8. Il simbolo nella tradizione occidentale
Nel simbolo vanno subito distinti due lati: il significato e la sua espressione. Il primo è una rappresentazione o un oggetto, qualunque ne sia il contenuto, la seconda è un’esistenza sensibile o un’immagine di qualsiasi specie. Il simbolo è innanzitutto un segno. Ma nella semplice designazione, la connessione reciproca che vi è tra il significato e la sua espressione è un legame del tutto arbitrario.
G.W.F. HEGEL, Estetica (1836-1838), p. 402.
La parola “simbolo” deriva dal greco symbállein che significa “mettere assieme”. Nell’antica Grecia era diffusa la consuetudine di tagliare in due un anello, una moneta o qualsiasi oggetto, e darne una metà a un amico o a un ospite. Queste metà, conservate dall’una e dall’altra parte, di generazione in generazione, consentivano ai discendenti dei due amici di riconoscersi. Questo segno di riconoscimento si chiamava simbolo. Platone, riferendo il mito di “Zeus che, volendo castigare l’uomo senza distruggerlo, lo tagliò in due” conclude che da allora “Ciascuno di noi è il simbolo di un uomo (Hékastos oûn emôn estin anthrópou sýmbolon), la metà che cerca l’altra metà, il simbolo corrispondente”.1
Il simbolo, dunque, come il segno, è caratterizzato dal rinvio a qualcos’altro. Ciò ha consentito da un lato di includere il simbolo nell’ordine del segno come un suo caso specifico, dall’altro di opporlo al segno perché, mentre il segno compone in modo convenzionale qualcosa con qualcos’altro (aliquid stat pro aliquo), il simbolo, evocando la sua parte corrispondente, rinvia a qualcosa che non è deciso dalla convenzione, ma o da un’“eccedenza di senso” o dal tentativo di una “ricomposizione di un intero”.
1. Teologia
La teologia è stata il primo grande scenario delle operazioni simboliche, volte a colmare il divario tra la lettera e lo spirito. La storia dell’esegesi prevede, infatti, che la Sacra Scrittura sia fonte infinita di interpretazioni, ma ciò che l’interpretazione scopre deve già trovarsi nella Scrittura.
In questo circolo si aprono due itinerari: quello allegorico che richiede un codice per tradurre le proprie figure in significati socializzabili e comunicabili, e quello simbolico che non può avere codice e resta perciò aperto e disponibile a tutte le proiezioni dell’interprete.
Quando una determinata lettura simbolica si afferma e, da proiezione inizialmente privata, diventa modo comune di vedere e di intendere, allora è la lettura simbolica a fornire le regole di quella allegorica, in caso contrario è il simbolo a essere codificato allegoricamente. Questi due itinerari contraddistinguono l’esperienza mistica da quella codificata della tradizione condivisa. L’alternativa può essere superata se si accetta l’ipotesi di una “simbolica permanente”, suggerita da Pierangelo Sequeri, secondo il quale:
Il simbolo della parola che viene da Dio polarizza un certo numero di parole tramandate su Dio. La parola testimoniale è qui assorbita nella sfera di una simbolica permanente dell’evento rivelatore, assumendo caratteristiche differenziali e irriproducibili rispetto a ogni altra mediazione della fede e a ogni altra ispirazione dello spirito. [...] Ciò significa che il testo in se stesso è muto sino a che non venga parlato (che vuol dire, almeno, letto qui e ora): benché, nella sua testualità, sia pur sempre in grado di opporre resistenza all’arbitraria manipolazione della parola. Proprio questo significa che deve essere custodito e insieme continuamente trasceso. E proprio per questo la parola che si limita a ripeterlo (fondamentalisticamente), identificandolo con la parola-oggetto che materialmente lo scrive, può fargli torto come la parola che lo sostituisce, annullandolo nella parola-soggetto che lo assorbe ingenuamente come proprio discorso.2
2. Fenomenologia della religione
I contributi di Gerardus van der Leeuw, Mircea Eliade, René Guenon e di Henry Corbin, pur nella peculiarità dei rispettivi approdi, convengono nell’individuare nel simbolo un richiamo all’origine, dove resta nascosta e gelosamente custodita: o la verità originaria (Guenon) o la fonte da cui si dischiudono nuovi sensi e nuovi significati, peraltro mai esaustivi (Corbin).
Dal simbolo, come parola originaria, nascono tutte le parole successive che parlano in linea con la parola originaria, ma senza risolverla in sé, per cui ogni discorso sul simbolo è sempre un discorso dal simbolo e nel simbolo, mai il simbolo nel discorso.
In quanto parola originaria entro cui ogni parola, ogni enunciazione esplicita diventa possibile, il simbolo, come ogni leggenda che parla delle origini teogoniche, cosmogoniche o più semplicemente etniche, popolari o personali, dischiude un mondo e le cose che, solo in quanto incluse in quel mondo, sono significanti.
Il simbolo per sé non è significante, il suo modo di dire non è il “significare”, ma l’“indicare”, il “mostrare”, il “far apparire”. Significanti sono le parole in quanto riconducono a ciò che è indicato dal simbolo.
Questo ricondurre, che la tradizione islamica chiama ta’wil, è un ricondursi delle parole sulle vie dischiuse dal simbolo. Il simbolo, da questo punto di vista, non è una rivelazione, una parola che scende dall’alto, ma uno sfondo originario a cui ricondursi. Come scrive Corbin:
Ta’wil significa far ritornare a, ricondurre all’origine e perciò rinvenire il senso vero e originario. Siccome fa giungere una cosa alla sua origine, colui che pratica il ta’wil è uno che distoglie l’enunciato dalla sua apparenza esteriore e lo fa ritornare alla sua verità.3
Praticare il ta’wil, in cui si esprime l’attività simbolica, significa per Corbin: “occultare l’apparente e manifestare l’occulto”.4Un’operazione, questa, che “non si compie a colpi di sillogismi”,5e neppure abbandonando l’essoterico per l’esoterico, ma adunando i due in una composizione simbolica. È vero, infatti, che “l’essoterico è l’apparente, l’evidenza letterale, la legge; mentre l’esoterico è il nascosto”,6ma è pur sempre attraverso ciò che appare, attraverso l’essoterico che si può risalire a ciò che è nascosto. Per Corbin, infatti:
Il simbolo non è un segno artificialmente costruito, ma è ciò che nell’anima spontaneamente si schiude per annunciare qualcosa che non può essere espresso altrimenti. Esso è l’unica espressione attraverso cui una realtà si fa trasparente all’anima, mentre in se stessa rimane al di là di ogni possibile espressione.7
3. Filosofia
Le prime organiche riflessioni sul simbolo presero avvio nel secolo XIX nel circolo romantico di Heidelberg con Georg Friedrich Creuzer che parla del simbolo come di un’epifania del divino, “come un raggio che giunge dalla profondità dell’essere e del pensiero”.8
La posizione di Creuzer fu condivisa anche da Johann Jakob Bachofen per il quale “il simbolo è qualcosa di in sé concluso e autosufficiente che può offrirsi a varie spiegazioni, restando tuttavia nella sua essenza completamente autonomo da ogni spiegazione”.9Questa posizione non è condivisa da Hegel che, dopo aver confutato la concezione di Creuzer secondo il quale, dice Hegel, “il simbolo è in sé autonomamente concluso e per se stesso sufficiente”,10afferma che:
Simbolo in generale è un’esistenza esterna che è
immediatamente presente o data all’intuizione, ma che non deve
essere presa in base a lei stessa, così come immediatamente si
presenta, bensì in un senso più ampio e universale. Quindi nel
simbolo vanno subito distinti due lati: il significato e la sua espressione. Il primo
è una rappresentazione o un oggetto, qualunque ne sia il contenuto,
la seconda è un’esistenza sensibile o
un’immagine di qualsiasi specie.
Il simbolo è innanzitutto un segno. Ma
nella semplice designazione, la connessione reciproca che vi è tra
il significato e la sua espressione è un legame del tutto
arbitrario. Questa espressione, questa cosa sensibile o questa
immagine rappresenta allora tanto poco se stessa, che essa porta
invece a rappresentazione un contenuto a essa estraneo, con cui non
ha bisogno di avere propriamente nulla in comune.11
Dopo l’età romantica e idealista, incontriamo, tra quanti risolvono il simbolo nel segno, Peirce che distingue:
L’icona che è un segno
che si riferisce all’oggetto che essa denota semplicemente in virtù
di caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico
modo sia che un tale oggetto esista effettivamente, sia che non
esista. [...]
L’indice che è un segno che si
riferisce all’oggetto che esso denota in virtù del fatto che è
realmente determinato da quell’oggetto. Quindi, nella misura in cui
l’oggetto agisce sull’indice, l’indice ha necessariamente qualche
qualità in comune con l’oggetto, ed è rispetto a queste qualità che
l’indice si riferisce all’oggetto.
Il simbolo che è un segno che si
riferisce all’oggetto che esso denota in virtù di una legge, di
solito un’associazione di idee generali, che opera in modo che il
simbolo sia interpretato come riferentesi a quell’oggetto. È
insomma esso stesso un tipo generale di legge, cioè è un Legisegno.
Come tale agisce attraverso una replica. Non soltanto il simbolo
stesso in generale, ma anche l’oggetto al quale esso si riferisce è
di natura generale.12
Da queste definizioni risulta che, per Peirce, il simbolo rientra nell’ordine dei segni, essendo legato all’oggetto, sia pure in modo diverso da come sono legati l’“icona” e l’“indice”. A un’identificazione tra simbolico e semiotico giunge anche E. Cassirer che, partendo dalla premessa kantiana secondo cui la scienza non rispecchia la struttura dell’essere, ma pone i propri oggetti di conoscenza “come simboli intellettuali liberamente creati”, considera l’attività simbolica come produzione delle condizioni di conoscibilità e “il simbolo non come un rivestimento meramente accidentale del pensiero, ma come il suo organo necessario ed essenziale”, per cui: “Ogni pensiero veramente rigoroso ed esatto trova il suo punto fermo solo nella simbolica, nella semiotica, sulla quale esso poggia”.13A questo punto Cassirer riconosce una differenza tra le forme simboliche “di natura concettuale” e le forme simboliche “di natura puramente imitativa”, ma raccoglie queste differenze sotto l’identica categoria del simbolico-semiotico.
Una lettura del simbolo in stretta correlazione con il problema ermeneutico dell’interpretazione è riscontrabile in Paul Ricœur per il quale:
Il simbolo è un segno che, come tutti i segni, mira al di là di qualcosa e insieme vale per questo qualcosa. Ma non ogni segno è simbolo, poiché il simbolo cela nella sua mira un’intenzionalità doppia: vi è innanzitutto l’intenzionalità prima e letterale, che, come ogni intenzionalità significante, suppone il trionfo del segno convenzionale sul segno naturale; sarà la macchia, la deviazione, il peso, parole cioè che non assomigliano alla cosa significata (la colpa). Ma su questa intenzionalità prima si edifica una intenzionalità seconda, che, attraverso la macchia materiale, la deviazione nello spazio, l’esperienza del peso punta a una certa situazione dell’uomo nel sacro: questa situazione, riguardata attraverso il primo grado, è precisamente l’essere macchiato, peccatore, colpevole. Il senso letterale e manifesto punta dunque al di là di se stesso a qualcosa che è come una macchia, come una deviazione, come un peso. Così, all’opposto di segni tecnici perfettamente trasparenti, che dicono solo ciò che vogliono dire ponendo il significato, i segni simbolici sono opachi, perché il senso primo, letterale, patente mira a sua volta analogicamente a un senso secondo che non è dato altrimenti che in quello. Questa opacità è la profondità stessa del simbolo che per sua natura è inesauribile.14
Vicina, ma non identica alla posizione di Ricœur, è la concezione di Virgilio Melchiorre per il quale:
Nel simbolo parla una realtà determinata e in essa, non al di là o accanto, ne traspare un’altra: i due campi non vengono semplicemente fusi, come nella metafora, ma vengono mantenuti a un tempo nella loro distinzione; non vengono comparati a distanza come nell’analogia di rapporto e, in parte, nell’allegoria, ma vengono ricondotti alla loro partecipazione più profonda.15
Sempre in ambito ermeneutico e con particolare riferimento a Heidegger, Gianni Vattimo scrive che:
L’ermeneutica heideggeriana si fonda sul presupposto che ciò che rimane nascosto non costituisce il limite o lo scacco del pensiero, ma anzi il terreno fecondo su cui, solo, il pensiero può fiorire e svilupparsi.16
Contrapponendo l’“interpretazione” all’ideale dell’“esplicitazione totale”, Vattimo guarda alla parola non come a un segno, ma come a un richiamo, quindi in un modo non dissimile da quello con cui i romantici leggevano i simboli. Infatti, secondo Vattimo:
Ciò per cui un pensiero vale non è quello che esso dice, ma quello che lascia non detto, facendolo tuttavia venire in luce, richiamandolo in un modo che non è quello dell’enunciare.17
Per Carlo Sini l’enunciazione trova la sua espressione nel “concetto”, rispetto al quale:
Il simbolo è qualunque segno che sia legato alle prassi corporee, ai grafemi costitutivi e che pertanto non si può sollevare alla pura universalità del per tutti che è propria del concetto.18
Se partiamo da questa distinzione, retrocedere dal concetto al simbolo non significa retrocedere dalla fredda convenzione concettuale all’originaria e mai esaurita fonte della verità, ma semplicemente tornare a un linguaggio che ancora non si è sollevato alla pura universalità, e quindi che non è idoneo alla comunicazione per tutti che è propria del concetto. In questo senso, scrive Sini:
Il simbolo è il corposo del concetto, il suo residuo sensibile. Il concetto come tale, infatti, non tollera alcun segno o disegno, perché esso è uno schema ideale puro, una pura possibilità interiore pragmatica. Ed è così che il concetto può sognare che il simbolo contenga chissà quali verità esoteriche, che esso congiunga l’infinito col finito o il sensibile col soprasensibile (come immaginava Creuzer), oppure può relegarlo nell’ambito delle mere fantasie e analogie psicologiche, nel metaforizzare ingenuo (anche se a suo modo produttivo e necessario per i destini della futura umanità razionale) dei popoli primitivi e dei fanciulli come infine pensano Cassirer, Alleau e la gran moltitudine degli scienziati. Ecco ciò che il concetto pensa e non può non pensare del simbolo, in quanto il concetto riserva per sé (o costruisce per sé) il letterale, il proprio, l’oggettivo, il vero. E simbolico infine diventa anche il linguaggio comune, perché la pragmatica del linguaggio nei suoi nomi comuni è ancora troppo legata ai grafemi corporei, e perciò appare ambigua e impropria, non così monolitica come il puro luogo ideale del concetto, con le sue logiche definizioni da Platone e Aristotele sino alla logica formale moderna, pretenderebbe.19
Diversa è invece la posizione di Umberto Eco che legge il simbolo come una “decisione pragmatica”, nel senso che:
Il modo simbolico presuppone sempre e comunque un processo di invenzione applicato a un riconoscimento. Trovo un elemento che potrebbe assumere o già ha assunto funzione segnica e decido di vederlo come la proiezione di una porzione sufficientemente imprecisa di contenuto. [...] Il modo simbolico è dunque un procedimento non necessariamente di produzione, ma comunque e sempre di uso del testo, che può essere applicato a ogni testo e a ogni tipo di segno, attraverso una decisione pragmatica (“voglio interpretare simbolicamente”), che produce a livello semantico una nuova funzione segnica, associando a espressioni già dotate di contenuto codificato nuove porzioni di contenuto, quanto più possibile indeterminate e decise dal destinatario. Caratteristica del modo simbolico è che, qualora ci si astenga dall’attuarlo, il testo rimane dotato di un senso indipendente a livello letterale e figurativo.20
4. Antropologia
In questo ambito i criteri adottati per delimitare l’ambito del simbolico sono fondamentalmente due: in base al primo appartiene all’ordine simbolico tutto ciò che ha carattere mentale ma non si presenta in termini razionali, in base al secondo appartiene al simbolico tutto ciò che è semantico a eccezione della lingua. Queste due posizioni hanno al loro interno diverse articolazioni che prevedono:
a) Il simbolo come espressione dell’irrazionale. È la tesi sostenuta da Edward Burnett Tylor per il quale le operazioni simboliche espresse dai primitivi sono il frutto di ragionamenti difettosi, di inferenze non giustificate, perché fondate su dati insufficienti a causa “dell’intelligenza ancora rozza e grossolana che si applica ai fatti della vita quotidiana e, con il loro aiuto, modella la trama di una filosofia primitiva”.21Dello stesso avviso è James George Frazer che considera l’ordine simbolico con cui i primitivi legano magicamente le cose tra loro come:
Il prodotto di un’errata associazione di idee, come quella secondo cui il simile produce il simile, o come quella alla base della relazione di simpatia, per cui le cose che sono state una volta in contatto debbano rimanerlo sempre nonostante la loro eterogeneità.22
Per Lucien Lévy-Bruhl, infine, i simboli sono riconducibili al meccanismo che nei primitivi promuove le “rappresentazioni collettive” che Lévy-Bruhl così descrive:
Le rappresentazioni collettive dei primitivi differiscono profondamente dalle nostre idee o concetti, di cui non costituiscono neppure l’equivalente. Da una parte non ne possiedono i caratteri logici; dall’altra, non essendo pure rappresentazioni nel senso proprio della parola esse esprimono, o piuttosto implicano, non soltanto che il primitivo possiede attualmente una rappresentazione dell’oggetto e crede che sia reale, ma anche che egli ne spera o ne teme qualcosa, che una determinata azione emani da esso o si eserciti su di esso. Per cercare di definire con una sola parola questa proprietà generale delle rappresentazioni collettive che occupano un posto tanto importante nell’attività mentale delle società inferiori, dirò che tale attività mentale è mistica. Uso questo termine non con l’allusione al misticismo religioso delle nostre società, che è qualcosa di abbastanza differente, ma nel suo significato letterale per cui con “mistico” si intende la credenza a forze, a influenze, ad azioni impercettibili ai sensi e tuttavia reali. In altri termini la realtà in cui si muovono i primitivi è anch’essa mistica. Non un essere, non un oggetto, non un fenomeno naturale è nelle loro rappresentazioni collettive simile a quello che appare a noi. Sfugge loro oppure gli è indifferente quasi tutto ciò che noi vi scorgiamo. In cambio essi vi notano molte più cose che noi non sospettiamo neanche.23
Per Lévy-Bruhl, quindi, il simbolismo non è tanto il prodotto di una razionalità che fallisce quanto l’espressione della “partecipazione mistica” che prescinde dai principi di causalità e di non contraddizione, per cui:
Mentre per noi la causa e l’effetto sono dati entrambi nel tempo e quasi sempre nello spazio, la mentalità primitiva ammette a ogni istante che uno solo dei due termini sia percepito; l’altro appartiene all’insieme degli esseri invisibili e non percepibili.24
Tutto ciò è da ricondurre al carattere “pre-logico” del pensiero dei primitivi, nel senso che, scrive Lévy-Bruhl:
Quando i primitivi hanno la sensazione viva e netta di una contraddizione non ne sono colpiti meno di noi: è chiaro che la struttura fondamentale dello spirito umano è dappertutto la stessa, rifiutano la contraddizione con la nostra stessa convinzione. Ma uno dei tratti distintivi della loro mentalità consiste precisamente in questo: spesso ciò che per noi è contraddittorio, non pare loro tale e li lascia indifferenti. Sembrano accettare facilmente la contraddizione e, in questo senso, essere “prelogici”.25
b) Il simbolo come segno arbitrario. È la tesi sostenuta da Leslie A. White per il quale “il senso dei simboli deriva e dipende da chi li adopera; gli esseri umani conferiscono un certo significato a fatti o accadimenti che perciò diventano simboli”.26Questa arbitrarietà simbolica viene riconosciuta, ma ridotta da Robert Firth che distingue i “segnali” regolati da un codice comune a emittente e destinatario, dai “simboli” dove “si riscontra una più accentuata mancanza di aderenza, anche forse intenzionalmente, nelle attribuzioni di produttore e interprete”.27Ciò dipende, secondo John Beattie, dal fatto che:
I simboli, a differenza dei segnali, rappresentano o implicano qualche concetto astratto: essi non si riferiscono semplicemente a un fatto o a un oggetto concreto, ma a concetti astratti come il potere, la solidarietà di gruppo, l’autorità familiare o politica, oppure a qualcosa di importante, qualcosa di difficile o impossibile da trasmettere direttamente.28
c) Il simbolo come struttura categoriale. È questa la tesi di Victor Turner che propone di distinguere tre livelli di operazioni simboliche: 1. La significazione esegetica data dal commento indigeno; 2. La significazione operazionale legata all’uso che se ne fa e alla componente affettiva che accompagna questo uso; 3. La significazione posizionale che “dipende dalle relazioni strutturali che alcuni simboli instaurano tra loro”.29
Claude Lévi-Strauss critica l’impostazione di Turner giudicandola “un pio omaggio all’affettività”,30e colloca il simbolo “simultaneamente nel linguaggio e al di là del linguaggio [...] a significare una grande unità costitutiva che ha la natura di una relazione”,31nel senso che mentre l’uso comune del linguaggio utilizza categorie per enunciare delle proposizioni sul mondo, il pensiero simbolico fa uso delle proposizioni sul mondo per stabilire dei rapporti tra categorie. Ma se nel linguaggio simbolico non è rilevante il contenuto, ma la relazione categoriale, le contraddizioni della mentalità primitiva, messe in evidenza da Lévy-Bruhl, si riducono, perché, secondo Lévi-Strauss, a livello categoriale “le forme di contraddizione sono molto meno varie dei loro contenuti empirici”.32
d) Il simbolo come altro dal segno. Questa tesi, che prevede l’irriducibilità dell’ordine simbolico all’ordine semantico è sostenuta, oltre che da Carl Gustav Jung di cui si dirà più avanti, da Raymond Ruyer per il quale:
Il simbolismo, nell’accezione più stretta della parola, fa riferimento a una realtà che trascende la realtà quotidiana di tutti gli uomini. In questo senso il simbolismo rende possibile l’aspetto metafisico della cultura.33
Più netta è la distinzione di Dan Sperber, per il quale l’ordine simbolico è una “memoria enciclopedica” che evoca rappresentazioni là dove il segno concettuale che definisce le cose fallisce:
Il dispositivo simbolico è un dispositivo mentale accoppiato al dispositivo concettuale. [...] Le rappresentazioni concettuali che non hanno potuto essere regolarmente costruite e valutate, costituiscono l’input del dispositivo simbolico. In altri termini, il dispositivo simbolico ha per input l’output difettoso del dispositivo concettuale [...]. Se poi l’evocazione simbolica va a buon fine, se è stata trovata una soluzione valida che permette di dare alla domanda iniziale una risposta univoca, l’evocazione può arrestarsi qui. [...] Ne consegue che l’output del dispositivo simbolico serve da input al dispositivo concettuale; in altri termini il dispositivo simbolico è un meccanismo di feed-back accoppiato al dispositivo concettuale.34
L’irriducibilità del simbolo al segno è sostenuta anche da Lévi-Strauss là dove parla dei “significati fluttuanti” che così descrive:
Presso i primitivi esistono significazioni che sfuggono alla relazione significante/significato, come nel caso della parola mana che significa forza, azione, qualità, stato; sostantivo, aggettivo e verbo a un tempo, astratto e concreto; onnipresente e localizzato. Infatti il mana è tutto questo insieme, e lo è appunto perché non è niente di tutto ciò, ma semplice forma, o, più esattamente, simbolo allo stato puro, suscettibile, perciò, di caricarsi di qualsivoglia contenuto.35
5. Psicoanalisi
In ambito psicoanalitico il simbolo rientra nella categoria dei segni in quanto esiste un rapporto costante e, attraverso l’interpretazione, individuabile tra il simbolo e il simbolizzato. Questa costanza non è affermata solo a livello individuale, ma anche a livello culturale nelle espressioni simboliche del mito, della religione, del folklore e del linguaggio.
a) Sigmund Freud coglie l’essenza del simbolo nel rapporto costante tra l’espressione manifesta di un sogno, di un lapsus, di un sintomo e il suo riferimento latente reperibile a livello inconscio. Questo rapporto costante è fondato sull’analogia, che è reperibile se si individuano le operazioni di “condensazione”, “spostamento” e “sostituzione”, di cui la censura si serve per appagare in modo mascherato un desiderio represso o rimosso. Per l’interpretazione dei simboli esistono secondo Freud due vie: la prima si basa sulle associazioni del sognatore, la seconda, nel caso il soggetto sia incapace di fornire associazioni al riguardo, consiste nell’interpretazione propriamente detta dei simboli. Freud, infatti, ritiene che:
Se anche la censura onirica venisse esclusa, non saremmo ugualmente in grado di comprendere i sogni. [...] Viene in tal modo la tentazione di interpretare questi elementi onirici “muti”, di intraprendere la traduzione con i nostri mezzi. Sta di fatto che ogni qualvolta si osa fare questa sostituzione, si ottiene un senso soddisfacente, mentre finché non ci si decide a questo intervento, il sogno rimane senza senso e il nesso interrotto.36
E ciò è tanto più vero se si considera che:
Il simbolismo non appartiene in modo esclusivo al sogno, ma alla rappresentazione inconscia, soprattutto del popolo, e lo si ritrova più compiuto che nel sogno, nel folklore, nei miti, nelle leggende, nelle locuzioni, nella sapienza dei proverbi e nelle battute popolari correnti.37
È vero che esiste pur sempre la possibilità per il sognatore di affidare all’uso simbolico le cose più varie, ma Freud ritiene che anche queste declinazioni sono più facilmente leggibili in presenza di un codice simbolico che, a partire dai suoi presupposti teorici, Freud si impegna a costruire. E in ciò si distingue da Jung che privilegia l’inesauribilità e quindi l’incodificabilità del materiale simbolico.
b) Sándor Ferenczi, affrontando il problema relativo a come l’umanità ha prodotto i simboli e a come se ne è appropriato il singolo, individua “nell’insufficiente capacità di discernimento propria dell’infanzia la condizione fondamentale per l’insorgere delle fasi preliminari ontogenetiche e filogenetiche dei processi cognitivi”, e aggiunge:
A questo proposito vorrei fare un’obiezione relativa all’uso della parola “simbolo” per denominare tutte quelle fasi cognitive preliminari. Anche paragoni, allegorie, metafore, allusioni, parabole, rappresentazioni indirette di ogni specie possono, in un certo senso, essere interpretati come prodotti di tali confuse distinzioni e definizioni, e tuttavia, in senso psicoanalitico, essi non sono simboli. Simboli in senso psicoanalitico sono soltanto quelle cose (o rappresentazioni) a cui nella coscienza compete un investimento affettivo logicamente inspiegabile e infondato, e delle quali è possibile stabilire per via analitica che debbono tale rilievo affettivo all’identificazione inconscia con un’altra cosa (rappresentazione) a cui, in realtà, quell’eccedenza appartiene. Non tutti i paragoni sono dunque simboli, ma solo quelli in cui uno dei termini dell’equazione è rimosso nell’inconscio.38
c) Ernest Jones e Géza Róheim. Il primo conviene con Ferenczi nell’accogliere la tesi secondo cui:
Viene simboleggiato solo ciò che è rimosso, e solo ciò che è rimosso ha bisogno di essere simboleggiato. Questa conclusione deve essere considerata la pietra di paragone della teoria del simbolismo.39
A partire dalla tesi di Jones, Géza Róheim ritiene che in tal modo si spiega la funzione del simbolo, ma non l’origine, che risiede, invece, nella necessità di trasformare un oggetto potenzialmente pericoloso in oggetto libidico:
Vedere nel serpente un pene costituisce un tentativo di trasformare l’oggetto pericoloso in libidico. In secondo luogo, ovunque ci si trovi di fronte alla necessità di trasmettere un significato, in pari tempo mascherandolo, “serpente” sarà l’equivalente simbolico di “pene”. L’istituzione di tale nesso è di quelle che io definisco “potenzialmente universali”, nel senso che essa sorge su una base universalmente umana che non richiede un tipo specifico di personalità, cultura o nevrosi.40
d) Melanie Klein e Wilfred R. Bion non limitano la nozione di simbolo alla trasformazione in contenuto manifesto di un contenuto latente, ma la estendono agli “oggetti interni”, come ad esempio il seno “buono” e “cattivo”, che, essendosi radicati con un significato profondo nella mente, condizionano la modalità di percepire la realtà esterna. Questo simbolismo originario che Klein connette alla dinamica depressiva e Bion alla tolleranza e al contenimento del dolore, rimane attivo nel generare i processi mentali più evoluti, tra cui la rappresentazione degli oggetti della realtà esterna, anche se non c’è più corrispondenza tra il seno interiorizzato e il seno reale.
e) Jacques Lacan assume l’ordine simbolico come qualcosa di originario a cui rifiuta di assegnare un significato perché, seguendo l’impostazione di de Saussure e di Lévi-Strauss, il significante non rinvia a un significato, ma a un sistema significante caratterizzato da opposizioni differenziali che il singolo soggetto non ha creato, ma in cui, piuttosto, è inserito come nel retaggio della propria storia e della propria cultura, per cui Lacan può dire: “Se l’uomo arriva a pensare l’ordine simbolico è perché vi è anzitutto preso nel suo essere”.41E ancora: “Tutti gli esseri umani partecipano all’universo dei simboli, vi sono inclusi e lo subiscono molto più che non lo costituiscono, ne sono molto più i supporti che gli agenti”.42
Come ordine a cui è sottomessa la comunità umana, il simbolico detta legge agli altri ordini: l’immaginario e il reale che al simbolico si subordinano. D’altra parte, essendo strutturato intorno a una mancanza, il significante simbolico può essere equivocato, in quanto evoca “l’assenza nella presenza e la presenza nell’assenza”.43In ogni caso il desiderio dell’uomo diventa veramente “umano” quando non è più alienato nell’immaginario, ma si riconosce nel simbolico, per cui Lacan può dire:
Se si dovesse definire in quale momento l’uomo diventa uomo, diremmo che è nel momento in cui, per quanto poco, entra nella relazione simbolica.44
6. Psicologia analitica
La distinzione tra segno e simbolo è netta in Jung che in proposito scrive:
A mio modo di vedere il concetto di simbolo va rigorosamente distinto dal concetto di mero segno. Significato simbolico e significato semiotico sono cose completamente diverse. [...] La ruota alata dell’impiegato delle ferrovie non è un simbolo della ferrovia, ma un segno che denota l’appartenenza alla società ferroviaria. Il simbolo, invece, presuppone sempre che l’espressione scelta sia la migliore indicazione o formulazione possibile di un dato di fatto relativamente sconosciuto, ma la cui esistenza è riconosciuta o considerata necessaria. [...] Fintanto che un simbolo è vivo, è espressione di una cosa che non si può caratterizzare in modo migliore. Il simbolo è vivo soltanto finché è pregno di significato. Ma quando ha dato alla luce il suo significato, quando cioè è stata trovata quell’espressione che formula la cosa ricercata, attesa o presentita, ancor meglio del simbolo in uso fino a quel momento, il simbolo muore. [...] Un’espressione proposta per una cosa nota rimane sempre un mero segno e non costituirà mai un simbolo. È perciò assolutamente impossibile creare da connessioni note un simbolo vivo, cioè pregno di significato, giacché ciò che così si crea non contiene mai più di quanto vi è stato messo dentro. [...] Ogni fenomeno psicologico è un simbolo, se si suppone che esso affermi o significhi anche qualcosa di più e di diverso che per il momento si sottrae alla nostra conoscenza. Questa supposizione è senz’altro possibile ovunque vi sia una coscienza orientata verso ulteriori possibili significati delle cose. [...] Che una cosa sia un simbolo o no dipende anzitutto dall’atteggiamento della coscienza che osserva: dall’atteggiamento, ad esempio, di un intelletto, che consideri il fatto dato non solo come tale, ma anche come espressione di fattori sconosciuti. È quindi possibilissimo che un certo fatto non appaia per nulla simbolico a colui che lo ha prodotto, ma che tale invece sembri a un’altra coscienza.45
Da questa esposizione si deduce che per Jung: 1. non esistono contenuti simbolici se non per una coscienza che li instaura; 2. che i simboli sono storici perché, non appena partoriscono il loro significato, cessano di essere simboli e diventano segni; 3. il simbolo non è un significato, ma un’azione che mantiene in tensione gli opposti, dalla cui composizione nascono i processi trasformativi; 4. nel simbolo c’è un’eccedenza di senso verso cui si orienta il processo di trasformazione psichica.
Commentando questa pagina di Jung, Mario Trevi individua la differenza tra il simbolo freudiano e quello junghiano in questi termini:
Mentre la natura del simbolo freudiano si chiarisce nella sua funzione omeostatica (ritrovamento dell’equilibrio turbato attraverso la duplice funzione del veicolare fantasticamente la pulsione e al contempo occultarla), la funzione del simbolo junghiano è per eccellenza ana-omeostatica nel senso che detto simbolo suscita una tensione, invece di annullarla, crea una spinta in avanti, apre un nuovo dislivello energetico, si protende verso un equilibrio che rimane costantemente al di là di esso. Da questo punto di vista, che potremmo chiamare dinamico, si può adeguatamente contrapporre il simbolo freudiano al simbolo junghiano, nel senso che il primo può essere definito sintetico (da synizánein, tornare allo stato di prima) e il secondo può essere al contrario definito metapoietico (da metapoiéin, trasformare).46
1 Platone, Simposio, 191 d.
2 P. Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996, pp. 621, 629.
3 H. Corbin, Avicenne et le récit visionnaire, Département d’Iranologie de l’Institut Franco-Iranien, Librairie d’Amérique et d’Orient, Téhéran-Paris 1954, p. 33. Lo stesso motivo ritorna in Histoire de la philosophie islamique (1964); tr. it. Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1973, p. 28. Per un approfondimento della nozione di ta’wil si veda U. Galimberti, La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo (1984), Feltrinelli, Milano 2001, capitolo 18: “Ta’wil: esegesi del linguaggio simbolico”.
4 H. Corbin, Storia della filosofia islamica, cit., p. 29.
5 Ivi, p. 59.
6 Ivi, p. 29.
7 Id., Avicenne et le récit visionnaire, cit., p. 34.
8 G.F. Creuzer, Symbolik und Mythologie der alten Völker, besonders der Griechen, Heyer und Leske, Leipzig 1819, p. 36.
9 J.J. Bachofen, Mutterrecht (1861); tr. it. Il matriarcato, Einaudi, Torino 1988, p. 16. Si veda a questo proposito anche G.F. Creuzer, “Allgemeine Beschreibung des symbolischen und mythischen Kreises”, in Symbolik und Mythologie der alten Völker, cit.; tr. it. “Simbolica e mitologia. Descrizione generale dell’ambito simbolico e mitico”, Spirali Edizioni, Milano 1983, vol. II; A. Baeumler, “Von Winkelman zu Bachofen der Mythologie der Romantik”, Introduzione a Der Mithos von Orient und Okzident (1926); tr. it. “Da Winkelman a Bachofen”, Spirali Edizioni, Milano 1983, vol. II.
10 G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik (1836-1838); tr. it. Estetica, Feltrinelli, Milano 1963, p. 411.
11 Ivi, p. 402.
12 Ch.S. Peirce, Semiotica (testi tratti da Collected Papers, 1931-1935), Einaudi, Torino 1980, p. 140.
13 E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen (1923); tr. it. Filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze 1966, vol. I, p. 20.
14 P. Ricœur, Le conflict des interprétations (1969); tr. it. Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977, pp. 305-306.
15 V. Melchiorre, L’immaginazione simbolica, il Mulino, Bologna 1972, p. 56.
16 G. Vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Edizioni di Filosofia, Torino 1963, p. 150.
17 Ivi, p. 152.
18 C. Sini, Il simbolo e l’uomo, Egea, Milano 1991, p. 267.
19 Ivi, pp. 267-268.
20 U. Eco, Simbolo, in Enciclopedia, Einaudi, Torino 1981, vol. XII, pp. 910-911.
21 E.B. Tylor, Primitive culture (1871); tr. it. parziale: Lo sviluppo della civiltà, in U. Fabietti (a cura di), Alle origini dell’antropologia, Boringhieri, Torino 1980, p. 70.
22 J.G. Frazer, The golden bough. A study in magic and religion (1911-1915); tr. it. Il ramo d’oro, Boringhieri, Torino 1973, p. 63.
23 L. Lévy-Bruhl, Les fonctions mentales dans les sociétés inférieurs (1910); tr. it. Psiche e società primitive, Newton Compton, Roma 1970, p. 67.
24 Id., La mentalité primitive (1922); tr. it. La mentalità primitiva, Einaudi, Torino 1966, p. 77.
25 Id., La mythologie primitive. Le monde mythique des Australiens et des Papous (1935); tr. it. La mitologia primitiva, Newton Compton, Roma 1973, p. 20.
26 L.A. White, The science of culture (1949); tr. it. La scienza della cultura, Sansoni, Firenze 1969, p. 52.
27 R. Firth, Symbols public and private (1973); tr. it. Simboli pubblici e privati, Laterza, Bari 1977, p. 55.
28 J. Beattie, Other cultures. Aims, Methods and Achievements in Social Anthropology (1972); tr. it. Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale, Laterza, Bari 1975, p. 106.
29 V.W. Turner, The forest of symbols. Aspect of Ndembu ritual (1967); tr. it. La foresta dei simboli, Morcelliana, Brescia 1977, p. 42.
30 C. Lévi-Strauss, Mythologiques IV: L’homme nu (1971); tr. it. Mitologica IV: L’uomo nudo, il Saggiatore, Milano 1974, p. 630.
31 Id., Anthropologie structurale (1958); tr. it. Antropologia strutturale, il Saggiatore, Milano 1966, p. 237.
32 Id., La pensée sauvage (1962); tr. it. Il pensiero selvaggio, il Saggiatore, Milano 1964, p. 110.
33 R. Ruyer, L’animal, l’homme, la fonction symbolique (1964); tr. it. L’animale, l’uomo e la funzione simbolica, Bompiani, Milano 1972, p. 106.
34 D. Sperber, Le symbolisme en général (1974); tr. it. Per una teoria del simbolismo, Einaudi, Torino 1981, pp. 136-139.
35 C. Lévi-Strauss, Introduction à l’œuvre de Marcel Mauss (1950), in M. Mauss, Sociologie et anthropologie (1950); tr. it. Introduzione all’opera di Marcel Mauss, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1965, p. LII.
36 S. Freud, Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse (1915-1917); tr. it. Introduzione alla psicoanalisi, in Opere, Boringhieri, Torino 1968-1993, vol. VIII, pp. 321-322.
37 Id., Die Traumdeutung (1899); tr. it. L’interpretazione dei sogni, in Opere, cit., vol. III, p. 323.
38 S. Ferenczi, Zur Ontogenese der Symbole (1913); tr. it. Sull’ontogenesi dei simboli, in Opere, Raffaello Cortina, Milano 1988-1992, vol. II, pp. 88-89.
39 E. Jones, Papers on Psychoanalysis (1948); tr. it. Teoria del simbolismo. Scritti sulla sessualità femminile e altri saggi, Astrolabio, Roma 1972, p. 106.
40 G. Róheim, Psychoanalysis and anthropology. Culture, personality and the unconscious (1950); tr. it. Psicoanalisi e antropologia, Rizzoli, Milano 1974, p. 37.
41 J. Lacan, Le séminaire sur “La Lettre volée” (1955); tr. it. Il seminario su “La lettera rubata”, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol. I, p. 49.
42 Id., Le séminaire. Livre I. Les écrits techniques de Freud (1953-1954); tr. it. Il seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud, Einaudi, Torino 1978, p. 198.
43 Ivi, p. 196.
44 Ivi, p. 195.
45 C.G. Jung, Psychologische Typen (1921); tr. it. Tipi psicologici, in Opere, Boringhieri, Torino 1969-1993, vol. VI, pp. 483-485.
46 M. Trevi, Il simbolo generatore (1973), in Metafore del simbolo, Raffaello Cortina, Milano 1986, p. 8.