, come le singole carte da gioco, che in sé non significano niente, perché il loro valore dipende dalle regole del gioco in cui sono inserite.

Questo i Greci lo sapevano, e perciò elaborarono la nozione di anima in stretta connessione con la nozione di politica, perché solo dall’interazione dei molti (polloí) era decifrabile la nozione di individuo. Questa emergeva non come “eccezionalità”, “genialità”, “espressione di sé”, ma come unità di senso, decifrabile a partire dalle relazioni e dagli orientamenti percorribili nella rete delle possibilità previste. Fuori da questa rete restava la follia dei poeti, dei sacerdoti, degli iniziati, degli oracoli e degli enigmi, i cui atti e le cui parole non si lasciavano decifrare a partire da ciò che è comune (xynón).27

Rispetto ai Greci la situazione oggi è modificata, non nel senso che l’individuo possa acquistar senso al di fuori delle relazioni e dell’insieme di aspettative che il sistema ha prefissato, ma nel senso che le aspettative si sono ampliate in proporzione alle differenziazioni che il sistema ha dovuto accogliere per tener conto di tutte le variabili. Questa situazione non modifica l’essenzialità della relazione, ma la decifrazione materiale del contesto e l’articolazione dei nessi funzionali e sistemici. Qui viene a proposito la nozione di complessità a cui è intimamente connessa quella di libertà.

La parola “libertà”, così carica di storia e di senso, necessita qui d’esser tradotta. Essa non significa “espressione di sé” o “liberazione dal giogo”, né si riferisce all’esercizio della scelta individuale al di là delle condizioni esistenti. Queste nozioni di libertà, che sono poi quelle condivise dal senso comune, esprimono aspirazioni che percorrono le società poco differenziate, dove le scelte sono limitate, e perciò la libertà si riduce alla possibilità di obbedire o disobbedire.

In una società complessa, dove il controllo delle variabili crea una serie di sottosistemi, al cui interno si accrescono e si precisano le leggi di selezione, la libertà è data, come dice Natoli, dall’eccedenza delle possibilità rispetto alle scelte che gli individui possono fare nel corso della loro vita. In questa situazione l’individuo è libero non per quel tanto di creatività che egli ritiene di poter riconoscere nella propria anima, ma per quel tanto di mobilità che gli è concessa dall’eccedenza. Scrive in proposito Natoli:

In società poco differenziate le scelte sono di fatto limitate e ripetitive e le questioni di libertà si risolvono molto spesso nel diritto di obbedire o disobbedire, di resistere o di violare. [...] Le società complesse viceversa ampliano la libertà e spostano di fatto il concetto: in esse crescono l’aleatorietà e la contingenza, ma nel contempo si accrescono e si precisano leggi allargate di selezione. Ciò comporta per i singoli una crescita intensa di possibilità di movimento e, di fatto, un accrescimento di mobilità sociale. Detto altrimenti, nelle società complesse c’è in genere un’eccedenza di possibilità rispetto alle scelte che gli individui possono fare nel corso della loro vita. In tale circostanza l’individuo è libero almeno per quel tanto di movimento che gli è concesso dall’eccedenza.28

Per effetto dell’esteriorizzazione dell’anima e della conseguente deducibilità dell’individuo dall’insieme delle relazioni esistenti, l’antico “conosci te stesso” si traduce nella conoscenza del maggior numero di informazioni, che consente una maggior agilità di selezione in rapporto alle variabili.

Nel dispiegarsi del gioco aperto dal sistema, la nozione di anima individuale non può essere descritta al di fuori del gioco, ossia non può essere identificata al di fuori dell’azione eseguita che, a sua volta, non può essere intesa se non come relazione al sistema che la significa. Ne consegue che le identità (l’anima, l’Io) non preesistono al gioco, ma si costituiscono giocando; e siccome le regole del gioco prevedono le repliche degli avversari, le identità non sono, ma mutano nel gioco. Per effetto di questo mutamento, le identità saranno riconoscibili solo alla fine del gioco, per le relazioni in cui si sono espresse e per le risposte che hanno dato. Come ci ricorda Natoli:

Già Aristotele notava come gli individui singolarmente presi non bastano a se stessi; l’assunto rimane valido, quel che è cambiato è il gioco delle sufficienze, ossia lo spessore materiale delle relazioni e l’insieme dei criteri di leggibilità. Un soggetto ormai è sempre meno riconoscibile direttamente e in se stesso: ne segue che, per dare conto delle aspettative e delle decisioni dei soggetti in generale, bisogna operare a livelli alti di logica e di artificialità.29

La razionalità che presiede l’età della tecnica, infatti, ha spostato il problema del riconoscimento dal rapporto personale servo-signore al rapporto impersonale che deriva dall’assunzione di un ruolo, con conseguente potenziamento della libertà di ruolo e conseguente insignificanza della libertà personale.30 Ma dire “ruolo” significa dire “disposizione tecnica”, per cui “libertà di ruolo” significa libertà della tecnica di disporre degli uomini e dello spazio della loro azione, con conseguente spostamento dell’investimento degli individui dall’identità alla funzione, da ciò che si è al ruolo che si svolge.

Ciò comporta da un lato un’identità incerta dei propri contorni, e dall’altro un’identificazione con il ruolo assegnato dalla disposizione tecnica dell’apparato, sino a fondersi senza residui con le sue attese, perché il riconoscimento non giunge all’individuo da un altro individuo, ma a tutti gli individui da quel grande Altro che è l’apparato tecnico. In questo modo l’individuo, per rivendicare la sua identità, deve negare la differenza tra il suo Io e la sua funzione, il che equivale a negare la differenza tra il suo Io e l’apparato tecnico che lo riconosce.

3. Le sorti dell’Io tra inconscio pulsionale e inconscio tecnologico

Desiderando l’annientamento di sé per reperire un margine di identità riconosciuta, nell’età della tecnica l’individuo torna a sperimentare entrambi gli opposti di quell’esperienza arcaica di unione con il tutto che Freud, accogliendo l’espressione del suo amico poeta Romain Rolland, chiama “sentimento oceanico (ozeanisches Gefühl)”31 :

In origine l’Io include tutto, e in seguito separa da sé un mondo esterno. Il nostro presente senso dell’Io è perciò soltanto un avvizzito residuo di un sentimento assai più inclusivo, anzi di un sentimento onnicomprensivo che corrispondeva a una comunione quanto mai intima dell’Io con l’ambiente. Se possiamo ammettere che – in misura più o meno notevole – tale senso primario dell’Io si sia conservato nella vita psichica di molte persone, esso si collocherebbe, come una sorta di controparte, accanto al più angusto e più nettamente delimitato senso dell’Io della maturità, e i contenuti rappresentativi a esso conformi sarebbero precisamente quelli dell’illimitatezza e della comunione con il tutto, ossia quelli con cui il mio amico spiega il “sentimento oceanico”.32

Per Freud il sentimento oceanico è da ricondurre al sentimento infantile di onnipotenza. Questo sentimento è ciò che l’apparato tecnico, come il grembo materno, abbondantemente dispensa a quanti con esso si identificano, quasi un compenso all’impotenza della loro identità dagli incerti contorni.

Incerti perché se la separazione tra Io e mondo esterno è la condizione del costituirsi dell’Io, meno netta è invece la separazione tra l’Io e il mondo interno inconscio che Freud chiama Es, e di cui l’Io è in certo qual modo la continuazione o, per usare l’espressione di Freud, la “facciata”:

L’idea che l’uomo debba avere conoscenza della propria connessione con il mondo circostante mediante un sentimento diretto e immediato, orientato fin dall’inizio in quella direzione, appare talmente strana e si accorda così male con la struttura della nostra psicologia da legittimare il tentativo di una spiegazione psicoanalitica, ossia genetica, di tale sentimento. Possiamo quindi disporre della seguente linea di pensiero. Normalmente nulla è per noi più sicuro del senso di noi stessi, del nostro proprio Io. Questo Io ci appare autonomo, unitario, ben contrapposto a ogni altra cosa. Che tale apparenza sia fallace, che invece l’Io abbia verso l’interno, senza alcuna delimitazione netta, la propria continuazione in una entità psichica inconscia, che noi designiamo come Es, e per la quale esso funge come da facciata, lo abbiamo appreso per la prima volta dalla ricerca psicoanalitica, da cui ci attendiamo molte altre informazioni circa il rapporto tra Io ed Es. Ma verso l’esterno, almeno, l’Io sembra mantenere linee di demarcazione chiare e nette.33

Queste linee si fanno meno marcate in occasione dell’innamoramento, quando “il confine tra Io e oggetto minaccia di dissolversi”34 e in tutti quei casi patologici in cui:

La delimitazione dell’Io nei confronti del mondo esterno diventa incerta o in cui i confini sono effettivamente tracciati in modo scorretto. [...] Allora anche il senso dell’Io è soggetto a disturbi e i confini dell’Io non sono stabili.35

I confini che consentono una “delimitazione netta” tra Io e mondo esterno non sono per Freud originari, ma gradatamente guadagnati con la crescita che porta alla costituzione dell’Io adulto:

Questo senso dell’Io, presente nell’adulto, non può essere stato tale fin dall’inizio. Deve aver subìto uno sviluppo di cui ovviamente non si possono dare prove sicure; tuttavia esso può essere ricostruito con sufficiente verosimiglianza. Il lattante non distingue ancora il proprio Io dal mondo esterno in quanto fonte di sensazioni che lo subissano. Apprende a farlo gradualmente, reagendo a sollecitazioni diverse.36

La prima di queste sollecitazioni è quella fonte di eccitamento costituita dal seno materno, di cui però il bambino non può disporre a piacimento perché:

Il seno materno gli viene temporaneamente sottratto per essergli poi riportato solo come risultato del suo strillare in cerca di aiuto. In questo modo si contrappone per la prima volta all’Io un “oggetto” come qualcosa che si trova “fuori” e che viene costretto ad apparire soltanto in seguito a un’azione particolare.37

L’assenza del seno materno è solo un paradigma di tutte quelle “abbondanti, molteplici, inevitabili sensazioni di dolore e di dispiacere”38 che, costringendo l’Io a cercare la soddisfazione dei suoi bisogni nel mondo esterno, lo obbligano a:

Distinguere fra ciò che è interno, ossia che appartiene all’Io, e ciò che è esterno, ossia che scaturisce da un mondo esterno, e in tal modo viene compiuto il primo passo verso l’insediamento del principio di realtà, al quale spetta negli sviluppi futuri la parte dominante.39

“Oceanico” è dunque per Freud quel sentimento che pervade l’Io che ancora non si è distinto dal mondo esterno, ma vive con esso in quella “comunione quanto mai intima”40 a cui l’Io adulto, per costituirsi, deve rinunciare e, a rinuncia avvenuta, considerare quella condizione “oceanica” come uno stadio in cui ancora non si era separato dall’Es.

Ma l’Es non abbandona l’Io, per cui, nel momento in cui riconosce se stesso, l’Io riconosce anche tutto ciò che è pre-egoico, a cui partecipa senza esserne responsabile e senza potersi opporre. La scoperta di questa dotazione inconscia da cui l’Io non può separarsi, è per l’Io, che si scopre a un tempo Io e non-Io, la scoperta della sua impotenza.

Quando l’Io constata di non essere fichtianamente “posto da se stesso”,41 ma freudianamente “divenuto” altro da sé, e di non poter ovviare alla sua genesi, ossia di non potersi liberare da questo “altro” che è la sua dotazione inconscia, l’Io prova disorientamento in ordine alla propria individuazione e alla propria libertà, che a questo punto conosce i suoi limiti inscritti in quella dotazione pre-individuale che Freud ha chiamato Es e ha descritto in metafora sessuale.

In quanto macchina della specie, come bene ha messo in luce Schopenhauer,42 l’Io appartiene al sesso, e non il sesso all’Io come ingenuamente si crede,43 e perciò l’Io se ne vergogna e chiama il sesso: pudendum, e pudenda gli organi sessuali. La vergogna dipende dal fatto che il sesso è “o-sceno” non perché è sconveniente, ma perché è fuori dalla “scena” dell’Io, perché appartiene a quella scena pre-individuale che l’Io avverte come sottratta alla sua libertà. Nella sessualità l’Io collassa come Io e si trova Es, nonostante gli sforzi di individuazione con se stesso.

Sono sforzi che prendono avvio all’atto stesso della nascita, quando il bambino, separandosi dal corpo materno, inizia la sua storia individuale con uno strappo dal suo fondamento. Questo strappo, segnalato da O. Rank come “trauma della nascita”,44 è riconosciuto, pur tra mille esitazioni, dallo stesso Freud per il quale: “Nell’uomo e negli altri animali superiori sembra che l’atto della nascita sia la prima esperienza individuale di angoscia”.45 Questa riflessione porta Freud a “non abbandonare l’idea che l’Io sia la vera e propria sede dell’angoscia”,46 l’angoscia del processo di individuazione a partire dalla vita non ancora individuata.

È questa un’angoscia che l’Io trascina con sé tutta la vita come dolore di essere individuo e che ritroviamo alla base di quella “pulsione di morte” che spinge l’individuo a liberarsi dal tormento di essere individuo. A partire da queste considerazioni, Freud scrive:

Dopo mille esitazioni e oscillazioni ci siamo decisi ad ammettere soltanto due pulsioni fondamentali: l’Eros e la pulsione di distruzione. Meta della prima di queste due pulsioni è stabilire unità sempre più vaste e tenerle in vita: unire insieme dunque; meta dell’altra, al contrario, è dissolvere nessi e in questo modo distruggere cose. Nel caso della pulsione di distruzione possiamo supporre che il suo fine ultimo sia di portare il vivente allo stato inorganico. Per questo l’abbiamo chiamata anche pulsione di morte. Se ammettiamo che la materia vivente sia venuta dopo la materia inanimata, e da essa abbia tratto origine, ecco che la pulsione di morte rientra nella formula succitata secondo cui una delle due pulsioni tende al ripristino di una situazione precedente.47

È questo un motivo che da Anassimandro a Nietzsche ribadisce il dolore dell’individuo che, in quanto individuo, in quanto singolare, sconta il suo distacco dal Tutto a cui dovrebbe appartenere come cosmicamente si conviene, sconta il suo dover esistere come “eccezione cosmica” o, come vuole il linguaggio heideggeriano, come “ek-sistenza”,48 adattandosi a “essere”, senza “essere-assieme”, in quella beata ottusità in cui l’Io tenta di regredire ogni volta che è preso dall’angoscia di “dover essere Io”.

L’ápeiron di Anassimandro, il dionisiaco di Nietzsche, l’Es di Freud nominano, sia pure a partire da scenari differenti, quella condizione pre-individuale che l’Io porta dentro di sé come sua originaria matrice, e che crea in lui quella simultaneità tra esser-Io e non-esser-Io che è la sua contraddizione, la fonte della sua angoscia.

Ma accanto alla dotazione inconscia pre-individuale, che ha i suoi riscontri nel corpo, nella specie, nella famiglia e in tutto quel corredo impersonale che fa di un Io che è se stesso anche ciò che egli non è, esiste anche una dotazione post-individuale, costituita dall’apparato tecnico a cui l’uomo partecipa come funzionario, quando non addirittura come ingranaggio.

E come l’Es inconscio pre-individuale produce quel turbamento dell’identità che l’Io avverte ogni volta che scopre di non esser solo se stesso, così l’Es tecnologico si avvicina passo passo all’Io, lo condiziona sempre di più, risolvendo la sua identità in funzionalità, la sua libertà in competenza tecnica, la sua individuazione in atomizzazione, la sua funzionalità in deindividuazione, la sua specificità in omologazione, in quella cultura di massa in cui, in altra forma, risuona quel “sentimento oceanico” che Freud aveva indicato nella pressione dell’Es inconscio pre-individuale da cui l’Io proviene e da cui non si libera. A essa ora si aggiunge la pressione dell’Es tecnologico artificiale, burocratico, macchinale, che su un altro versante obbliga l’Io a non esser propriamente se stesso.

E come nella sessualità, nella vita impersonale della specie a cui appartiene, nelle vicissitudini del suo corpo che segue il proprio ritmo autonomo, l’Io trova se stesso nell’Es inconscio pre-individuale, così nella vita sociale, in qualità di produttore e di consumatore l’Io incontra se stesso come funzionario dell’apparato, o addirittura come anello di quella catena che l’Es artificiale della tecnica connette con il mondo delle macchine, le quali, siano esse amministrative, burocratiche, industriali, commerciali, esigono l’omologazione dell’individuo. Ciò significa che l’individuo realizza se stesso quanto più attivamente si adopera alla propria passivazione, che consiste nella sua riduzione a organo dell’apparato, a sua espressione, con progressivo decentramento da sé, e trasferimento del suo centro nel sistema tecnico che lo riconosce come sua componente.49

L’autonomia, che nel corso dell’evoluzione l’Io è riuscito a strappare all’Es inconscio, che è poi quello pre-individuale, quello biologico, oggi la consegna all’Es tecnologico, a partire dal quale l’Io giudica se stesso più o meno “capace”, più o meno “valido” a misura della sua più o meno riuscita integrazione. Ma dire integrazione significa guardare se stessi dal punto di vista dell’apparato, e quindi valutarsi tanto più positivamente quanto meno si è se stessi, e quanto più si è conformi alle esigenze del sistema tecnico a cui si appartiene.

Nasce da qui quella che Günther Anders chiama “vergogna prometeica”,50 che consiste nel fatto che l’uomo incontra se stesso solo quando fuoriesce dall’Es artificiale, rappresentato dall’apparato tecnico e dalla propria esistenza omologata perché a esso conforme.

Ciò si verifica quando nel rapporto con la macchina, sia essa amministrativa, burocratica, industriale, commerciale, l’individuo fallisce e, per effetto della sua inadeguatezza, è respinto dall’apparato tecnico di cui finora aveva fatto parte inosservato, e di cui aveva riconosciuto l’esemplarità. Avulso da quel mondo, che sempre più tende a diventare il mondo, l’individuo è rinviato a se stesso come “inutilizzabile” e, al cospetto di ciò che ha perduto, incontra il proprio Io che, come scrive Anders, nella prospettiva inaugurata dal mondo della tecnica:

Deve essere sì un “Io”, ma un “Io” che (per quanto porti un nome determinato e un corpo determinato e forse anche il determinato difetto di tessitura di una particolarità individuale) non è altro che un “modo deficiente” di essere macchina, niente altro che una scandalosa non-macchina e un clamoroso Nessuno.51

A questo punto, se quando era conforme all’apparato tecnico e a esso omologato l’Io trovava se stesso in veste di Es tecnologico, e quando è respinto dall’apparato incontra se stesso come mero rifiuto dell’Es tecnologico, allora l’Io non esce dalla sua esistenza omologata, perché in entrambi i casi il riconoscimento della sua identità resta comunque affidato all’Es tecnologico. E ciò è tanto più inevitabile quanto più l’apparato tecnico realizza la sua intrinseca tendenza, che consiste nel risolvere ogni residuo del mondo nel suo mondo.

4. Il dominio della tecnica e le parole del dolore

Se l’individualità è illeggibile al di fuori di un sistema di riferimento, dell’individuale non si dà discorso. Ma siccome ciò che sta fuori dal discorso sta fuori dalla ragione, l’individuale, nella sua ineffabilità, è la sede prima e originaria della follia.

La psicologia del profondo si imbatte nella follia, non perché incontra anime dissennate, ma perché incontra l’anima nella sua singolarità. Questa, tuttavia, non riesce a tenere in scacco la ragione, perché proprio le sue espressioni, che sono espressioni di follia, costringono la ragione ad accrescere le sue dimensioni e ad articolare sottosistemi sempre più differenziati e complessi, in cui le parole della follia possono trovare la loro traduzione e quindi la loro leggibilità.

Paradossalmente è la follia ad ampliare la ragione, e la razionalità dell’Occidente ne è la prova storica. Essa, infatti, deriva dal continuo accoglimento dei sussulti della follia, che ha costretto questa civiltà ad abbandonare ogni forma di verità assoluta, che impedisce quella moltiplicazione dei regimi discorsivi necessari per accogliere e ordinare le istanze irrazionali.

Le crisi della ragione sono sempre l’esito del suo ampliamento, anche quando il proliferare delle pratiche discorsive non consente più la loro riduzione a un solo ordine. Dissolvendo l’anima, in cui la filosofia antica e moderna avevano individuato la sede di ogni principio d’ordine, la ragione scientifica ha moltiplicato le sue possibilità di ordinare. Non ci fosse istanza di ordinamento, non ci sarebbe alcuna crisi e quindi alcuna produzione di senso.

Ma la complessità dell’anima ha mutato il profilo della ragione. La sua direzione, infatti, non è più verso l’inabissamento ma verso la crescita, il suo tratto non è più la profondità ma l’estensione,che trova la sua espressione nel dominio planetario della tecnica. A questo punto la psicologia del “profondo”, nata in uno scenario umanistico, nell’età della tecnica deve rivedere se stessa fin dalle radici.

Le prime riflessioni sulla tecnica nascono in Grecia con Eschilo che, nel Prometeo incatenato, si domanda: è più forte la tecnica (téchne) o la necessità (anánke) che governa le leggi di natura?

La scena si apre sul Caucaso dove un’aquila, inviata da Zeus, rode a Prometeo il fegato che di continuo si riforma per l’eternità del supplizio. La colpa di Prometeo è di aver insegnato la tecnica agli uomini, rendendoli “da indifesi e muti, assennati e padroni delle loro menti”.52

Con la tecnica gli uomini possono ottenere da sé quello che un tempo chiedevano agli dèi. La trasformazione è grande e la progettazione che la sottende, qualora dovesse realizzarsi per intero, avrebbe il potere di cancellare in modo definitivo l’orizzonte mitico-religioso in cui è nata.

La mitologia greca intuisce esattamente il senso e la direzione a cui porta il dono di Prometeo, ma può ancora proseguire e mantenere la visione del mondo da essa inaugurata perché nella Grecia antica il progetto tecnico non è ancora corredato dagli strumenti necessari alla sua esecuzione. A ricordarlo è lo stesso Prometeo: “La tecnica è di gran lunga più debole della necessità (Téchne d’anánkes asthenestéra makrôi)”. 53

Si allude qui alla necessità che regola la natura e la scansione del suo ciclo, che nessun progetto umano può infrangere e di fronte a cui ogni espediente tecnico incontra il suo limite. La natura resta norma (nómos) e su questa norma gli uomini edificheranno le loro leggi (nómoi) e le loro morali.54

Ma in questo edificare lavorava nascosta una tendenza appena percettibile, ma decisiva. L’uomo, cioè, si adattava alla legge della natura, che continuava a dichiarare immutabile, modificando continuamente l’assetto della natura per adattarla a sé. Questo processo mai dichiarato, ma sempre praticato, ha portato l’uomo così lontano dalle sue origini da rendere desueto quel patrimonio di abitudini in cui era cresciuto e in cui si era pensato quando la natura era il suo limite e, in questo limite, l’uomo ravvisava l’impianto delle sue certezze.55

Oggi non è più così: la natura non è più orizzonte, cielo e terra non fanno più da perimetro, perché le cose situate nel cielo e sulla terra si sono fatte cedevoli sotto gli strumenti della tecnica che, a questo punto, è di gran lunga più forte della necessità. Il sigillo, che ancora Prometeo poneva alle possibilità della tecnica, è ormai infranto. Il rapporto si è capovolto, non c’è più alcuna “necessità” a porre limiti ai programmi dell’umanità progettante.

La morte di Dio, ultimo baluardo dell’immodificabile, è testimonianza di resurrezioni impossibili. Chi si attarda non abita la storia, la cui scansione epocale offre l’età della tecnica non più in successione con le altre età che l’hanno preceduta, perché la trasformazione non ha inciso solo sulle cose, ma sul rapporto che l’umanità ha sempre conosciuto come impotenza del suo progettare rispetto all’invalicabilità del limite.

Qui Heidegger è chiarissimo e, a differenza di Freud, che utilizza il termine Unheimlich (che noi siamo soliti tradurre con “perturbante” o “inquietante”, perché “non-familiare”), in riferimento all’onnipotenza del pensiero, tipico del modo di pensare animistico,56 Heidegger lo utilizza in riferimento all’onnipotenza della tecnica che crea un mondo all’uomo non (un) familiare (heimlich). Scrive in proposito Heidegger:

Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca.57

Tutto si fa più incerto. Non c’è più custodia nel progetto che l’uomo avverte come suo ineliminabile impulso, e di cui non conosce il limite rassicurante. Dove il limite è ignoto, ignoto rimane il criterio, e più non è possibile quello che era possibile nelle epoche passate dove, per una previsione razionale del futuro, bastava guardare il passato.

Chi può dirci qualcosa dell’uomo nel momento in cui l’azione umana è diventata più potente dell’uomo stesso? Le morali che avevano il loro fondamento nella natura? Le sociologie edificate sulla riproduzione di un costume abbastanza collaudato dalle tradizioni? Le psicologie che ancora ci parlano degli antichi dèi, per evitare all’uomo il terrore che può nascere dalla potenza ormai inscritta nelle sue sole mani?

La febbrile ricerca di certezze tecnologiche ha sradicato l’uomo occidentale dalle sue origini, e ora egli si trova spaesato e sperduto in un mondo che inconsciamente ancora presume di conoscere e di dominare. In questo contesto, quali trasformazioni subiscono le nozioni con cui le psicologie, tutte le psicologie, finora hanno descritto l’uomo? Ma soprattutto in quali parole si fa sentire l’esperienza del dolore, della speranza, dell’angoscia, della noia o dell’amore, con cui l’uomo pre-tecnologico ha descritto se stesso e la sua storia?

Limitandoci alle forme della sofferenza, per lenire le quali la psicologia è nata come terapia e come modo ormai diffuso di pensare, potremmo dire, seguendo le tracce de L’esperienza del dolore di Salvatore Natoli,58 che il dolore si conosce per esperienza, che però è un’esperienza a tal punto individuale, da essere praticamente incomunicabile, a differenza dell’esperienza dell’amore che è espansiva, affabulatoria, creatrice di parola e di espressione anche quando è silenzio.

L’amore infatti nasce in due, ed è già dialogo, il dolore si radica invece nell’assoluta individualità. Il sofferente, allora, per far sentire a chi lo guarda di presentire e riconoscere il suo dolore, si affida al linguaggio che la sua cultura gli mette a disposizione. E perciò l’analisi del dolore è innanzitutto un’analisi del linguaggio e della visione del mondo che lo ospita. Le modalità del suo descriversi sono uno spaccato di filosofia della storia.

Il mondo greco parla un linguaggio tragico. La natura segue il suo ciclo. Fa nascere e morire l’uomo, provocando quell’implosione di senso che ogni uomo nella sua vita dispiega. Non sedotto da speranze ultraterrene, il Greco aderisce alla terra, godendo del qui e dell’ora, valorizzando il presente come si conviene a chi non ha speranze future.

Nietzsche, che ha ben colto nel tragico l’essenza della grecità antica, fa dire a Zarathustra: “Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze”.59 Ciò significa amare la terra con tutto il suo dolore, nella convinzione che vita e dolore sono inscindibili, e nulla può essere veramente vissuto al di fuori di questa inscindibilità.

La visione tragica del mondo consente al Greco di amare la vita perché anche la odia, di appassionarsi e quindi di gridare, di abbracciarla per la sua bellezza che non è mai disgiunta dal dolore. A grandi lettere Nietzsche non cessa di ripetere che i Greci sono i più grandi, perché per primi hanno avuto il coraggio del pessimismo.

Il mondo giudaico, e quindi anche quello cristiano, essendo il cristianesimo null’altro che un’eresia ebraica, svaluta il presente per un futuro promesso. La terra è vissuta come male, e la morte come liberazione per il regno eterno. Il tragico, come drammatica composizione di bellezza e dolore, è spezzato.

Per la mentalità giudaico-cristiana il dolore è solo di questo mondo e può essere dominato dalla fede nel regno atteso. Due terre dunque, una da sopportare e l’altra da fruire. A differenziarle è la presenza e l’espulsione del dolore, che quindi diventa il grande snodo dell’articolazione dei due mondi: uno denigrato per la presenza ineliminabile del dolore, l’altro atteso per la sua redenzione.

A questo tempo nuovo, inaugurato dalla tradizione giudaicocristiana, che non vive il presente perché attende il futuro, si legano da un lato le istanze rivoluzionarie che, al pari di quelle bibliche, attendono un tempo nuovo, e perciò, quando riescono, inaugurano nuovi calendari per segnare l’inizio di un altro tempo, e dal lato opposto l’utopia tecnico-scientifica che affida all’uomo il dominio sul dolore, la cui soluzione un tempo era affidata a Dio.

C’è consequenzialità nel neopaganesimo contemporaneo. La morte di Dio non ha lasciato solo orfani, ma anche eredi. Le filosofie del progresso e le ideologie della rivoluzione grondano di questo tempo nuovo e del disprezzo del tempo presente, che deve essere comunque oltrepassato.

Che ne è a questo punto del dolore in una società percorsa, come dice Natoli “da un neopaganesimo senza tragedia e da una soteriologia senza fede”?60 Lo scenario dell’epoca presente è governato da un nuovo termine di mediazione che è la tecnica, la quale si offre come orizzonte entro cui il dolore può venire a espressione e trovare parola.

Ma la tecnica è dominio. E siccome non si può dominare se non esercitando un effettivo controllo che a sua volta richiede competenza, in nome della competenza accade la più radicale rimozione del dolore che la storia abbia mai conosciuto.

Il dolore infatti è sempre il dolore degli altri, non nel senso che sono gli altri a soffrirlo, ma nel senso che il malato, il sofferente, il morente, per competenza, viene affidato ad altri. Così le procedure terapeutiche sottraggono il dolore a ogni sguardo e a ogni possibile circolazione, perché in un mondo scientifico e tecnico o la comprensione si realizza attraverso la competenza, o è pietà impotente se non addirittura ridondante e patetica. Così il principio della competenza cede ad altri il peso del dolore, lo isola, lo tiene a quella distanza che, essendo tecnica, è anche in grado di esonerare dal senso di colpa chi affida il malato al competente tecnico.

Per questa ragione chi dal dolore non è temporaneamente colpito, lo evita restando dov’è, senza neppure il sentimento della paura o il debito del rimorso. Infatti non si può temere ciò da cui ci si può tenere lontani, e non si può avere alcun rimorso per ciò che non è in nostro potere di fare. In questo modo, consentendo la delega, la tecnica favorisce la fuga che, a chi fugge, appare legittima perché monetizzata: le terapie, infatti, si pagano.

Ma il dolore rimosso e non più in visione rompe la congiura del silenzio e si inserisce in quel sospetto dell’anima che il linguaggio comune chiama ansia. Le barriere si rompono, ma la tecnica, che non può smentire se stessa, ricostruisce quelle forme di consolazione tecniche che oggi sono diffuse e monetizzate come psicoterapie, dove l’ansia viene canalizzata e neutralizzata nella parola, che non è più parola di tragedia o parola di fede, ma parola tecnica.

La liquidazione del tragico ha fondamentalmente messo fuori gioco la convinzione che la vita è insieme crudeltà e bellezza, guerra tra molte vite, dove alcune riescono e tante periscono. La tradizione giudaico-cristiana ha enfatizzato la possibilità di una vita senza dolore, insinuando l’idea che il dolore può essere separato dalla vita. La tecnica ha mandato in porto questo progetto, ha cambiato la natura del dolore: non più l’eroe tragico che conosceva il dolore e, sia pure carico di ferite, ne usciva vincitore, ma l’uomo medio che vive l’ansia del dolore possibile, incondivisibile, da rimuovere a opera del sofferente stesso, che non vuol farsi interrogare dall’altro sul suo dolore, per non incontrare parole patetiche di consolazione.

Ma che ne sarà di un’umanità che vive e si alimenta di una metodica rimozione del dolore? Quali possono essere i riflessi sulla vita se il dolore è a essa consustanziale? Che tipo d’uomo si va preparando quando le parole del dolore sono affidate alla competenza e alla tecnica, che per di più sono incapaci di cogliere il dolore, perché vedono solo il male? Non è allora proprio ciò che offre sicurezza a generare oggi il rischio, e a diffondere, dopo un primo rasserenamento, una sostanziale inquietudine?

Sono queste alcune domande che nascono dal pensare la psicologia nell’età della tecnica. Le riflessioni qui svolte sono solo un avvio. Resta ancora molto da pensare. Ma prima di tutto resta da pensare se le categorie che finora abbiamo impiegato per descrivere l’uomo sono ancora idonee per questo evento assolutamente nuovo, in cui l’umanità, come storicamente l’abbiamo conosciuta, fa esperienza del suo oltrepassamento. Nietzsche, che sulla figura dell’oltre-passamento (Über-schreitung) ha giocato i suoi dadi, giusto un secolo fa avvertiva:

Tutto è ben fermo e saldo al di sopra della corrente, tutti i valori delle cose, i ponti, i concetti, il “bene” e il “male”: tutto ciò è saldo! [...] “In fondo tutto sta fermo”, ecco una vera dottrina invernale, buona per un periodo sterile, una valida consolazione per coloro che d’inverno cadono in letargo e si rannicchiano accanto alle stufe. “In fondo tutto sta fermo”: ma contro di ciò predica il vento del disgelo!61

E allora, per bocca di Zarathustra:

Se in me è quella voglia di cercare, che spinge le vele verso terre non ancora scoperte, se nel piacere è un piacere di navigante. Se mai gridai giubilante: “la costa scomparve, – ecco anche la mia ultima catena è caduta – il senza-fine mugghia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo, orsù! coraggio! vecchio cuore!”.62

Se l’età della tecnica ha segnato il superamento del “presupposto umanistico”, dove tutto è pensato a partire dalla centralità dell’uomo, anche la psicologia del profondo, che gronda di questo presupposto, dovrà rivedere radicalmente se stessa.

5. Il presupposto umanistico della psicoanalisi e il suo declino nell’età della tecnica

Se evitiamo di considerare il disagio avvertito nella civiltà della tecnica come semplice proiezione irrazionale di problemi psicologici personali, che cosa può dire la psicoanalisi a chi denuncia quel tipo di disagio che nasce dall’aver compreso che la razionalità tecnica, dopo aver ridotto tutto a semplice strumento, è incapace di indicare fini ultimi all’esistenza umana?

La psicoanalisi non dice nulla e non può dire assolutamente nulla, perché l’immagine di “psiche” di cui dispone è costruita sull’immagine dell’uomo pre-tecnologico, il cui agire è motivato da un fine e proiettato su un senso che ha in vista la costruzione delle migliori condizioni possibili di civiltà, ottenibili attraverso un bilanciato equilibrio tra felicità e sicurezza.

Ma nell’età della tecnica questo equilibrio è stato spostato ben al di là dei conflitti che possono sorgere dalla repressione dell’inconscio pulsionale, perché, come abbiamo visto, un altro inconscio si è affacciato: l’inconscio tecnologico, che la psicoanalisi aveva intuito, ma in nessun modo affrontato, perché ciò avrebbe significato mettere in questione il suo presupposto di base che prevede l’ordine pulsionale come unico orizzonte entro cui definire l’umano.

Riducendo il disagio della civiltà alla repressione delle pulsioni, Freud riproduce a livello psichico la condizione storica dell’uomo pre-tecnologico, dove la lotta servo-signore, illustrata da Hegel nella Fenomenologia dello spirito,63 è riprodotta pari pari dalla contrapposizione illustrata da Freud, ne Il disagio della civiltà, tra Super-Io ed Es. E come la storia dell’uomo pre-tecnologico è caratterizzata dall’emancipazione del servo nei confronti dell’arbitrio del signore, così, scrive Freud:

Lo studio e la terapia delle nevrosi ci conducono a muovere due rimproveri al Super-Io individuale: esso si preoccupa troppo poco, nella severità dei suoi imperativi e divieti, della felicità dell’Io, in quanto non tiene abbastanza conto delle esigenze contro l’ubbidienza: della forza pulsionale dell’Es in primo luogo, e, inoltre, delle difficoltà del mondo circostante reale. Quindi siamo spesso obbligati, per i nostri intenti terapeutici, a combattere il Super-Io, e ci sforziamo di ridurre le sue pretese. Obiezioni del tutto analoghe possiamo sollevare contro le esigenze etiche del Super-Io della civiltà. Anch’esso non si preoccupa abbastanza degli elementi di fatto nella costituzione psichica degli esseri umani; emana un ordine e non si domanda se sia possibile eseguirlo. Presume, anzi, che l’Io dell’uomo sia psicologicamente in grado di sottostare a qualsiasi richiesta, che l’Io abbia un potere illimitato sull’Es. Questo è un errore, e anche negli uomini cosiddetti normali la padronanza dell’Es non può superare certi limiti. Esigendo di più, si produce nell’individuo la rivolta o la nevrosi, e lo si rende infelice.64

Come si può vedere, l’infelicità qui descritta da Freud è l’infelicità tipica dell’uomo pre-tecnologico, dove il servo aveva nel signore il suo antagonista, e il signore lo aveva nel servo. Ma nell’età della tecnica non ci sono più né servi né signori, ma solo le esigenze di quella rigida razionalità a cui devono subordinarsi sia i servi sia i signori.

La prepotenza del Super-Io, come la prepotenza del signore, appaiono all’uomo dell’età della tecnica come figure di un passato romantico, dove la vita dell’uomo trovava il suo senso nella lotta per il reciproco riconoscimento, che avveniva in uno spazio antropologico tra soggettività contrapposte.65

Oggi questo spazio è stato dissolto dall’apparato tecnico, che si incarica anche di distribuire il riconoscimento a misura di chi meglio interpreta le esigenze dell’apparato, le quali, essendo esigenze puramente funzionali, premiano chi “meglio funziona”, chi meglio interpreta, nell’universo strumentale dischiuso dalla tecnica, il proprio ruolo di “mero strumento”.

Altro che “severità del Super-Io” e “forza pulsionale dell’Es”. Nell’età della tecnica il gioco è completamente mutato. E “la lotta tra individuo e società”, che Freud con tanta chiarezza vede come “ostilità tra due processi costretti a disputarsi il campo l’un l’altro”, non è più, come ancora ritiene Freud, “un contrasto presumibilmente insanabile tra due pulsioni primarie”,66 ma tra due modi diversi di conferire senso all’esistenza individuale e collettiva: un modo che, per soddisfare le esigenze della tecnica, deve essere rigorosamente strumentale e funzionale, e un modo che, per rispondere alle esigenze dell’individuo, deve sporgere dalla pura strumentalità e funzionalità e scorgere una minima apertura di senso.

Il regime sempre più rigoroso della razionalità richiesta dalle esigenze della tecnica, rimuovendo ogni senso che non si risolva nella pura funzionalità ed efficienza, è in grado di imporre a ogni individuo lo stesso codice. Per questo genere di imposizione non è necessaria la forza, perché sarà lo stesso individuo, a cui è stata ristretta, quando non abolita, l’apertura di senso, a scegliere tra i sensi che la razionalità della tecnica gli mette a disposizione, in modo che ogni processo di individuazione avvenga nel reticolato predisposto. Freud, nella conclusione del suo saggio su Il disagio della civiltà, sembra averne il sospetto:

Accingendomi a concludere c’è una domanda, però, che mi è difficile scartare. Se l’evoluzione della civiltà è tanto simile a quella dell’individuo e se usa i suoi stessi mezzi, non è forse lecita la diagnosi che alcune civiltà, o epoche civili – e magari l’intero genere umano – sono divenuti “nevrotici” per effetto del loro stesso sforzo di civiltà?67

Ma poi la cautela prende il sopravvento in Freud, che così stempera la sua intuizione anticipatrice:

Non voglio dire che un simile tentativo di applicare la psicoanalisi alla comunità civile non avrebbe senso o sarebbe condannato alla sterilità. Ma bisognerebbe andare molto cauti, non dimenticare mai che in fin dei conti si tratta solo di analogie, e che è pericoloso, non solo con gli uomini ma anche con i concetti, strapparli dalla sfera in cui sono sorti e si sono evoluti. La diagnosi di nevrosi collettive si imbatte poi in una difficoltà particolare. Nella nevrosi individuale l’impressione di contrasto suscitata dal malato sullo sfondo del suo ambiente considerato “normale” ci offre un immediato punto di riferimento. Un simile sfondo verrebbe a mancare in una massa tutta ugualmente ammalata e dovrebbe essere cercato altrove. Quanto poi all’applicazione terapeutica della comprensione raggiunta, a che cosa gioverebbe un’analisi, sia pure acutissima, delle nevrosi sociali, visto che nessuno possiede l’autorità di imporre alla massa una cura siffatta? Nonostante tutte queste difficoltà, aspettiamoci pure che un giorno qualcuno si arrischi a lavorare su questa patologia delle comunità civili.68

Un contributo alla “patologia delle comunità civili” lo offre Jung, là dove dice, come già abbiamo ricordato, che:

La norma diventa sempre più superflua in un orientamento collettivo della vita, e con ciò la vera moralità va in rovina. Quanto più l’uomo è sottoposto a norme collettive, tanto maggiore è la sua immoralità individuale.69

Si tratta di un’immoralità che non ha nulla a che fare con l’ordine delle pulsioni, ma con la rinuncia a mantenere la propria apertura di senso oltre e al di là dei significati consentiti dall’ordine codificato. La via da percorrere è indicata da Jung in quel nesso che compone il processo di individuazione alla funzione trascendente, e la funzione trascendente al simbolo. Questo nesso ha la sua articolazione in quel rinvio esplicito che Jung stesso stabilisce tra le definizioni di “Individuazione” e di “Simbolo”. Nella prima leggiamo:

Il processo di individuazione è strettamente connesso con la cosiddetta funzione trascendente, in quanto mediante questa funzione vengono date quelle linee di sviluppo individuali che non potrebbero mai essere raggiunte per la via già tracciata da norme collettive (vedi la voce “Simbolo”).70

Sotto la voce “Simbolo”, Jung riconduce l’ulteriorità di senso, promossa dalla funzione trascendente all’interno di un processo di individuazione, all’atteggiamento simbolico definito come:

L’emanazione di una determinata visione del mondo che attribuisce agli accadimenti, ai grandi come ai piccoli, un senso, e a questo senso attribuisce un determinato valore, maggiore di quello che è solito essere ascritto alla realtà di fatto, così come si presenta. A questa visione del mondo se ne contrappone un’altra che mette sempre l’accento sulla realtà pura e semplice e che subordina il significato ai fatti. Per quest’ultima non esistono simboli, perché il simbolismo dipende esclusivamente dal modo di osservare.71

Promuovendo, con la visione simbolica del mondo, quell’ulteriorità di senso che è poi “il senso maggiore di quello che è solito essere ascritto alla realtà di fatto, così come si presenta”, Jung indica la via che potrebbe essere percorsa per sottrarsi al controllo e al dominio sotteso alla razionalità della tecnica, alla funzionalità del suo linguaggio, all’efficientismo della sua etica a sfondo conformista, offrendo all’individuo possibilità esistenziali non previste dal rigore della razionalità.72

Ma che cosa si incontra sulla via indicata da Jung? Dèi ed eroi, quindi la preistoria dell’uomo. Un passo indietro rispetto a Freud. Se infatti il “rimedio” di Freud rispondeva a un’immagine della psiche costruita sul processo storico di emancipazione dell’umanità, che Hegel aveva emblematicamente descritto nella dialettica servo-signore, il “rimedio” di Jung risponde a un’immagine della psiche costruita sulla preistoria dell’umanità, quasi che nella preistoria fosse nascosta quella verità segreta e inaudita che sfugge all’intelligenza del pensiero razionale. E allora, attraverso i sentieri della mitologia, della religione, della teosofia, dell’esoteria, della cabbala, della magia e dell’astrologia, si percorre la storia all’indietro, per trovare laggiù, in scrigni ben serrati di cui solo alcuni detengono le chiavi, quei tesori illuminanti il senso della nostra storia e della nostra vita.

Squarciando il mistero, si farebbe luce su quell’antica ed eterna verità che il linguaggio simbolico custodirebbe come “senso profondo” dell’universo e dell’uomo. In tutto ciò neppure il sospetto che il linguaggio simbolico sia semplicemente un linguaggio che non si è ancora sollevato alla pura universalità del concetto razionale, e che quindi non sia idoneo a quella comunicazione per tutti che è propria del concetto.73

Come opportunamente scrive Carlo Sini: “Il simbolo è il corposo del concetto, o il suo residuo sensibile”.74 Se questa ipotesi ha una sua plausibilità, nel simbolo non si nasconde alcun mistero, solo un’insufficienza espressiva, un gesto ancora legato alla materialità corporea che è solo la fonte di ogni segno e di ogni di-segno.

Essere più vicini alla fonte non significa custodire qualcosa di “originario”, ma essere semplicemente all’inizio di un processo: la storia, che si compie facendosi, e non abolendola per dissetarsi alla fonte. All’inizio c’è solo l’avvio, e non il senso nascosto, o il silenzio custodito da ciò che in seguito si dispiegherà. E solo il rifiuto del mondo che viviamo può far ritenere che il mondo antico, con il suo corredo di simboli, disponga di segni più veri. Ma rifiuto e nostalgia sono i moti dell’anima di chi disabita il mondo che per sorte si trova ad abitare, non sono certo criteri di giudizio, né tanto meno sentieri di verità.

Se non sapranno emanciparsi dal presupposto umanistico che, nell’età pre-tecnologica, ha condizionato il loro atto di nascita e la costruzione dei loro edifici, nell’età della tecnica le psicologie del profondo verranno rapidamente soppiantate dalle psicologie dell’adattamento che rispondono al nome di “cognitivismo” e “comportamentismo”, il cui implicito invito è di essere sempre meno se stessi e sempre più congruenti all’apparato.

Il cognitivismo, infatti, invita ad aggiustare le proprie idee e ridurre le proprie “dissonanze cognitive”75 in modo da armonizzarle all’ordinamento funzionale del mondo; il comportamentismo ad adeguare le proprie condotte, indipendentemente dai propri sentimenti e dalle proprie idee che, se difformi, sono tollerati solo se confinati nel privato e coltivati come tratto “originale” della propria identità, purché non abbiano ricadute pubbliche.76

Si viene così a creare quella situazione paradossale in cui l’“autenticità”, l’“essere se stesso”, il “conoscere se stesso”, che l’antico oracolo di Delfi indicava come la via della salute dell’anima (gnôthi seautón), diventa, nel regime della funzionalità dell’età della tecnica, qualcosa di patologico, come può esserlo l’esser centrati su di sé (self-centred), la scarsa capacità di adattamento (poor adaptation), il complesso di inferiorità (inferiority complex). Quest’ultima patologia lascia intendere che è inferiore chi non è adattato, e quindi che “essere se stesso” e non rinunciare alla specificità della propria identità è una patologia.

E in tutto ciò c’è anche del vero, nel senso che sia il cognitivismo sia il comportamentismo, in quanto psicologie del conformismo, assumono come ideale di salute proprio quell’esser conformi che, da un punto di vista esistenziale, è invece il tratto tipico della malattia. Dal canto loro i singoli individui, interiorizzando i modelli indicati dal cognitivismo e dal comportamentismo, respingono qualsiasi processo individuativo che risulti non funzionale all’apparato tecnico.

In questo modo le psicologie a orientamento cognitivista e comportamentista perdono il loro oggetto specifico che è la “psiche”, e gli individui “perdono l’anima”, realizzando quell’armonia prestabilita di leibniziana memoria che, improbabile tra “monadi senza porte e senza finestre”,77 viene attuata tra monadi esposte l’una all’altra, perché sono cadute le pareti che separano il “dentro” dal “fuori”, così come quelle che consentono di distinguere un individuo da un altro individuo.78

L’apparato tecnico, infatti, per le sue esigenze di funzionalità, che sono poi le condizioni della sua esistenza, necessita non solo dell’“esposizione” dell’anima, con conseguente sua omologazione, ma anche della sua “depsicologizzazione”, in modo da risolvere quella “trascendenza interna” o binnen-Transzendenz, come la chiama Günther Anders,79 che non è solo l’inconscio che fa la differenza tra individuo e individuo, ma lo stesso principio di individuazione, che ha la sua radice in quel fatto ontologico per cui ogni uomo è per principio un discretum, un che di separato, come riserva di significati propri che resistono all’omologazione.

Anche agli occhi dell’apparato tecnico, per il quale il modello perfetto è la macchina, questa “trascendenza interna” dell’anima appare come qualcosa di non funzionale che impedisce all’uomo, che già funziona come una macchina, di funzionare “perfettamente” come una macchina. L’individuazione, che ha nella trascendenza interna la sua radice, è un ostacolo all’esigenza totalitaria implicita nella tecnica, non per ragioni di potere, ma per ragioni di funzionalità.

Guardando il mondo dal punto di vista della funzionalità, per la tecnica non dovrebbe esistere nulla di “discreto”, nulla di “autonomo”, di “privato”, di “intimo” in senso psicologico, nulla di “inconscio”.

E come l’azione terapeutica della psicoanalisi esige un’alleanza con l’Io del paziente, con la sua parte conscia e razionale, così l’apparato tecnico, oltre a irrompere con “indiscrezione” nella parte “discreta” dell’individuo attraverso test, questionari, campionature statistiche, sondaggi d’opinione, indagini di mercato, elezioni, referendum, esige che sia lo stesso individuo a consegnare la sua interiorità, la sua parte discreta, rendendo pubblici le sue emozioni, le sue sensazioni, i suoi sentimenti, secondo quei tracciati di “spudoratezza” che vengono acclamati come espressioni di “sincerità”. Si raggiunge così quello che Freud chiama “la miseria psicologica della massa” i cui tratti sono così descritti:

Oltre agli obblighi cui siamo preparati, concernenti la restrizione pulsionale, ci sovrasta il pericolo di una condizione che potremmo definire “la miseria psicologica della massa”. Questo pericolo incombe maggiormente dove il legame sociale s’è stabilito soprattutto attraverso l’identificazione reciproca dei vari membri [...]. La presente condizione della civiltà americana potrebbe offrire una buona opportunità per studiare questo temuto male della civiltà. Ma evito la tentazione di addentrarmi nella critica di tale civiltà; non voglio destare l’impressione che io stesso ami servirmi dei metodi americani.80

Come espressione più alta della civiltà della tecnica, l’America non è solo una nazione, ma la forma di una nuova antropologia, dove l’uomo non si riconosce se non come funzionario della razionalità tecnica. Nata per superare la distanza che intercorre tra il bisogno e la sua soddisfazione, nata per render presente l’assente, la tecnica, oggi, trattando ogni scopo come mezzo per uno scopo ulteriore, ha a tal punto dilatato la distanza da render presente solo l’assenza di scopi ultimi, e la psiche umana, che era in grado di riconoscere se stessa soltanto all’interno di un orizzonte di senso, vive percorsa solamente dall’angoscia di sopprimere la distanza che la separa da quell’orizzonte che, nell’età della tecnica, appartiene solo al repertorio della sua memoria, di cui l’Europa forse, e ancora non si sa fino a quando, resta l’ultima debole custode.

1 C.G. Jung, Der Gegensatz Freud und Jung (1929); tr. it. Il contrasto tra Freud e Jung, in Opere, Boringhieri, Torino 1969-1993, vol. IV.

2 S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur (1929); tr. it. Il disagio della civiltà, in Opere, Boringhieri, Torino 1968-1993, vol. X, pp. 627-628.

3 C.G. Jung, Psychologische Typen (1921); tr. it. Tipi psicologici, in Opere, cit.,vol. VI, p. 464.

4 S. Freud, Il disagio della civiltà, cit., p. 602.

5 H. Marcuse, Eros and Civilisation. A philosophical Inquiry into Freud (1955-1966); tr. it. Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1968, p. 33.

6 S. Freud, Il disagio della civiltà, cit., p. 586.

7 L. Binswanger, Erinnerungen an Sigmund Freud (1956); tr. it. Ricordi di Sigmund Freud, Astrolabio, Roma 1971, pp. 82-83.

8 S. Freud, Il disagio della civiltà, cit., p. 626.

9 C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., pp. 464-465.

10 G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen. II: Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter der dritten industriellen Revolution (1980); tr. it. L’uomo è antiquato, vol. II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale (1980), Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 1.

11 Per una storia della nozione di “individuo” nella cultura occidentale si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, capitolo 48: “L’individuo e la sua illusione”.

12 Sul passaggio dal concetto di “sostanza” al concetto di “funzione” si veda S. Natoli, Identità e differenza (1983), in Teatro filosofico, Feltrinelli, Milano 1991, p. 176.

13 F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie derZukunft (1886); tr. it. Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, in Opere, Adelphi, Milano 1972, vol. VI, 2, capitolo III, § 54, p. 60.

14 Id., Nachgelassene Fragmente 1884-1885; tr. it. Frammenti postumi 1884-1885, in Opere, cit., 1975, vol. VII, 3, fr. 35 (35), maggio-luglio 1885, p. 203.

15 M. Trevi, Per uno junghismo critico, Bompiani, Milano 1987, p. 111.

16 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1879-1881; tr. it. Frammenti postumi 1879-1881, in Opere, cit., 1983, vol. V, fr. 6 (441), pp. 519-520.

17 S. Natoli, Soggettività e oggettività. Appunti per un’interpretazione dell’antropologia occidentale (1886), in Vita buona vita felice, Feltrinelli, Milano 1990.

18 F. Nietzsche, Götzendämmerung oder: Wie man mit dem Hammer philosophiert (1889); tr. it. Crepuscolo degli idoli, ovvero: come si filosofa col martello, in Opere, cit., 1970, vol. VI, 3, p. 76. Il testo di Nietzsche, che ha per titolo: “Come il ‘mondo vero’ finì per diventare favola”, al § 6 recita: “Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? forse quello apparente? Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente! (Mezzogiorno; momento dell’ombra più corta; fine del lunghissimo errore, apogeo dell’umanità; Incipit Zarathustra)”.

19 Per un approfondimento di questa tematica si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 49: “La funzionalità come forma dell’identità”.

20 M. Horkheimer, Eclipse of reason (1947), edizione tedesca: Zur Kritik der instrumentellen Vernunft (1967); tr. it. Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino 1969, p. 126.

21 R. Madera, Identità e feticismo. Forma di valore e critica del soggetto: Marx e Nietzsche, Moizzi, Milano 1977, p. 112.

22 K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Oekonomie (1867-1883); tr. it. Il capitale. Critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1964, Libro I, Sezione I, capitolo II, pp. 117-118.

23 Ivi, Libro I, Sezione I, capitolo I, p. 105.

24 G.W. Leibniz, Principes de philosophie ou Monadologie (1714); tr. it. Principi di filosofia o Monadologia, in Opere, Utet, Torino 2000, vol. III.

25 R. Madera, Identità e feticismo. Forma di valore e critica del soggetto: Marx e Nietzsche, cit., p. 103. Significative sono, in questo libro, le pagine che Madera dedica al tema della “personificazione”, e in particolare, nella Parte I, il capitolo 4 che ha per titolo: “Reificazione e personificazione: il circolo vizioso e implacabile del nichilismo”, pp. 89-154.

26 Il motivo della “maschera sociale” è uno dei temi ricorrenti negli scritti di C.G. Jung, che nei Tipi psicologici, cit., p. 417, scrive: “Con ragione si può trattare la questione della dissociazione della personalità anche come un problema di psicologia normale, quando un uomo non è propriamente individuale, ma collettivo, cioè in consonanza con le circostanze e le aspettative generali. Se fosse individuale avrebbe, nonostante ogni varietà di atteggiamento, sempre il medesimo carattere. Egli non sarebbe identico con l’atteggiamento assunto di volta in volta e non potrebbe né vorrebbe impedire alla sua individualità di esprimersi in qualche modo nell’una come nell’altra situazione. Di fatto egli è individuale come ogni essere, ma inconsciamente. Attraverso la sua identificazione più o meno completa con l’atteggiamento del momento egli inganna per lo meno gli altri, sovente anche se stesso, circa il suo vero carattere; assume una maschera, conscio che essa corrisponde da un lato alle sue intenzioni, dall’altro alle esigenze e alle opinioni del suo ambiente: e in ciò prevale ora l’uno ora l’altro fattore. Questa maschera, cioè questo atteggiamento assunto ad hoc, io l’ho chiamato Persona, dal nome della maschera che mettevano gli attori dell’antichità”.

27 Per ulteriori approfondimenti su questo tema si veda U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima (1987), Feltrinelli, Milano 2001, capitolo 4: “L’esperienza politica: l’anima come ciò che è comune”.

28 S. Natoli, Soggettivazione e oggettività. Appunti per un’interpretazione dell’antropologia occidentale, cit., pp. 28-29.

29 Ivi, pp. 29-30.

30 Per un adeguato svolgimento di questo tema si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 50, § 6: “La tecnica e il potenziamento della libertà di ruolo”.

31 R. Rolland, Lettera a Freud del 5 dicembre 1927, in S. Freud, Lettere 1873-1939, Boringhieri, Torino 1960, p. 357.

32 S. Freud, Il disagio della civiltà, cit., pp. 559-561.

33 Ivi, pp. 558-559.

34 Ivi, p. 559.

35 Ibidem.

36 Ivi, pp. 559-560.

37 Ivi, p. 560.

38 Ibidem.

39 Ibidem.

40 Ivi, p. 561.

41 J.G. Fichte, Über den Begriff der Wissenschaftslehre oder der sogenannten Philosophie (1794); tr. it. Dottrina della scienza, Laterza, Bari 1993, p. 106: “L’Io pone se stesso come determinato dal Non-Io (Das Ich setzt sich selbst als bestimmt durch das Nicht-Ich)”.

42 Come è noto per Schopenhauer l’immagine che l’individuo ha di se stesso è una rappresentazione fenomenica della volontà irrazionale che, come cieca pulsione (blinder Trieb) opera, attraverso la sessualità, a vantaggio della specie, ingannando gli individui con la seduzione del piacere. Si tratta, scrive A. Schopenhauer, in Die Welt als Wille und Vorstellung (1819); tr. it. Il mondo come volontà e rappresentazione, Mursia, Milano 1969, Libro II, § 23, p. 153, di “una volontà che non manca di operare ciecamente, in tutte le funzioni del corpo che non sono governate dalla conoscenza: in tutti i processi vitali e vegetativi, nella digestione, nella circolazione del sangue, nella secrezione, nell’accrescimento, nella riproduzione. Non soltanto le azioni del corpo, ma il corpo tutto intero è fenomeno della volontà, volontà oggettivata, volontà concreta: di conseguenza, tutto ciò che si produce nel corpo deve scaturire dalla volontà; benché da una volontà non guidata da conoscenza, né regolata da motivi, ma che opera ciecamente in virtù di cause che si chiamano in questi casi eccitazioni”.

43 Si veda a questo proposito U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, cit., capitolo 18: “Sessualità e follia”, pp. 171-188.

44 O. Rank, Das Trauma der Geburt (1924); tr. it. Il trauma della nascita, Guaraldi, Rimini 1972.

45 S. Freud, Hemmung, Symptom und Angst (1626); tr. it. Inibizione, sintomo e angoscia, in Opere, cit., vol. X, p. 243.

46 Ibidem.

47 Id., Abriss der Psychoanalyse (1938); tr. it. Compendio di psicoanalisi, in Opere, cit., vol. XI, pp. 575-576.

48 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927); tr. it. Essere e tempo, Utet, Torino 1978, § 9, p. 106: “L’essenza dell’Esserci consiste nella sua ek-sistenza”.

49 Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 49: “La funzionalità come forma dell’identità”.

50G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, I: Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution (1956); tr. it. L’uomo è antiquato, vol. I: Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 57-120.

51 Ivi, p. 93.

52 Eschilo, Prometeo incatenato, in Tragedie e frammenti, Utet, Torino 1987, vv. 443-444.

53 Ivi, v. 514.

54 Per un ampio commento a questo passo di Eschilo si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., Parte I: “Simbologia della tecnica: la scena del Caucaso”, pp. 49-86.

55 Si veda a questo proposito ivi, capitolo 45: “Tecnica e natura: il capovolgimento di un rapporto”.

56 S. Freud, Das Unheimliche (1919); tr. it. Il perturbante, in Opere, cit., vol. IX, pp. 77-118.

57 M. Heidegger, Gelassenheit (1959); tr. it. L’abbandono, il Melangolo, Genova 1983, p. 36.

58 S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1986.

59 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1883-1885); tr. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, cit., 1968, vol. VI, 1, p. 6.

60 S. Natoli, Neopaganesimo (1991), in I nuovi pagani. Neopaganesimo: una nuova etica per forzare le inerzie del tempo, il Saggiatore, Milano 1995, p. 56.

61 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., “Di antiche tavole e nuove”, pp. 245-246.

62 Ivi, “I sette sigilli”, p. 281.

63 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (1807); tr. it. Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1963, vol. I, capitolo IV, A: “Indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza: signoria e servitù”, pp. 143-152.

64 S. Freud, Il disagio della civiltà, cit., p. 628.

65 Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 51, § 1: “Identità e riconoscimento”.

66 S. Freud, Il disagio della civiltà, cit., pp. 626-627.

67 Ivi, p. 629.

68 Ibidem.

69 C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., “Definizioni”, p. 464.

70 Ivi, pp. 463-464.

71 Ivi, p. 486 (corsivo mio).

72 Id., Zivilisation im Übergang (1918-1959); tr. it. Civiltà in transizione, in Opere, cit., vol. I: “Il periodo fra le due guerre”, vol. II: “Dopo la catastrofe”.

73 Per quanto concerne il passaggio dal linguaggio simbolico a valenza mitica al linguaggio concettuale a valenza razionale si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 38: “La verità come efficacia”.

74 C. Sini, Il simbolo e l’uomo, Egea, Milano 1991, p. 267.

75 L. Festinger, A theory of cognitive dissonance (1956); tr. it. Teoria della dissonanza cognitiva, Franco Angeli, Milano 1973.

76 B.F. Skinner, Science and human behavior (1953); tr. it. La scienza e il comportamento umano, Franco Angeli, Milano 1971.

77 G.W. Leibniz, Principi di filosofia o Monadologia, cit.

78 Per un approfondimento di questo tema si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, capitolo 53, § 2: “La neutralizzazione della differenza tra interiorità ed esteriorità”.

79 G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, cit., p. 201. Per precisare questo concetto G. Anders a p. 415 scrive: “La ‘trascendenza interna’ può venire dimostrata in sistemi del tipo più diverso. Ne fanno parte tutti i processi che oggi vengono classificati ‘inconsci’. La maggior parte dei processi corporei, nonostante si svolgano ‘dentro di noi’, restano non dati e irraggiungibili e perciò ‘trascendenti interni’. Ma ‘trascendenti interni’ restano anche per i viaggiatori aerei, cioè per quei nostri contemporanei abituati a saltare da un punto all’altro del mondo, i territori intermedi sorvolati; oppure, per il musicista, i suoni intermedi che stanno nei passaggi diatonici. Naturalmente, il fatto che questo tipo di trascendenza non sia mai stato preso in considerazione nella filosofia è dovuto all’origine teologica del concetto”.

80 S. Freud, Il disagio della civiltà, cit., p. 603.